Oltre la retorica, l’eredità dimenticata di Falcone

Sono ore di retorica a buon mercato e ricordi confusi, di parole in libertà e menzogne opportunistiche. Istituzioni che organizzano commemorazioni di maniera. Santificazioni.

E invece, a 25 anni dalla strage di Capaci, Giovanni Falcone andrebbe ricordato con verità e con rigore. Per rendergli giustizia, e perché faremmo un favore a tutti noi.

Non dovremmo allora raccontare soltanto il Giovanni Falcone martire. Dovremmo concentrarci piuttosto sull’uomo e sul magistrato, sull’intellettuale. L’uomo normale e imperfetto, che ha commesso errori, ha avuto paura e ha sofferto. Il magistrato formidabile, che ha cambiato di segno la lotta alla mafia. L’intellettuale capace di leggere fin dentro le viscere del Paese del suo tempo e che parla – ancora inascoltato – all’Italia di oggi, mettendola di fronte a uno specchio che mostra responsabilità, vuoti, inadeguatezze.

Sono molte quindi le cose da ricordare della storia di Giovanni Falcone, e da calare nella nostra realtà. La capacità di leggere i fenomeni mafiosi nella loro complessità, a partire dalla scoperta dei legami tra il denaro della droga, l’imprenditoria e la politica o dall’individuazione di un ruolo di “menti raffinatissime” e “centri occulti di potere” all’interno della mafia. Le doti professionali, che lo porteranno a istruire (e vincere) il primo maxiprocesso o ad acquisire una dimensione internazionale. Il senso del lavoro di gruppo: Falcone ha grande personalità, eppure crede nel pool (fa impressione, se rapportato a certi personaggi di oggi così autocentrati, pronti a tutto pur di andare sui giornali). Il senso delle istituzioni (nonostante le istituzioni). L’essere uomo del popolo (indispensabile, per esempio, per trovare un terreno di comunicazione con il primo pentito, Tommaso Buscetta). Le proposte di riforma (la Procura nazionale antimafia e la Dia, il 41bis e la legge sulla confisca dei beni) che hanno cambiato la lotta ai clan.

L’idea, “banale” e attualissima, secondo cui è importante parlare di mafia, ma è “importante parlarne correttamente” (deflagrante, se rapportata al dibattito di questi anni in cui chiunque si avventura in analisi sui clan e il 416 bis senza avere mai letto neppure una sentenza). Il concetto di professionalità dei magistrati che, per Falcone, significa “innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora”. Chissà se fischiano le orecchie a certi magistrati di oggi.

Eppure non è solo su questo che vorrei si concentrasse l’attenzione. Altre cose della vicenda e del pensiero di Falcone io credo servano all’Italia di oggi. Ricordare, per esempio, il Falcone sconfitto. Che da magistrato che ambisce a un ruolo viene ripetutamente bocciato: giudice istruttore, Alto commissario antimafia, membro del Csm, procuratore antimafia. Sconfitto e rispettoso (silenzioso, al contrario di certi magistrati sempre pronti a lamentarsi di una nomina sfumata). E il Falcone isolato. Quello del “corvo” al tribunale di Palermo e dei veleni, quello che temeva di essere ucciso e quello circondato da cittadine e cittadini infastiditi dalle sirene delle scorte e che chiedevano (come fece una donna dalle colonne del Giornale di Sicilia) di trasferire i magistrati in periferia così da non correre il rischio di essere coinvolti in un attentato. Quello contestato e delegittimato per ogni iniziativa (dal sequestro degli assegni ai viaggi all’estero). Quello della paura. “L’importante – diceva – non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza”.

E infine le due eredità più importanti, per le classi dirigenti diffuse, per la società civile, per la magistratura, per il movimento antimafia, per i cittadini. La prima l’ha raccontata Paolo Borsellino ricordando che Falcone, seppure per un breve periodo, era entusiasta perché “la gente fa il tifo per noi”. E non perché auspicava un meccanismo di delega nei confronti dei giudici, ma perché nella società palermitana, che fino a quel momento aveva osteggiato le inchieste, stavano finalmente avvenendo delle trasformazioni sociali importanti. La seconda invece – l’insegnamento più importante – l’ha scritta e detta lo stesso Falcone: “La mafia rassomiglia ai palermitani, ai siciliani, agli italiani. I mafiosi non sono dei marziani”. L’ideologia della mafia “non è altro che la sublimazione e distorsione di valori che in sé non sono censurabili ma propri di larghi strati del Mezzogiorno d’Italia”. La mafia “non è estranea al tessuto sociale che la esprime”, non è un cancro “proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione”.

