“La bomba” – il dossier

REGGIO CALABRIA – Il ministro della Giustizia Angelino Alfano, a Reggio Calabria con il collega Roberto Maroni per un vertice con magistrati e forze di polizia, annuncia che – finalmente – la parola ‘ndrangheta entrerà nella legislatura italiana. Nel 2010. Segno che esiste nel nostro Paese un ritardo straordinario di conoscenze, competenze, attenzione, consapevolezza. La bomba alla procura generale di Reggio Calabria è gravissima e potrebbe segnare una svolta nel rapporto tra cosche calabresi (che nel frattempo, via via, si stanno impossessando di sempre maggiori spazi in tutta Italia, da Roma alla nuova capitale Milano) e le istituzioni. In mezzo ci stanno i cittadini, la società civile, la politica che ancora in maniera del tutto inadeguata si occupano della prima emergenza nazionale: la criminalità organizzata, la ‘ndrangheta. Lo dimostrano le reazioni di circostanza della politica, le ancora troppo poche persone che hanno scelto di stare in piazza al fianco dei magistrati e per la giustizia in questi giorni proprio mentre a Rosarno i migranti – che vivono in condizioni mostruose e vengono aggrediti persino a colpi di pistola – per la seconda volta in due anni decidono di ribellarsi.

Il dossier di Stopndrangheta.it si intitola “La bomba” e prova a offrire alcune informazioni sulla criminalità organizzata in Calabria, la più potente e sconosciuta delle mafie. Racconta cosa è accaduto in questi giorni in Calabria, fa un excursus sul rapporto tra ‘ndrangheta e tritolo (elencando le bombe più tristemente famose negli ultimi 40 anni), ricorda la prima vera aggressione alla magistratura da parte dei clan calabresi (l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti), spiega quando le ‘ndrine decisero in un summit ad altissimo livello nel Vibonese di rifiutare l’invito di Cosa nostra a partecipare alla strategia stragista, offre alcune chiavi di lettura su quanto accade oggi in Calabria (dalle elezioni regionali alla questione del ponte fino alle guerre tra magistrati). Come sempre è una ricerca parziale, che tutti i lettori di Stopndrangheta.it speriamo contribuiscano a completare, come sempre è una ricerca multilinguaggio che serve a costruire un nuovo tassello di conoscenza.

(introduzione al dossier di Stopndrangheta.it)

“C’è chi dice no” – Dossier racket

Nel 2009 non era la prima volta che un calabrese si opponeva al pizzo e denunciava i suoi estortori. Ha sbagliato il Corriere della Sera nel gennaio dell’anno scorso a titolare così (“Calabria, la prima rivolta contro chi impone il pizzo”) un interessante pezzo – che infatti ripubblichiamo – sulla testimonianza importantissima che l’imprenditore Rocco Mangiardi tenne in tribunale contro i suoi aguzzini a Lamezia Terme. Sono tante le storie di cittadini che non hanno pagato la mazzetta e denunciato gli estortori. Rocco Gatto lo fece negli anni 70, Cecè Grasso negli anni 80, Nicodemo Panetta e Nicodemo Raschillà negli anni 90. E sono solo alcuni dei nomi di martiri calabresi del racket o delle persone che hanno resistito a fronte di problemi gravissimi.

