‘Ndrangheta, un racconto mancato

Ha dirompente forza militare e impareggiabile disponibilità economica, si muove con disinvoltura nella globalizzazione e cura ossessivamente le tradizioni, sa essere ciò di cui ciascun territorio ha bisogno e gode di trasversale consenso sociale. E poi, naturalmente, dispone di preziose relazioni ad alto livello, in Italia e Oltreoceano. Tasselli fondamentali ma non sufficienti. Per comprendere appieno l’immenso patrimonio di potere della ‘Ndrangheta ne manca almeno un altro: il silenzio.
Nessuno la nomina, la conosce o la capisce davvero, la ‘Ndrangheta. Al punto che  sbagliano persino a scriverla o a pronunciarla. La scrivono n’drangheta, la pronunciano andrangheta. Capita a giornalisti e politici, intellettuali e presentatori televisivi. Persino a chi di mafie si occupa per mestiere. Era così dieci o venti anni fa, è ancora così. Nonostante la ‘Ndrangheta sia divenuta protagonista assoluta della scena mondiale.
Non una banale questione di forma, piuttosto il segno inequivocabile che mai è stata presa sul serio: l’hanno derubricata a questione di banditi e cafoni e confinata in fondo allo Stivale persino quando – nella stagione dei sequestri  – ha costretto il Paese a occuparsi di lei.
Probabilmente è accaduto perché la Calabria – e con lei la ‘Ndrangheta – è rimasta a lungo coperta da un’ombra che le ha negato una rappresentazione di sé. È una regione piccola e poco popolosa, economicamente fragile e priva di tradizione informativa. Tutti elementi che l’hanno resa vittima di una sorta di patto non scritto per cui il Paese l’ha considerata una terra persa e quindi non meritevole di attenzione, racconto e investimenti. E quindi il luogo perfetto per le operazioni politiche o imprenditoriali più spregiudicate.
Ma c’è di più. La Calabria ha avuto – ha – una classe dirigente delegittimata dai fatti, spesso compromessa, incapace di affrontare le contraddizioni di una terra orgogliosa eppure rassegnata, rancorosa eppure capace di generosi gesti di accoglienza e cittadine e cittadini incapaci di decidere collettivamente del proprio futuro.
La ‘Ndrangheta – mente raffinata e braccio violento – ne ha approfittato: ha scelto l’inabissamento, sfruttato la crisi di Cosa nostra, cavalcato le leggi del capitalismo, lo strabismo interessato delle classi dirigenti e la poca curiosità dei media ed è diventata la mafia più ricca e potente restando la più sconosciuta e impenetrabile.
Strano, e vero. Per verificarlo basti pensare a quanti nomi di boss, vittime innocenti, luoghi della ‘Ndrangheta sono conosciuti oltre il Pollino. E poi ripetere questo banale esercizio con Cosa nostra o la camorra, persino con la mafia americana. Lo stesso discorso vale per la produzione culturale: c’è un filone importante (anche dal punto di vista dei numeri) che riguarda le mafie – siciliana e campana, statunitense o sudamericana – ma non ancora, non abbastanza della ‘ndrangheta. Per almeno tre concause: per molto tempo non è esistito un mercato (i  recenti segnali di cambiamento non sempre sono premiati dal pubblico), non c’è ancora un sistema Calabria capace di sostenere gli sforzi creativi, i media italiani o internazionali non sono stati sinora abbastanza curiosi o interessati a vincere i pregiudizi.
Per questo hanno fallito il loro racconto persino un maestro del cinema come Luigi Comencini con il suo “Un ragazzo di Calabria” o, addirittura, la Bbc che a Reggio Calabria è divenuta famosa per il falso reportage degli Anni 90. Non ha cambiato le cose neppure l’enorme visibilità di alcuni magistrati.
Le eccezioni almeno sul piano della qualità naturalmente non sono mancate – l’opera di Corrado Alvaro e  “Il selvaggio di Santa Venere” di Saverio Strati, sicuramente lo straordinario “Africo” di Corrado Stajano, alcune altre opere letterarie e cinematografiche più recenti – ma c’è ancora un terreno sterminato da esplorare, e su cui misurarsi.
L’immaginario della Calabria e della ‘Ndrangheta (magari anche dell’anti-‘Ndrangheta) è tutto da costruire: è un tema di libertà e giustizia sociale e al contempo una sfida creativa e culturale, un’interessante prova produttiva. È una grande opportunità, che non andrà sprecata soltanto se si sceglierà di evitare le scorciatoie, di superare (anche da parte dei calabresi) resistenze e pregiudizi, di percorrere strade insicure, di accendere una luce sugli assetti perversi e per nulla tranquillizzanti del potere, di affrontare senza certezze le contraddizioni del Paese
Soltanto così il racconto della ‘Ndrangheta – le sue storie inedite e spiazzanti, così silenziosamente presenti nelle dinamiche sociali, economiche e politiche oltre che nella vita concreta delle persone – avrà un valore artistico oltre che civile. Soltanto allora – usando gli occhi e le parole giuste – avremo compiuto il passo necessario alla lettura del nostro tempo: dire la ‘Ndrangheta.

 

Tratto dal blog Mafie di Repubblica.it

Chiaroscuro, su Mangialibri e Critica letteraria

“”…romanzo di genere, solido, intenso, potente, asciutto, brillante, chiaro, ben congegnato, sviluppato in maniera ampia, armoniosa e variegata, ricca di suggestioni, con taglio cinematografico mai noioso o didascalico” (Gabriele Ottaviani)

Dalla recensione su Mangialibri

“Personaggi storici, figure politiche reali e nomi inventati. Una rete realistica, una fotografia del qui e ora convincente per il lettore, con la quale sussurrargli nell’orecchio che sì, ciò che sta leggendo non è solo finzione; che quei movimenti che ha visto uscendo di casa, quei ragazzini sorridenti, quella roba che sente al telegiornale, tutte queste cose sono a due passi dal giardino dove porta a spasso il cane”.

“E’ affascinante (anche se disarmante) comprendere… come non ci sia modo di scollegare le attività “sporche” da quelle “pulite”… Tutto questo viene coronato dalla presenza di personaggi, Federico Principe in primis, credibili, veri, tragici; fragili ma non deboli, tuttavia, umanissimi nelle quotidiane avversità… Come tutti noi del resto, che ogni giorno ci svegliamo, vediamo le nostre vite finire chissà dove e dobbiamo comunque portare avanti i nostri impegni. Allora è con lui e con le sue scelte sbagliate che si empatizza, perché in lui rivediamo noi stessi, costretti spesso agli stessi errori, condannati da un passato che spesso rischia di non rimanere tale… Noi siamo, volenti o nolenti, le nostre convinzioni, le nostre disgrazie, i nostri fallimenti… Noi siamo, volenti o nolenti, Federico Principe”.

Dalla bellissima recensione di David Valentini per CriticaLetteraria

La recensione su Critica letteraria