C’è un problema di fascino e di consenso. Di possibilità di scegliere e di credibilità delle istituzioni. Di opportunità e poca conoscenza. È questo il portato di Giovanni Falcone, questa la sua grandezza. La convinzione, dolorosa e lucida, di vivere in una società che ha tra i suoi tratti anche la presenza della mafia. E quindi la consapevolezza di poter vincere la battaglia contro la mafia non per una sentenza di condanna o una legge approvata in Parlamento, ma soltanto quando la gente si schiera dalla parte del cambiamento. Perché l’antimafia o è un modo di osservare il mondo ed è larga e popolare o semplicemente non è.

Questo è il Falcone che mi piacerebbe fosse ricordato, che sarebbe bello avere alla base di una nuova identità di questo paese. Un uomo e un magistrato scomodo, che ci scruta dentro – Istituzioni, movimenti, politica e cittadini – e non fa sconti. Che chiede impegno, rigore, serietà. Forse non è un caso, invece, che questi suoi tratti vengano tenuti sullo sfondo a vantaggio di un’immaginetta che – commemorazione dopo commemorazione – perde sempre più colore e significato.

Conferenza “la cultura che si oppone alle mafie” – Video

Video della conferenza su “la cultura che si oppone alle mafie“, del 18 maggio 2012, tenuta da Giulio Cavalli autore di teatro civile; Danilo Chirico giornalista e scrittore.
Si tratta del penultimo incontro del corso di formazione “Legalità, cittadinanza e istituzioni dello Stato nell’ambito della lotta alle mafie”. 
Gli incontri, in programma fino a giugno 2012, sono stati organizzati da Ascrid insieme alla Fondazione Basso e si inseriscono all’interno di un progetto della Tavola Valdese.

per vedere il video cliccare qui

“Coltiviamo la legalità” riparte mercoledì 8 maggio. Chiusura con Max Gazzè.

contiviamio legalita-2 E’ al via la quarta edizione di “Coltiviamo la Legalità”, il percorso voluto e realizzato dall’Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Forlì e sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna, in collaborazione con l’Università di Bologna –Campus di Forlì, le Associazione Libera, Il pane e le rose ed Arci e con il supporto di numerose Associazioni di Categoria ed imprese del territorio. Il progetto, nato nel 2009 a partire dall’iniziativa dell’Amministrazione e di giovani studenti, è cresciuto negli anni coinvolgendo un numero sempre crescente di cittadini e di realtà locali e nazionali che hanno contribuito alla realizzazione delle diverse iniziative proposte, finalizzate a sensibilizzare la cittadinanza, ed in particolare le giovani generazioni, sui temi della legalità e della corresponsabilità, a partire dall’analisi delle forme, spesso subdole e difficilmente individuabili, che la criminalità e le infiltrazioni presentano sul nostro territorio.

“Il programma di quest’anno si presenta ricco di eventi, incontri, momenti di riflessione, spettacolo e sport perché diffondere la cultura della legalità non significa solo parlare di lotta alla criminalità” afferma l’Assessore alle Politiche Giovanili Valentina Ravaioli “ma vuole sottolineare l’impegno individuale alla costruzione di una società più coesa, equa, integrata e sostenibile, a partire dalla cultura e dalla condivisione”. “Il progetto Coltiviamo la Legalità ha raggiunto obiettivi importanti” aggiunge Ravaioli “a cominciare dalla nascita dell’Osservatorio Comunale per la Legalità, di cui presenteremo, in questa edizione, le ricerche svolte sul territorio in collaborazione con l’Università di Bologna-Campus di Forlì”.

