Di Maria Concetta e di un dibattito anti-‘ndrangheta

Uccise o suicidate cambia poco, almeno rispetto alle nostre responsabilità: non dovevano essere uccise, non dovevano essere suicidate. Di fronte a Maria Concetta Cacciola e alle altre donne morte di ‘ndrangheta, agli oltre 300 omicidi di innocenti trucidati dai clan, siamo tutti colpevoli. Questa consapevolezza è indispensabile, se vogliamo fare finalmente un ragionamento onesto sulle cosche, sulla Calabria. Senza indulgenze, senza ipocrisie, senza scorciatoie. E senza pulpiti impropri.

LA STORIA CHE CAMBIA – La collaborazione lucida e dolorosa di Maria Concetta Cacciola, la sua morte disperata hanno cambiato la storia della ‘ndrangheta. Per sempre. Cetta – in vita e dopo la morte – ha colpito i clan nell’onore e negli affari, ha rotto equilibri immutabili e svelato le regole di un mondo arcaico eppure capace di stare nel contemporaneo. È stato un percorso difficile, contraddittorio, coraggioso il suo. Finito in tragedia, certo. Che rischia di perdersi se non sapremo coglierne l’eredità, che rischiava di naufragare senza l’inchiesta della magistratura che per fortuna ricostruisce i fatti in una terra dove quasi mai gli innocenti hanno giustizia e verità.

LE VERITA’ DI CETTA – Ma la storia di Cetta – la sua vita, la sua collaborazione, la sua morte – non cambia soltanto la storia della ‘ndrangheta. Nel bene o nel male, cambierà anche la storia della Calabria. Cetta ci riconsegna infatti alcune verità, in maniera così forte che a nessuno possono più sfuggire: quella di un sistema familiare (domestico e mafioso) chiuso, ottuso e violento, quello di un patriarcato (o sistema di subordinazione) che genera dipendenza economica, schiavitù psicologica e dominio sessuale, quella di un tessuto sociale che s’è impossessato di parole come onore, rispetto, tradimento e fedeltà (che dobbiamo riprenderci), quello di un apparato istituzionale incapace di costruire efficaci e vitali sistemi di protezione. E quello delle falsità alimentate attorno alla ‘ndrangheta: ci hanno raccontato per anni, per esempio, che il codice d’onore dei clan calabresi impediva di uccidere donne e bambini. “Dimenticati” prima e il nuovo dossier dell’associazione daSud su donne e mafia (in uscita il 24 febbraio) dimostrano numeri e storie alla mano che non è vero.

LE RISPOSTE CHE NON ARRIVANO – Ha fatto anche di più Cetta: senza volerlo, ci ha messi a nudo. Tutti. Ci ha interrogato, e le risposte che ci ha chiesto purtroppo tardano ad arrivare per un vuoto di discussione pubblica (che spero che l’appello del direttore del Quotidiano contribuirà a riempire) o per un disperante, volgare e strumentale dibattito.
Maria Concetta mette in discussione le nostre certezze, il sistema costruito e alimentato da chi fino a oggi ha avuto dei ruoli di responsabilità. Fallimentare, altrimenti non staremmo qui a discuterne. Ci chiede di rovesciare la concezione del potere e di trovare nuovi strumenti per criticarlo. Ci chiede di giocare in campo aperto. Rischiando, certo. Ma sapendo anche che non ci sono molte alternative.

SENZA SCONTI – Partendo da quello che siamo, senza sconti. Dal fragile sistema sociale, del debole – e spesso compromesso – sistema economico e imprenditoriale, dall’imbarazzante e complice sistema politico, dalla commissione d’accesso al Comune di Reggio Calabria, dal nervosismo preoccupante del governo regionale, da un sistema dell’informazione regionale che diffonde più veleni che notizie. E dallo scontro violentissimo che sta avvenendo per la ricomposizione degli assetti che seguirà, tra l’altro, al cambio al vertice della Procura di Reggio Calabria. Avviene sempre così: corvi e veleni, intimidazioni e bombe, omicidi e ferimenti hanno accompagnato tutti i cambi di potere in Calabria.

