Oltre la retorica, l’eredità dimenticata di Falcone

Sono ore di retorica a buon mercato e ricordi confusi, di parole in libertà e menzogne opportunistiche. Istituzioni che organizzano commemorazioni di maniera. Santificazioni.

E invece, a 25 anni dalla strage di Capaci, Giovanni Falcone andrebbe ricordato con verità e con rigore. Per rendergli giustizia, e perché faremmo un favore a tutti noi.

Non dovremmo allora raccontare soltanto il Giovanni Falcone martire. Dovremmo concentrarci piuttosto sull’uomo e sul magistrato, sull’intellettuale. L’uomo normale e imperfetto, che ha commesso errori, ha avuto paura e ha sofferto. Il magistrato formidabile, che ha cambiato di segno la lotta alla mafia. L’intellettuale capace di leggere fin dentro le viscere del Paese del suo tempo e che parla – ancora inascoltato – all’Italia di oggi, mettendola di fronte a uno specchio che mostra responsabilità, vuoti, inadeguatezze.

Sono molte quindi le cose da ricordare della storia di Giovanni Falcone, e da calare nella nostra realtà. La capacità di leggere i fenomeni mafiosi nella loro complessità, a partire dalla scoperta dei legami tra il denaro della droga, l’imprenditoria e la politica o dall’individuazione di un ruolo di “menti raffinatissime” e “centri occulti di potere” all’interno della mafia. Le doti professionali, che lo porteranno a istruire (e vincere) il primo maxiprocesso o ad acquisire una dimensione internazionale. Il senso del lavoro di gruppo: Falcone ha grande personalità, eppure crede nel pool (fa impressione, se rapportato a certi personaggi di oggi così autocentrati, pronti a tutto pur di andare sui giornali). Il senso delle istituzioni (nonostante le istituzioni). L’essere uomo del popolo (indispensabile, per esempio, per trovare un terreno di comunicazione con il primo pentito, Tommaso Buscetta). Le proposte di riforma (la Procura nazionale antimafia e la Dia, il 41bis e la legge sulla confisca dei beni) che hanno cambiato la lotta ai clan.

L’idea, “banale” e attualissima, secondo cui è importante parlare di mafia, ma è “importante parlarne correttamente” (deflagrante, se rapportata al dibattito di questi anni in cui chiunque si avventura in analisi sui clan e il 416 bis senza avere mai letto neppure una sentenza). Il concetto di professionalità dei magistrati che, per Falcone, significa “innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora”. Chissà se fischiano le orecchie a certi magistrati di oggi.

Eppure non è solo su questo che vorrei si concentrasse l’attenzione. Altre cose della vicenda e del pensiero di Falcone io credo servano all’Italia di oggi. Ricordare, per esempio, il Falcone sconfitto. Che da magistrato che ambisce a un ruolo viene ripetutamente bocciato: giudice istruttore, Alto commissario antimafia, membro del Csm, procuratore antimafia. Sconfitto e rispettoso (silenzioso, al contrario di certi magistrati sempre pronti a lamentarsi di una nomina sfumata). E il Falcone isolato. Quello del “corvo” al tribunale di Palermo e dei veleni, quello che temeva di essere ucciso e quello circondato da cittadine e cittadini infastiditi dalle sirene delle scorte e che chiedevano (come fece una donna dalle colonne del Giornale di Sicilia) di trasferire i magistrati in periferia così da non correre il rischio di essere coinvolti in un attentato. Quello contestato e delegittimato per ogni iniziativa (dal sequestro degli assegni ai viaggi all’estero). Quello della paura. “L’importante – diceva – non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza”.

E infine le due eredità più importanti, per le classi dirigenti diffuse, per la società civile, per la magistratura, per il movimento antimafia, per i cittadini. La prima l’ha raccontata Paolo Borsellino ricordando che Falcone, seppure per un breve periodo, era entusiasta perché “la gente fa il tifo per noi”. E non perché auspicava un meccanismo di delega nei confronti dei giudici, ma perché nella società palermitana, che fino a quel momento aveva osteggiato le inchieste, stavano finalmente avvenendo delle trasformazioni sociali importanti. La seconda invece – l’insegnamento più importante – l’ha scritta e detta lo stesso Falcone: “La mafia rassomiglia ai palermitani, ai siciliani, agli italiani. I mafiosi non sono dei marziani”. L’ideologia della mafia “non è altro che la sublimazione e distorsione di valori che in sé non sono censurabili ma propri di larghi strati del Mezzogiorno d’Italia”. La mafia “non è estranea al tessuto sociale che la esprime”, non è un cancro “proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione”.

C’è un problema di fascino e di consenso. Di possibilità di scegliere e di credibilità delle istituzioni. Di opportunità e poca conoscenza. È questo il portato di Giovanni Falcone, questa la sua grandezza. La convinzione, dolorosa e lucida, di vivere in una società che ha tra i suoi tratti anche la presenza della mafia. E quindi la consapevolezza di poter vincere la battaglia contro la mafia non per una sentenza di condanna o una legge approvata in Parlamento, ma soltanto quando la gente si schiera dalla parte del cambiamento. Perché l’antimafia o è un modo di osservare il mondo ed è larga e popolare o semplicemente non è.

Questo è il Falcone che mi piacerebbe fosse ricordato, che sarebbe bello avere alla base di una nuova identità di questo paese. Un uomo e un magistrato scomodo, che ci scruta dentro – Istituzioni, movimenti, politica e cittadini – e non fa sconti. Che chiede impegno, rigore, serietà. Forse non è un caso, invece, che questi suoi tratti vengano tenuti sullo sfondo a vantaggio di un’immaginetta che – commemorazione dopo commemorazione – perde sempre più colore e significato.

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