Il primo degli appuntamenti previsti, “Il coraggio di dire no. Storie di ordinaria resistenza alle mafie”, organizzato in collaborazione con il circolo ACLI Lamberto Valli, si svolgerà mercoledì 8 maggio alle ore 21.00 alla Fabbrica delle Candele: interverranno i giornalisti Danilo Chirico, direttore di “Paese sera” e Presidente dell’Associazione “Da sud” e Paolo De Chiara, autore del libro ”Lea Garofalo. La donna che sfidò la ‘ndrangheta”. Modererà la serata e leggerà passi da “Il giorno della civetta” di Sciascia, l’attore Alessandro Bertolucci. Continue reading

L’intervento al congresso nazionale di Md

Il 2 febbraio scorso sono stato invitato come presidente dell’Associazione daSud al congresso nazionale di Magistratura democratica (era al centro congressi Frentani di Roma). Un congresso difficile, di rilancio.
Qui il video del mio intervento.
Un congresso attraversato dalle polemiche sull’impegno dei magistrati (Ingroia su tutti) in politica. E con l’intervento straordinario, tra gli altri, di Luigi Ferrajoli.

Aria grigia? Ripensare l’antimafia

Ci sono molti modi per raccontare un Paese. Uno di questi può essere quello di analizzare insieme la politica e il movimento antimafia. Il risultato che viene fuori è negativo: l’Italia non sta bene, per molte ragioni. Per la crisi economica, per la poca credibilità della politica, per l’assenza di una reale prospettiva sul futuro. E per l’incapacità – ed è questo il punto su cui mi soffermerò – di essere antimafia.

La politica di questo Paese non è antimafia. A nessuna latitudine, trasversalmente. Non lo è quando è direttamente compromessa o quando chiude un occhio. Non lo è quando fa relega ai margini le politiche contro i clan o delega a pochi la battaglia. Non lo è quando presuntuosamente prova a gestire le emergenze invece di programmare. Non lo è quando rifiuta il confronto o lo pratica in maniera unidirezionale. Non lo è quando non promuove i diritti ma gestisce i favori. Il risultato è che non sa leggere la società che pensa di governare: arriva sempre un attimo dopo, non sa cogliere i fenomeni, piange lacrime di coccodrillo e dispensa false solidarietà. In Calabria, naturalmente, come ci insegna l’esperienza e come è facile verificare guardandosi attorno, tutto questo è amplificato. E peggiore che altrove.
E il movimento antimafia? Soffre una crisi di identità e di efficacia della propria azione. Dobbiamo avere il coraggio di dirlo. Dopo avere esercitato per molti anni, e spesso in solitudine, una straordinaria funzione sociale, civile e culturale oggi il movimento vive una fase di stanca: l’analisi dei processi è arretrata, il fronte è diviso, le parole d’ordine datate, i riferimenti culturali logori, le battaglie parcellizzate, le alleanze di un tempo sfaldate, le relazioni più recenti a volte troppo pericolose. Da Reggio Calabria a Palermo, da Napoli a Milano la spinta si va esaurendo, la credibilità complessiva scema. È come se stessimo vivendo una sorta di nuovo anno zero. E occorre trovare nuove parole e nuove ragioni per ripartire con un lavoro che è quantomai necessario nello scenario contemporaneo. Soprattutto se ha la capacità di guardare fuori dagli stretti confini dell’antimafia e se ha la forza di condizionare l’azione della politica. Serve una discussione pubblica, franca e rigorosa, a cui dovrebbero partecipare – e non lo fanno – anche le istituzioni calabresi che sono sempre di più attorcigliate su se stesse. Per questa ragione considero importante l’invito a discutere – a partire dall’esperienza – che ci è stato rivolto dal Museo della ‘ndrangheta. Per cui – provando a ragionare sul cosa fare – provo a rispondere alle sollecitazioni che ci sono state fatte sul lavoro della mia associazione, daSud, sulla ‘ndrangheta e l’area grigia, sul rapporto con la politica.