LA PAROLA STRUTTURALE – E ripartiamo anche dal giudizio della Dna che a proposito del rapporto ‘ndrangheta – Calabria usa la parola “strutturale”. Grave, pesante. Eppure con buoni margini di corrispondenza con la realtà. Che significa che quando si dice che la ‘ndrangheta sta nella società, nell’economia, nella politica e nel potere non si stanno costruendo allegorie, si sta raccontando un metodo di organizzazione di un pezzo di società, addirittura – come ha sostenuto anche l’ex presidente della commissione antimafia Francesco Forgione – di un pezzo di capitalismo. Che “non c’è – come ha spiegato Giuseppe Pignatone qualche giorno fa – una sola fetta sociale vergine”.

LA ‘NDRANGHETA IN MEZZO A NOI – Ma, per dirla sempre il procuratore di Reggio Calabria, “bisogna sempre distinguere il grano dal loglio”. E cioè non bisogna commettere il duplice errore di pensare che la ‘ndrangheta sta fuori e lontano da noi o, viceversa, che tutto sia ‘ndrangheta dentro e attorno a noi. Quando il Quotidiano della Calabria lanciò la manifestazione contro la ‘ndrangheta decidemmo di partecipare. Sfilammo dietro uno striscione che diceva: “La ‘ndrangheta è viva e marcia insieme a noi… purtroppo”. Abbiamo difeso ed esercitato il diritto agli spazi pubblici in un territorio in cui sono pochi e fragili. Abbiamo spiegato che sapevamo che in quel corteo c’era anche chi avrebbe dovuto restare a casa e sentirsi addosso il disprezzo degli onesti. E abbiamo ribadito una cosa di cui siamo profondamente convinti: se abbiamo compreso davvero la complessità della ‘ndrangheta, l’unità nell’antimafia non può essere un valore a prescindere. Non tutti i percorsi sono uguali: non tutte le istituzioni, non tutti i politici, non tutti gli imprenditori, non tutti i giornali, non tutte le associazioni. Il metro per costruire è quello del rigore da mettere continuamente alla prova, è quello del misurarsi sui fatti.

CHIAROSCURO – Bisogna invece provare a leggere le cose in chiaroscuro, misurando gesti e comportamenti, storie personali e alleanze (tattiche, strategiche o d’interesse) sui fatti, le questioni, le vertenze. Sul lavoro (l’assenza di lavoro e il lavoro nero), le grandi opere e gli appalti, la cura del territorio, la denuncia delle compromissioni vergognose di certa borghesia, le mazzette, il destino dei lavoratori stranieri, la selezione della classe dirigente, il silenzio imbarazzato o sprezzante dei politici sulla cosiddetta area grigia, l’impiego dei soldi pubblici, il senso delle campagne di stampa. E su quanto conviene (o non conviene) fare affari con le cosche in epoca di crisi, su come il sindacato difende i diritti dei lavoratori, su come le libertà vengono calpestate e i diritti negati, sul welfare che scompare, il degrado etico, il garantismo invocato soltanto per i forti, l’assenza di conflitto sociale. Un discorso che vale innanzitutto per le delegittimate (dai fatti) classi dirigenti locali. Ma può applicarsi anche al governo Monti che comprime i diritti sociali, non pronuncia mai la parola mafia e quando si occupa di clan dimostra superficialità, che non rimuove i prefetti incapaci, che non prova nemmeno a intaccare il legame stretto che tra clan e banche, che è sostenuto da una maggioranza che ha salvato Cosentino (e la maggioranza blindata non può valere soltanto per fare la riforma delle pensioni). Tutto in nome della crisi. Eppure i soldi delle mafie per combattere la crisi potrebbero essere utili.
Nel sentiero stretto descritto da Filippo Veltri ieri su questo giornale, bisogna che ciascuno si metta in gioco. Bisogna che chi ci ha consegnato questa Calabria si faccia da parte, e bisogna che la meglio gioventù si prenda finalmente lo spazio che merita per il lavoro prezioso che ogni giorno svolge e che purtroppo finora non è stato messo a sistema: non ci sono altre soluzioni.