L’associazione daSud.
daSud nasce nel settembre del 2005 e, al contrario di come spesso accade, non in seguito a un evento particolare. Semmai, fare un’associazione antimafie è stata la risposta all’incrociarsi di tante esigenze personali che pensavamo dovessero trasformarsi in collettive. Una necessità, anche e soprattutto perché vivevamo in una realtà sociale particolare come quella calabrese piena di difficoltà. Qui voglio segnalarne tre.
La prima, forse la più importante: ci guardavamo intorno e capivamo che la ‘ndrangheta non era percepita – non lo è tuttora – come un prerequisito dell’agire in questo territorio. Una sensazione pesante, visto che consideravamo, e consideriamo, la ‘ndrangheta il principale ostacolo alla nostra libertà di cittadine e cittadini.
La seconda difficoltà – personale, ma che pensavamo dovesse essere collettiva – era una sorta di senso di inadeguatezza per il fatto che conoscevamo troppo poco della nostra storia recente. Siamo senza memoria, ci siamo detti. E per questa ragione, ormai più di sei anni fa, ci siamo messi in viaggio. A partire dalla Calabria, per tutto il Sud d’Italia. Volevamo conoscere, capire. Ne è valsa la pena: abbiamo scoperto un passato straordinario fatto di un vero movimento anti-ndrangheta, di donne e uomini che hanno rivendicato diritti, condotto con coraggio e passione battaglie sociali e civili di grandissima importanza. Donne e uomini che rappresentano “la meglio gioventù” meridionale e calabrese, per dirla come Marco Tullio Giordana. Esperienze e storie che devono costituire il nostro Dna di calabresi. E meridionali, italiani.
Nel corso del nostro viaggio dentro la Calabria abbiamo anche scoperto che la zona grigia non è certo nata oggi. Esiste, e agisce, purtroppo almeno dalla seconda metà degli anni Settanta. Da allora si è andata rafforzando, strutturando. Abbiamo fatto finta di non vedere: la ‘ndrangheta prima e la zona grigia poi. E non abbiamo voluto vedere neanche l’arretramento della società civile. Il risultato è che oggi la ’ndrangheta è diventata l’organizzazione criminale più potente. E certo non solo per la sua dirompente forza militare. Quello che la rende unica è il mix perverso di sconfinata liquidità economica e di straordinaria capacità di stare nel potere. Così la zona grigia oggi è l’essenza stessa della ‘ndrangheta, il suo tratto distintivo. Per dirla in altri termini, se non ci fosse la zona grigia, se il legale e l’illegale non fossero così confusi e intrecciati, non esisterebbe la stessa ‘ndrangheta di oggi. A me pare un fatto evidente da tanto tempo – almeno per chi l’ha voluto vedere – e le inchieste degli ultimi anni hanno offerto importanti conferme e tratteggiato un quadro sempre più preciso.
La zona grigia della società calabrese – e ormai italiana – si sostanzia nella capacità della ‘ndrangheta di essere un pezzo di politica (non solo di infiltrarla), di fare e disfare candidature, elezioni e bocciature, di distribuire incarichi e far vincere appalti. Lo stesso discorso vale per l’economia: la ‘ndrangheta non si limita a condizionarla, ne è parte integrante. Falsa il mercato, chiede la mazzetta, pulisce il denaro sporco, offre denaro liquido alle aziende, gestisce grandi capitali, investe in immobili e sta dentro i vertici delle grandi società. E la ‘ndrangheta indossa il cappuccio della massoneria, ha relazioni con i servizi segreti, sta nel mondo delle professioni e nell’università, s’è infiltrata nelle forze dell’ordine e nella magistratura. Da Sud a Nord.
Questo vuol dire – è la terza difficoltà che voglio segnalare – che rappresenta un metodo di organizzazione di un pezzo di società, di un sistema economico.

La discussione pubblica e l’estetica dell’antimafia.
Una circostanza che stride in maniera violenta con il livello di discussione – basso, spesso strumentale e interessato – che esiste nella politica, nell’informazione (nazionale e locale), nelle attività dei movimenti sociali, nella consapevolezza diffusa delle cittadine e dei cittadini. Dobbiamo dircelo, senza avere la paura di restarne schiacciati, di non trovare la via d’uscita.
La prima cosa da fare per sconfiggere la ‘ndrangheta è imparare a conoscerla e raccontare la verità. Ecco perché sono molto d’accordo con la scelta del Museo della ‘ndrangheta di darsi come claim “Il primo passo è nominarla”. Perché sta molto nelle corde dell’azione dell’associazione daSud. Con un’aggiunta, però, a cui tengo moltissimo: per nominarla e raccontarla, la ‘ndrangheta, bisogna trovare e usare le parole giuste.
Il movimento antimafia deve essere un movimento popolare, la battaglia che dobbiamo condurre deve essere diffusa e aperta. Tutti devono sentire la voglia e il diritto – oltre che il dovere – di partecipare. Fino a oggi non è stato così, se non per poche fasi della nostra storia. Per questa ragione, come daSud, abbiamo puntato sul racconto e sulla costruzione di un immaginario nuovo. Sulle mafie, l’antimafia, noi stessi. L’abbiamo fatto con onestà, tenendo insieme il rigore della ricerca e dell’inchiesta giornalistica con la sperimentazioni di linguaggi creativi. Un metodo che serve a parlare a tutti e che punta a fare di questo patrimonio comune di conoscenze uno strumento di cambiamento reale della società. Un esempio, che può apparire banale. Il film “I Cento Passi” su Peppino Impastato ha cambiato la percezione della mafia e dell’anti-mafia. È una storia straordinaria: è la vicenda di una persona che ha rotto con suo padre che è un mafioso, che ha chiuso con un pezzo del suo paese, che è impegnata in politica, che fa antimafia con il circolo “Musica e Cultura”. Prima del film, Impastato è uno sconosciuto, dopo diventa patrimonio comune. Ma non solo. Diventa anche strumento per la costruzione di un immaginario positivo e antimafia attorno al quale si creano impegno e aggregazione, partecipazione e nuova consapevolezza. Ecco perché “I Cento Passi” hanno prodotto cambiamento, ecco perché sono un modello possibile. Naturalmente – e su questo l’antimafia tradizionale deve fare autocritica – non basta fare cinema, teatro o musica: non è sufficiente cioè il contenuto (l’antimafia) per fare un buon prodotto culturale capace di parlare davvero alla gente. Fino a oggi, in maniera miope e presuntuosa, s’è pensato così. È necessario cambiare metodo di ragionamento e lavorare per fare buoni prodotti culturali, scavare con curiosità nella realtà, coinvolgere le creatività e le intelligenze migliori, partecipare alla sfida produttiva per essere competitivi sul mercato della comunicazione e della cultura e quindi per raggiungere il maggior numero di persone possibile. Una grande questione – quella dell’estetica dell’antimafia – che daSud ha aperto alcuni anni fa, che sta finalmente trovando la sua strada e sulla quale vogliamo continuare a impegnarci perché la consideriamo decisiva per il futuro del Paese.