LA SOLIDARIETA’ AL CONTRARIO – Con l’associazione daSud abbiamo fatto in questa direzione alcune proposte concrete. Con buona pace di chi trova utile o appassionante (chissà perché) attaccare un giornalista bravo come Giovanni Tizian. Abbiamo lanciato la “solidarietà al contrario”: proponiamo buone pratiche (alcune mutuate proprio dalla Calabria capace di produrre esperienze straordinarie) ad amministrazioni pubbliche e politici, professionisti e imprenditori, associazioni e scuole, giornalisti e artisti, cittadine e cittadini. Si trovano tutte sul sito iomichiamogiovannitizian.org. Sono un elenco aperto e, come sempre, chiunque può contribuire. Non sono certo la soluzione a tutti i problemi. Nessuno è autosufficiente. Sono però una modalità concreta per agire antimafia. E fare – anche grazie all’8 marzo lanciato dal Quotidiano – una discussione vera (e non interessata) sul futuro della Calabria. Sul futuro di questo Paese in mezzo alla crisi.

(Pubblicato su Il Quotidiano della Calabria il 12 febbraio 2012 con il titolo “Di fronte a loro siamo tutti colpevoli”)

I Calabresi vogliono essere parlati

L’ex sindaco anti-‘ndrangheta di Rosarno Peppino Lavorato ha scritto un commento bellissimo, di cui vado fiero, sul libro “Dimenticati”. Lo ha pubblicato il Quotidiano della Calabria.
Eccolo
di Giuseppe Lavorato*
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Da alcune settimane è nelle librerie italiane‘’Dimenticati, vittime della ‘ndrangheta. La storia e le storie delle donne e degli uomini assassinati dall’organizzazione criminale più segreta e più potente del mondo’’, ultimo libro Danilo Chirico ed Alessio Magro, due giovani intellettuali calabresi che si cimentano con i problemi della loro e nostra terra con passione civile e serietà. Ne danno prova già nell’introduzione, quando scrivono«Cinque anni fa abbiamo iniziato un viaggio a ritroso nella memoria dispersa, occultata e negata di un pezzo d’Italia. Avevamo bisogno – innanzi tutto per noi stessi – di colmare buchi impressionanti. Abbiamo letto e riletto atti processuali, decifrato verbali scritti a mano, riaperto libri obsoleti e sfogliato ingiallite pagine di giornali e riviste, guardato vecchie foto ed immagini rovinate. Soprattutto abbiamo incontrato centinaia di persone. Straordinarie. Le abbiamo ascoltate. Abbiamo sentito dal vivo della loro voce quello che è stato. Parole pronunciate con orgoglio e vigore o strette tra i denti e sussurrate. È un’emozione che non si può dire, spiegare.  Poi è stato il momento del racconto».
Sono parole che si incastonano perfettamente con quelle di Francesco Cascini, magistrato ragazzino di prima nomina nel 1996 a Locri che, nel libro “Storia di un giudice, nel far west della ‘ndrangheta’’, scrive: «Sembrava impossibile che tutto potesse nascere dalle case arrampicate sull’Aspromonte di Africo vecchio, dai cunicoli di Platì, dal silenzio di San Luca, dagli ovili abusivi dei capi più carismatici. Eppure era così.Nella Locride la situazione resta difficile, anche solo da capire, senza aver respirato l’aria di posti come Africo, San Luca. Le persone che ci vivono, la loro cultura, la loro mentalità rappresentano un altro mondo, di fatto incomprensibile a chi non è nato e cresciuto lì».
Pensieri, quelli di Chirico, Magro e Cascini, che ricordano quelli di Corrado Alvaro: “I Calabresi vogliono essere parlati”.  Ciò che è vero per tutti i popoli del mondo, è vero anche per i Calabresi. Per comprenderli e descriverli devi immergerti tra di loro e parlare con loro, invece molto spesso sono raccontati da persone che non li hanno conosciuti oppure sono passati tra di loro, rapidamente, a volo di uccello. Sono tanti i grandi inviati che arrivati in Calabria hanno firmato pezzi superficiali e spocchiosi o hanno usato i microfoni  della televisione come clave con l’unico obiettivo di costruire l’ennesimo caso di omertà, l’ennesima macchietta da schernire. In questo compito sono facilitati da soggetti che, per apparire difensori delle proprie comunità ed ottenere qualche meschino voto in più, negano, minimizzano, giustificano quanto, invece deve essere denunciato con vigore e fermezza. Com’è avvenuto, a gennaio, dopo la spietata e infame caccia al nero e la deportazione dei neri africani che si sono ribellati all’estorsione sulla loro miserrima paga ed alle violenze subite. Mentre chi vuole veramente bene alla propria terra e vuole mantenerne integri e credibili i valori che la nutrono, si misura sui problemi e sui mali che l’affliggono con  il linguaggio della verità nuda e cruda, perché così agisce il medico che vuole guarire l’ammalato. Rifugge dalle parole consolatrici e soprattutto dalle parole e dai comportamenti  che piacciono alla ‘ndrangheta. Denuncia, senza indulgenza, i mali, per poi assegnare la  legittima luce ai comportamenti nobili che sono presenti e vivi in tanta parte delle nostre comunità. La ‘ndrangheta ha raggiunto l’attuale potenza anche perché è stato un fenomeno poco conosciuto fino a qualche decennio addietro, oscurato dalla più appariscente “cosa nostra” siciliana, dalla camorra napoletana e dalla disattenzione dei mass media. Numerose inchieste giudiziarie hanno disvelato la sua crescita vertiginosa  nell’ultimo quarantennio e su di esse si è sviluppata una copiosa letteratura che ne ha divulgato la conoscenza. Diffondere le relazioni della magistratura e degli organi inquirenti, che costituiscono fonti di altissima qualità, è certamente indispensabile per conoscere il fenomeno. Ma la letteratura non può fermarsi ad esse. Deve aiutare ad una comprensione maggiore del fenomeno congiungendo all’indagine giudiziaria un lavoro ed una riflessione che avvenga dentro il corpo vivo delle comunità afflitte dal fenomeno. È il lavoro compiuto da Danilo ed Alessio, nelle 500 pagine del loro racconto che si immerge dentro i problemi drammatici che affliggono il nostro popolo, li vive, li soffre  e li descrive con rigore intellettuale e morale. I capitoli del libro raccontano la brutalità sanguinaria della ’ndrangheta in tutte le sue attività criminali. Sembrano le tappe della sofferenza inflitta al popolo onesto e laborioso, in un accostamento ideale all’iniziativa annuale di un Pastore della chiesa locridea di celebrare la Via Crucis con soste di riflessione e di preghiera nei luoghi simbolo della violenza e del dolore.
Le numerose vittime dell’Anonima sequestri calabrese, così come le morti collegate ai rapimenti: testimoni scomodi, mediatori sgraditi,vittime inconsapevoli e cittadini in cerca di giustizia. La cosiddetta strategia della linea dura che vieta il pagamento dei riscatti, mentre un’altra trattativa impegna apparati sommersi delle istituzioni. E poi il capitolo dei “Fatti di crudeltà inaudita, che nel nome dell’onore violato, del disonore, portano a morte violenta ed efferata donne, sorelle bambini, adulteri e spasimanti colpevoli di amare la persona sbagliata”. Delitti compiuti per riaffermare il “prestigio di casta, quello degli ‘ndranghetisti” al solo fine di poter continuare a fare parte quelle organizzazioni criminali  che si arricchiscono con la violenza ed il malaffare. L’assassinio di umili lavoratori per lanciare il segnale che anche in Calabria, come in Campania, gli affari miliardari dei rifiuti