Il consenso e la società calabrese.
C’è un altro grande nodo da sciogliere se vogliamo affrontare davvero la ‘ndrangheta. È la questione del consenso, su cui naturalmente l’area grigia gioca un ruolo fondamentale. Oltre a essere una presenza violenta e prevaricatrice, la ‘ndrangheta nella nostra società è un’organizzazione che ha consenso. E gestisce consenso. Naturalmente andrebbe fatto un ragionamento sulla qualità di questo consenso. Ma quale che sia, non cambia il senso delle cose.
Si tratta di una questione che riguarda sia le fasce alte della società sia le fasce basse. A proposito delle classi dirigenti e della borghesia, basti richiamare le dichiarazioni del procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini in occasione dell’inchiesta “Infinito” quando ci mise di fronte al fatto che gli imprenditori milanesi (che non collaborano con gli investigatori) non sono soltanto vittime della ‘ndrangheta, ma hanno convenienza a fare affari con i clan. Un nodo centrale per la comprensione dei fenomeni. E un discorso che può valere per il mondo delle professioni e per la politica: l’influenza, il denaro, i pacchetti di voti possono fare, e spesso fanno, comodo.
C’è poi l’altra faccia della medaglia, che riguarda le fasce più deboli, strettamente collegata alla cattiva gestione della cosa pubblica: la ‘ndrangheta infatti spesso intercetta e soddisfa i bisogni delle persone (la sanità, il lavoro, il welfare). Una capacità che spesso, troppo spesso, il governo nazionale e i governi locali non hanno o al massimo un metodo di lavoro distorto per la cattiva politica e imprenditoria. Ecco allora che la ‘ndrangheta, offrendo servizi e in un certo senso persino opportunità, aumenta il suo radicamento sociale. Da questo punto di vista, la crisi economica e l’arretramento dello Stato nel welfare certamente non aiutano.
Di fronte a questa situazione, credo che si debba fare un’operazione di svelamento delle verità, le tante verità che tutti conoscono e nessuno ha voglia di ammettere. Un’operazione su cui concentriamo buona parte del nostro lavoro. Tra le tante occasioni voglio segnalarne una, che ha avuto un certo riscontro. È accaduto lo scorso 25 settembre in occasione della grande manifestazione “No ‘Ndrangheta” di Reggio Calabria quando abbiamo deciso di stare dentro quel corteo non senza qualche difficoltà. Ha prevalso in noi la necessità della partecipazione. Così siamo scesi in piazza, senza nessun atteggiamento snobistico (che pure ha caratterizzato la discussione in certi ambienti), per dire ai tantissimi ragazzi che manifestavano che non erano da soli nella ricerca del cambiamento. E lo abbiamo fatto anche perché siamo convinti che bisogna riempire gli spazi della democrazia che altrimenti finiscono in mano ai clan e alla mala politica. Abbiamo sfilato pronunciando le nostre parole dietro il nostro striscione su cui c’era scritto “La ‘ndrangheta è viva e marcia insieme a noi… purtroppo”: un modo per sottolineare quello che tutti pensavano e nessuno diceva. E per ribadire che dobbiamo fare i conti con la presenza strutturale della ‘ndrangheta nella nostra società. Se ci manca questo elemento di consapevolezza, non può che mancarci qualunque strategia efficace di contrasto.
È proprio questa una delle ragioni per cui, al contrario di come si usa dire di solito, io non considero l’unità nella lotta alla ‘ndrangheta un valore in sé. Sono per il discernimento, rivendico la necessità e il diritto di guardare le cose in chiaroscuro e scegliere i miei compagni di viaggio. Anche le ultime inchieste lo dimostrano: persino chi sembrava essere al di sopra di ogni sospetto non lo era. Questo vuol dire che la ‘ndrangheta sta dentro la carne viva della nostra società. E dobbiamo avere la capacità di dirlo.
L’informazione, in Calabria e sulla Calabria, complessivamente da questo punto di vista non ci viene in aiuto. Anzi. Il problema è antico e grave. E se in Calabria esiste una guerra tra poteri di cui spesso i giornali e le tv sono parte in causa (tanto che persino le battaglie che sembrano antimafia sono spesso parte di questa strategia), l’informazione sulla Calabria non è certo da prendere a modello: salvo rare eccezioni, ci confrontiamo con giornalisti poco curiosi, che parlano sempre con le stesse fonti, raccontano sempre le solite storie, si lasciano prendere dalla voglia di fare sensazionalismo, produrre un nuovo caso di omertà o un nuovo scandalo. E questo non lo dico certamente per difendere l’immagine della città o della regione come spesso fanno impropriamente i nostri politici. Lo dico perché i media mainstream hanno rinunciato al piacere del racconto e della complessità, hanno alimentato il pregiudizio e le visioni parziali provocando un grande danno alle cittadine e ai cittadini calabresi e all’intero Paese. La conseguenza è che c’è un pezzo d’Italia incapace di raccontarsi e che oggi purtroppo non ha coscienza di sé. Nel bene e nel male. Ci è cascata persino la Bbc: negli anni Novanta – ricorderete – vennero a Reggio Calabria per un reportage e non seppero fare di meglio che portare le siringhe “da casa”, svuotarle sul corso Garibaldi e poi riprenderle. Furono smascherati. Ma questo episodio dà il segno di quanto sia difficile parlare di buona informazione sulla Calabria. E di quanto sia stato complicato fare uscire dall’angolo la nostra regione, il nostro Sud.
Con i nostri libri, i documentari, gli spettacoli teatrali e i cortometraggi, i video musicali e i fumetti, i disegni e le fotografie – che in questi anni con grande fatica abbiamo prodotto, promosso e realizzato con daSud – abbiamo provato a decostruire gli stereotipi che la cattiva informazione, la malapolitica e la ‘ndrangheta hanno costruito lungo tre o quattro decenni. Abbiamo dimostrato che quello delle cosche è un falso codice d’onore, che non è vero che i mafiosi si uccidono tra di loro, che non ammazzano donne e bambini, che è falso dire che non ci sono stati delitti importanti, che è una bugia dire che la ‘ndrangheta riguarda solo un pezzo di società, che è sbagliato pensare che non c’è stato nella storia della Calabria un movimento anti-‘ndrangheta. E poi un’altra cosa abbiamo dimostrato: che le classi dirigenti hanno mentito e non hanno pensato al futuro di questa terra. Che i calabresi hanno dimenticato – colpevolmente – le storie di oltre trecento innocenti ammazzati dalla ‘ndrangheta. Che i calabresi non hanno ancora trovato la chiave per raccontarsi.
Su questo occorre lavorare, con continuità e rigore. Se non sciogliamo la grande questione del racconto reale e del discernimento nelle nostre relazioni, ogni strumento di cambiamento sarà depotenziato, spuntato.