appartengono alle cosche. Ma, assieme alla Calabria peggiore, quella della ferocia inaudita, dei faccendieri ed insospettabili, di parti degenerate della politica e delle istituzioni che hanno contribuito a allargare l’area collusa e grigia e a ingrossarel’accumulazione originaria dei capitali necessari a introdurre la ‘ndrangheta dei pastori e dei guardiani nel mondo dei grandi traffici illeciti, Danilo Chirico ed Alessio Magro raccontano la Calabria migliore, perché sanno che non arriverà nessun angelo liberatore e che i calabresi dovranno liberarsi da soli dall’oppressione della ‘ndrangheta. Per questo le molteplici, spietate ed infami forme che la violenza assume sono raccontate assieme al dolore vigliaccamente inflitto ad inermi ed oneste persone. E tra quest’ultime, il racconto illumina quelle che alla ‘ndrangheta si sono opposte, per indicarle ad esempio.  Nelle belle ed amare pagine del libro ritornano in vita le storie di calabresi, che hanno onorato la loro terra: sono donne meravigliose; uomini in divisa, magistrati, politici, imprenditori, cittadini. La penna descrive la Calabria vera ed intera. La crescita vertiginosa di una organizzazione criminale che dopo aver conquistato un grande potere militare, economico, politico, ricerca anche la legittimazione sociale, tentando di impregnare di se anche attività sportive, ricreative, pseudo culturali, religiose.
E racconta anche la Calabria di chi si oppone, resiste, combatte, lavora per risvegliare all’impegno civile tutte le persone oneste e laboriose, che sono largamente maggioritarie. Perché se non si da voce anche a quest’altra Calabria la battaglia diventa ancora più difficile di quanto già lo sia. E ad essa appartiene anche quel canto-poesia che tocca i sentimenti umani più profondi: “Ma comu si faci ‘nta Calabria i si spara ancora, ma comu si faci ‘nta Calabria i si ammazza ancora, ndavimu u suli ndavimu u mari e sogni d’amuri, ma comu si faci ‘nta Calabria i si ammazza ancora!  Sono alcuni versi della poesia “Ma comu si faci” , ma come si fa a uccidere ancora in una terra che è un paradiso , coi fiori che nascono anche d’inverno, il mare, il sole, composta e cantata dal gruppo punk degli “Invece”, nome scelto da giovani artisti per testimoniare che c’è sempre un’alternativa allo stato di cose presenti. Versi scritti sul finire del secolo scorso da giovani che hanno provato sulla loro pelle  la disoccupazione, l’emigrazione, l’essere chiamati e trattati come gli africani (Ndi ndi jamu ndi ndi jamu, si ma aundi jamu, ndi ndi jamu ndi ndi jamu, comu i profughi fuimu). Versi che richiamano il più importante problema del nostro tempo (l’esodo biblico dei poveri del mondo) e fatti dolorosi di stringente attualità. Versi che, omaggiando il nostro grande scrittore, scrivono e cantano “Non è bella la vita degli africani in giro per il mondo trattati come cani e allora e allora ribellione’’.
Dopo “Il sangue dei giusti’’, “Il caso Valarioti’’, il dossier sulla legittima rivolta degli africani neri e l’infame rappresaglia compiuta contro di loro descritte in “Arance insanguinate”, l’associazione Stopndrangheta.it e molti scritti politico-sociali, “Dimenticati’’ è , in ordine di tempo, l’ultima opera delle tantissime che certamente Danilo Chirico ed Alessio Magro comporranno a beneficio della conoscenza e dell’impegno di quanti vogliono essere protagonisti del riscatto del Mezzogiorno e dell’Italia.
Nota: tutte le frasi in corsivo sono tratte dal libro e sono, quindi, frutto dell’intelligente lavoro degli autori.
*ex deputato e sindaco di Rosarno
( pubblicato sul Quotidiano della Calabria il 24 dicembre 2010)