La politica.
Questo ci riporta alla politica e al rapporto con la politica. A questo proposito è bene fare subito due precisazioni. La prima è che la classe dirigente nazionale, e calabrese in particolare, è delegittimata dai fatti: non c’è un progetto sul futuro, non c’è nessuna relazione reale con la vita dei cittadini, c’è una sorta di patto tacito per considerare persi per sempre interi pezzi di territorio, c’è una assoluta incapacità (o è un progetto?) di selezionare gli amministratori di domani. Nello stesso tempo, va rifuggita qualsiasi forma di antipolitica e di lettura semplicistica dei processi decisionali.
Detto tutto questo, posso dire che credo molto nella politica come strumento di trasformazione della realtà. Così il rapporto di daSud con il mondo politico non può che essere franco e fuori da ogni logica di subalternità: come dicevo, non ci piace l’idea dell’unità, c’è profondo rispetto dell’istituzione, ma chi occupa il ruolo istituzionale non per forza è un interlocutore credibile. Per cui daSud pratica i suoi rapporti assumendosi la responsabilità della scelta e del percorso. Non lo fa in maniera ideologica, ma a partire dalla coerenza e dai contenuti. Per dirla in altri termini: daSud è un’associazione che ha un orientamento di sinistra e non lo nasconde. È una scelta fatta in controtendenza rispetto a quasi tutte le altre associazioni, ma che consideriamo un punto di onestà e trasparenza nei confronti di chi decide di fare un pezzo di cammino con noi. Tuttavia, non abbiamo nessun legame di natura partitica, non abbiamo soltanto relazioni a sinistra e difendiamo la nostra assoluta autonomia. Una cosa necessaria perché le associazioni vivono anche grazie al rapporto con gli enti locali. Un punto centrale, che non va ignorato e bypassato: il percorso, il diritto di critica e la capacità di esprimere dissenso e conflitto, il saper rinunciare al finanziamento pubblico quando è necessario per non piegare la barra sono l’unico metro per misurare l’operato di un’associazione. Su questo sono inaccettabili la caccia alle streghe e l’attribuzione arbitraria di patenti da parte di taluni (pure squalificati) soloni, l’appiattimento e i silenzi (troppi) da parte delle associazioni, l’arroganza e il senso proprietario (imbarazzante) da parte dei politici. Un rapporto sano con la politica deve essere fondato allora sulla lealtà reciproca e sulla continua sfida, sull’incessante esame e sul conflitto. E sul confronto costante e non scontato sui contenuti. Fino alla rottura.

La giustizia sociale.
Certo, tutto sarebbe più semplice se il confronto fosse con una politica sana e leale. Non lo è. Basti guardare a cosa accade nella gestione opaca del potere, nel sostegno a giunte e governi in odore di mafia, nella compilazione delle liste elettorali, nel conteggio amaro di amministratori o consiglieri finiti in manette per reati di mafia, nella crescita esponenziale della corruzione. Tuttavia il lavoro delle associazioni non può arrestarsi. Anzi, va rafforzato. Bisogna smettere di usare la parola “legalità” (che non vuole dire più quasi nulla) e parlare di giustizia sociale, uscire dalla logica dell’emergenza e ragionare di sistema, rigettare l’idea degli eroi dell’antimafia e promuovere pratiche comuni e alla portata di tutti, rifiutare il meccanismo per cui i partitti delegano a pochi politici l’impegno contro i clan (una modalità che ha fallito drammaticamente) e fare del profilo antimafia una precondizione per qualunque organizzazione.
Alla politica dobbiamo lanciare una sfida. Che significa difendere il territorio dalle speculazioni, rigettare la logica che ha portato allo sfruttamento dei migranti a Rosarno o Castelvolturno, rivendicare il diritto ai servizi pubblici, pretendere il rispetto delle regole, non confondere il diritto con il favore, ripensare l’organizzazione del mercato del lavoro. A questo proposito una proposta – che ha lo sguardo lungo ed europeo e la capacità di parlare alla vita delle persone di tutti i giorni – formulata da daSud è quella del reddito di cittadinanza come strumento antimafia. Il reddito, strumento di welfare utilizzato in tutti i Paesi d’Europa tranne che in Italia e in Grecia, rappresenterebbe un formidabile mezzo di libertà e di liberazione dal ricatto delle mafie, della malapolitica. Una straordinaria opportunità di pronunciare dei “no” fuori dalla logica del bisogno. Una possibilità di capovolgere dal basso il sistema di relazione con il potere. E su cui – ai di là dell’ideologia di chi in Italia lo considera irrealizzabile – vale la pena misurarsi.
Tutto si tiene, tutto sta all’interno dello stesso quadro sociale. Chi non lo capisce utilizza le categorie di chi pensa che la battaglia antimafia sia inutile, che con le cosche si deve convivere. Utilizza le categorie di chi ha fallito e ci ha consegnato questa società.
La situazione che abbiamo di fronte è complicata. Bisogna che la politica dica parole chiare sulle grandi opere (senza per questo decidere di non realizzarle perché c’è la mafia), sul modello welfare, sulla trasparenza nell’attribuzione degli appalti e delle forniture, sulla gestione dei beni confiscati ai clan e su quella dei beni comuni, sui controlli nelle banche (spesso vere e inaccessibili cattedrali del malaffare), sul contrasto vero alla corruzione, sul giusto funzionamento della giustizia, sull’applicazione delle libertà individuali. Sono tanti i temi su cui misurarsi, purché si parta dalla concretezza. Fino a oggi non ci sono segnali di vita dal governo regionale, non ci sono stati dai governi nazionali, non ci sono neppure dal governo tecnico a cui – nell’azione di risanamento – sembra sfuggire totalmente la presenza decisiva delle mafie in questo Paese.
Un’ultima postilla: l’antimafia sociale, quella che ci appartiene, ha rispetto per la giustizia ma non è sulla giustizia che costruisce la sua azione. A questo proposito ci vengono in soccorso due grandi personalità. La prima è Paolo Borsellino, che spiegava che i partiti non devono “soltanto essere onesti, ma apparire onesti” – e quindi essere al di sopra di ogni sospetto – “facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti” al di là dell’intervento della magistratura. Non servono cioè i giudici per fare le scelte, compilare le liste, scegliere di chiedere un finanziamento, fare una campagna, decidere per chi votare. La seconda personalità è Giorgio Bocca che a proposito del giornalismo in un’intervista mi diceva: “Se uno non è un cretino, la verità la vede subito. Non è difficile capire quello che succede. Si capisce benissimo dove comanda la mafia, dove i politici rubano”. Ecco, da qui deve partire la politica nelle sue scelte, da qui bisogna partire per fare l’antimafia sociale. Che è rivendicazione di diritti sociali e civili, di libertà, che è giustizia sociale non giustizia dentro i tribunali. A ciascuno il suo mestiere.
Noi dobbiamo avere l’ambizione e la capacità di parlare con la gente comune, di imporre i temi della discussione alla politica, creare un nuovo immaginario, utilizzare linguaggi diversi. A una classe dirigente inadeguata e incapace di cogliere l’essenza stessa della parola antimafia, dobbiamo rispondere con un nuovo impegno collettivo. Con la partecipazione, allargando il fronte delle alleanze e della battaglia politica. Sui contenuti e le cose da fare. Con la rivendicazione di diritti, di un’identità. Con rigore e curiosità. Favorendo conoscenza, seminando dubbi, pretendendo risposte. Votando per idee e non per piccole convenienze.
Ciascuno deve fare la propria parte. Le deleghe a pochi sono fallimentari, la personalizzazione dell’impegno antimafia mostra la corda, le guerre che hanno l’antimafia per pretesto sono sempre di più e sempre più gravi, le amnesie e i ritardi sono sempre più diffusi. Basta guarda a quello che ci accade attorno, a Reggio Calabria come a Palermo, fino a Roma o a Milano.
L’antimafia – che ha rappresentato per anni un punto avanzato della società – ha allora il dovere di ripartire su nuove basi. Dobbiamo rovesciare le concezioni usate finora, l’idea stessa di mafia e antimafia, di potere e critica del potere. Le certezze di ieri oggi non valgono più. Cerchiamo strade inedite, lavoriamo a un nuovo immaginario condiviso e una identità originale o il nostro impegno sarà inutile. Combattere le mafie non basta più. Dobbiamo sconfiggerle.

(intervento pronunciato il 5 dicembre 2011 a Reggio Calabria durante il convegno sull’area grigia organizzato dal Museo della ‘ndrangheta e pubblicato sugli atti del convegno)