1980-2010, fatti della storia d’Italia (che parlano all’oggi)/5

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Mimmo Beneventano

In Campania nel 1980 cadono Marcello Torre e Mimmo Beneventano.

Uccisi per l’impegno politico. E la scelta rigorosa di difendere il territorio, la trasparenza amministrativa, la dignità di un popolo. Sono Mimmo Beneventano e Marcello Torre, che la camorra ha voluto morti nel 1980. Due morti che dopo 30 anni richiamano al sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, ucciso quest’anno.
Mimmo Beneventano è un medico con la passione per la poesia, «il medico dei poveri, che ha la porta sempre aperta», spiega Raffaele Sardo il giornalista che delle vittime della camorra ha dedicato il libro “Al di là della notte” (Pironti editore). Mimmo vive a Ottaviano, il paese del boss Raffaele Cutolo, e compie la scelta scomoda di impegnarsi nel sociale e di fare politica nel Pci. Diventa consigliere comunale nel 1975, viene riconfermato nel 1980. Lo ammazzano a 32 anni, la mattina del 7 novembre. È presto, Mimmo esce di casa per andare a lavoro. Lo freddano mentre sale a bordo dell’auto, davanti agli occhi increduli di sua madre Dora che vede tutto dalla finestra. I colpevoli del suo omicidio sono rimasti tra i segreti della Nuova camorra organizzata di Cutolo. Che non esiste più. Di certo, paga il suo impegno contro le speculazioni edilizie e gli appetiti dei clan in un territorio che si appresta a entrare nel parco nazionale del Vesuvio, paga la sua popolarità. Troppo per una camorra che nella gestione del consenso sociale ha una parte importante della forza. Dopo poche settimane, il 23 novembre, c’è il terremoto in Irpinia: una tragedia con migliaia di morti e intere città distrutte. L’affare del secolo per la camorra, che non può certo accettare resistenze. Per questo viene eliminato Marcello Torre, sindaco dc di Pagani (Salerno). «Gli propongono di entrare nel patto tra camorra e politica – spiega Sardo – per gestire la partita del terremoto. Lui non ci sta». È la miccia di una bomba innescata da tempo. Torre è un politico di razza (è stato consigliere provinciale) e viene minacciato già prima di diventare sindaco tanto da scrivere una eloquente lettera-testamento: «Temo per la mia vita. […] Torno alla lotta soltanto per un nuovo progetto di vita… Sogno una Pagani civile e libera». Troppo libera. Lo uccidono a 48 anni, l’11 dicembre. Il mandante è Raffaele Cutolo.
«Va ancora scritta questa pagina di storia della Campania – osserva Sardo – questi due importanti omicidi per molti anni sono stati sottovalutati: per la debolezza della società civile e della politica, perché la camorra veniva letta solo in chiave strettamente criminale». Un errore. Subito dopo quegli omicidi, «il modello Cutolo, dell’uomo solo al comando non regge più e gli scontri tra i clan si acuiscono» e nel 1984 scoppia la guerra con la Nuova famiglia, il cartello degli Alfieri e i Nuvoletta. «Si afferma un nuovo modello con un rapporto sostanziale con la politica», sottolinea Sardo. Sono gli stessi anni in cui una nuova generazione di campani comincia a vedere nell’anticamorra un motivo di impegno importante.

1980-2010, fatti della storia d’Italia (che parlano all’oggi)/1

Avete mai pensato a quanti fatti sono accaduti nel 1980? E a quanto parlano all’Italia di oggi? Questo un lavoro pubblicato dal Quotidiano della Calabria domenica 18 dicembre. Un anniversario, il trentesimo, su cui riflettere.
Sono cinque pezzi: un riassunto dei fatti più importanti (che messi insieme fanno impressione per l’attualità che conservano), un’intervista allo storico Piero Bevilacqua, e tre pezzi di approfondimento su tre fatti di mafia avvenuti in Calabria, Sicilia e Campania.

Fatti che parlano all’Italia di oggi. Che magari hanno cambiato il corso della nostra storia e nessuno se ne è reso davvero conto. Fatti che hanno aperto scenari inaspettati e modificato equilibri politici. Che sono l’inizio, o l’inizio della fine, di un modello positivo. Che hanno ucciso e non hanno insegnato niente. Che hanno tracciato una strada dalla quale non si riesce a uscire. Che ci devono delle risposte e non ce le hanno date. Che raccontano un Paese che c’era e uno che c’è.

Fatti che sono accaduti tutti nel 1980. Per caso, certamente. Eppure, come dice nelle pagine successive il professore Piero Bevilacqua, «il caso fa parte della storia e non bisogna stupirsi se esiste una coincidenza di eventi che si somigliano, creano coerenza». Non sarà importante come il 1948 per la Costituzione, non come il ‘60 celebrato da Gabriele Salvatores, non come il 1968 o il 1977. Eppure il 1980 è importante. E a trent’anni di distanza, basta leggere d’un fiato i fatti, le date per capire che è stato un anno straordinario. Nel bene e nel male.
Parla, e parla molto, all’Italia di oggi, alle sue regioni con i conti disastrati (Calabria in testa), il fatto che il primo gennaio 1980 entra in vigore il Servizio sanitario nazionale che diventa presto un modello per mezzo mondo.

Il 6 gennaio viene assassinato a Palermo il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, uomo nuovo della Dc. Guarda a sinistra e chiude le porte a Cosa nostra. Una bella differenza con la Sicilia di oggi. Sarebbe diventato vice di Zaccagnini e avrebbe continuato il dialogo con il Pci. La sua morte e il “preambolo” anticomunista di Carlo Donat Cattin hanno cambiato il corso delle cose.
Il 12 febbraio le Br uccidono il vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. Non è l’unica vittima del terrorismo. Cade anche il giornalista Walter Tobagi, molti altri. Una scia che va avanti fino al 31 dicembre quando viene ucciso il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi. Il 22 febbraio viene assassinato dai fascisti lo studente Valerio Verbano. A marzo scoppia lo scandalo del calci-scommesse, probabilmente la prima crepa nello sport più amato dagli italiani.
Mettendo in parallelo il 1980 e il 2010 forse non è proprio un’eresia sostenere che idealmente Fiat ha iniziato a scrivere trent’anni fa la storia di Fabbrica Italia, dei diritti negati a Pomigliano, dei licenziamenti alla Sata di Melfi. Da maggio a ottobre succede di tutto, e sembra oggi: le vendite crollano, il duro Cesare Romiti (che pure non accetta il parallelo con Marchionne) prende il timone dell’azienda e annuncia subito migliaia di licenziamenti e di operai da mandare in cassa integrazione. Spunta persino l’idea di vendere all’estero l’Alfa Romeo. Il 14 ottobre accade l’incredibile: per le strade di Torino sfilano i 40mila colletti bianchi di Mirafiori. Naufragano le battaglie sindacali sotto i colpi dei vertici Fiat.

A giugno cambia il destino della Calabria e della ‘ndrangheta: l’11 viene assassinato il segretario del Pci di Rosarno Peppe Valarioti, dieci giorni dopo cade sotto i colpi dei killer l’assessore comunista del comune di Cetraro Giannino Losardo.
Poi è tempo di misteri, intrighi e verità nascoste. Il 13 giugno viene arrestato a New York il faccendiere vicino alla mafia Michele Sindona, il 27 giugno scoppia la guerra (?) sui nostri cieli e nella zona di Ustica un missile abbatte un aereo che trasporta 81 persone da Bologna a Palermo. Il 18 luglio viene trovato – e non si capisce il perché – un mig libico sulla Sila. La mattina del 2 agosto una bomba distrugge la stazione ferroviaria di Bologna e uccide 83 persone. L’8 agosto muore in un incidente d’auto il comandante della base aerea di Grosseto, primo di una serie di strani incidenti legati a Ustica. Pagine buie, a distanza di trent’anni, che raccontano di un Paese a democrazia limitata.

L’estate del 1980 è anche l’estate dell’omicidio (il 6 agosto) del procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, ennesimo capitolo della strategia stragista di Cosa nostra.
C’è un altro evento importante nel 1980, che punta dritto al cuore dell’Italia di oggi: il 30 settembre appare per la prima volta su uno schermo televisivo il logo di Canale 5. Il presidente di Fininvest Silvio Berlusconi inizia la sua avventura di tycoon che lo porterà a monopolizzare il settore, a cambiare il linguaggio e le abitudini del Paese e poi a varcare il portone di Palazzo Chigi. Per la televisione italiana è un’annata da ricordare per almeno altri due motivi: il 21 aprile c’è la prima puntata di Mixer, il bel programma di Giovanni Minoli, a settembre Raitre invece manda in onda il Processo del lunedì di Aldo Biscardi che segna la nascita del calcio parlato.

Poi il protagonismo della camorra. Il 7 novembre a Ottaviano, il regno di Raffaele Cutolo, viene ammazzato il medico dei poveri e giovane consigliere comunale del Pci Mimmo Beneventano: si oppone alle speculazioni edilizie. L’11 dicembre viene ucciso il sindaco di Pagani, il democristiano Marcello Torre che paga il suo rifiuto di fare affari con i clan. In mezzo, il 23 novembre, la tragedia del terremoto dell’Irpinia che fa migliaia di morti, decine di migliaia di sfollati, miliardi di danni. È la sublimazione del sistema perverso che esiste tra inefficienze di Stato, appalti truccati, politica corrotta e dominio dei clan. Le notizie sinistre che arrivano oggi dall’Aquila, con i cittadini esasperati e le cricche e i clan a fare da padroni non sono proprio incoraggianti. Neppure a trent’anni di distanza l’accorato appello del presidente della Repubblica Sandro Pertini («Non vi lasceremo soli», disse ai campani terremotati) serve come insegnamento.