Non è per inutile pignoleria allora che facciamo questa precisazione, ma per la profonda convinzione che – se vogliamo avere una qualche speranza di sconfiggere la ‘ndrangheta – è indispensabile conoscere il nostro passato, individuare i punti di forza e capire dove abbiamo sbagliato.
E se un buco esiste nella coscienza civile calabrese riguarda proprio il rapporto con la propria storia, la capacità di ricordare e reinterpretare la propria parte migliore. Questa amnesia individuale e collettiva si traduce spesso in un’informazione sbiadita e fuori fuoco, in una narrazione inefficace e incompleta di se stessi.
Siamo perfettamente consapevoli che la Calabria oggi vive una situazione complicata, una delle più difficili della sua storia. La ‘ndrangheta aumenta ogni giorno la sua forza e prepotenza, il numero di attentati ai commercianti e agli imprenditori è spaventosamente alto, le modalità di estorsione sono sempre nuove e invadenti (alla tradizionale richiesta del pizzo si affiancano l’imposizione delle forniture e del personale, l’acquisto di quote societarie fino alla sostituzione stessa delle proprietà) e siamo lontani anni luce dal fermento della Sicilia contro i clan. Tuttavia è necessario trovare le energie per avviare un percorso di riappropriazione delle libertà più elementari in Calabria. E questo percorso non può non passare dal recupero della memoria e da un’analisi della realtà che si fondi sulla conoscenza delle informazioni.
Nel dossier “C’è chi dice no” proviamo a restituire verità sulle estorsioni in Calabria e giustizia a chi non ha pagato la mazzetta. Abbiamo messo insieme vecchie e nuove storie, articoli di giornale, fotografie e video, documenti istituzionali e di associazioni, le parole dei testimoni e le analisi degli esperti. Proviamo a costruire tassello dopo tassello un quadro del racket – e soprattutto del movimento antiracket – calabrese. Raccontiamo le storie dei martiri e quelle di chi ancora oggi resiste, pubblichiamo la storia della prima associazione antiracket (l’Acipac di Cittanova) e i rapporti di Sos impresa, le foto delle lettere di intimidazione a Bovalino e le testimonianze di nostri concittadini onesti che hanno deciso di tenere la schiena dritta e di non pagare (Gaetano Saffioti su La7, Tiberio Bentivoglio e Filippo Cogliandro intervistati da Francesca Chirico e Patrizia Riso per Stopndrangheta.it). Nel nostro archivio troverete anche i materiali della nuova campagna contro il pizzo lanciata da Libera a Reggio Calabria (il dossier viene pubblicato proprio in occasione della presentazione) e il modello Addio pizzo analizzato in una tesi di laurea, la legge sull’antiracket e l’analisi dell’avvocato Giovanna Fronte, gli allarmanti dati contenuti in un’indagine di Confindustria Calabria dai quali emerge che troppi imprenditori pagano la mazzetta e soprattutto che troppo pochi vengono assistiti dallo Stato. Lo Stato, appunto. Quello Stato sul quale i calabresi troppe volte non possono fare affidamento.

(introduzione al dossier sul racket di Stopndrangheta.it)

La meglio gioventù antimafia

Meno male che c’è Roberto Saviano, verrebbe da dire: è solo grazie al suo lavoro che la mafia finisce in prima pagina in questo strano Paese. Peccato che c’è Roberto Saviano, verrebbe da dire: raccogliere i suoi appelli o commentarne gli scritti è infatti oggi il modo più facile e diffuso per parlare di mafia e fare antimafia, per i cittadini come per la politica, l’imprenditoria, il mondo dell’informazione. Inutile dire che la responsabilità non è di chi racconta storie che meritano di essere conosciute.

Ecco perché, per provare a ragionare di mafia e antimafia, bisogna partire dalla considerazione che non c’è consapevolezza in Italia sulle mafie e la necessità di fare dell’antimafia una pratica collettiva, generale. Oggi i clan stanno nella politica (sin dentro il parlamento, abbiamo visto) e controllano l’economia, gestiscono il traffico della droga e condizionano il mercato del lavoro, intimidiscono e uccidono, stanno nei paesi sperduti del sud e nei salotti delle grandi città del nord. Le mafie riguardano tutti, concretamente. Eppure la questione è ai margini del dibattito politico, i movimenti sociali se ne occupano occasionalmente, la gente comune la considera lontana da sé.

Non è tutto nero, naturalmente. Qualcosa si muove, di interessante, di vero. Lo dimostrano le 150mila persone che un paio di settimane fa hanno sfilato con Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti, a Milano, la nuova capitale della ‘ndrangheta. A questo proposito, anche da qui, va rinnovato l’appello a fare del 21 marzo la giornata nazionale antimafia. Per legge. A Libera questo Paese deve molto. Innanzitutto la battaglia per la legge sui beni confiscati, la capacità di custodire il dolore dei familiari delle vittime (in 500 lavorano con Libera), la creazione di lavoro pulito sui terreni confiscati, l’internazionalizzazione dell’antimafia, la capacità di fare dell’antimafia una battaglia popolare.

E altre sono le realtà che fanno antimafia in Italia. All’Arci si deve la nascita della Carovana antimafia (un evento itinerante annuale, oggi organizzato anche con Libera e Avviso pubblico che dal 1996, raccoglie tutti gli enti locali impegnati contro le cosche). Legambiente ha invece svelato l’esistenza delle ecomafie ottenendo anche un riconoscimento legislativo, ancora parziale, per i crimini ambientali.
Straordinario è il lavoro fatto dai ragazzi di Addio pizzo: il 29 giugno del 2004 furono capaci di invadere Palermo con adesivi con la scritta “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Uno shock positivo: oggi l’associazione è un punto di riferimento concreto contro le estorsioni, promuove gli esercizi commerciali che non pagano la mazzetta ed è riuscita a determinare la nascita a Palermo della prima associazione antiracket, molti anni dopo quelle nate a Capo d’Orlando o a Cittanova che – nei primi anni 90 – sfatarono il mito dell’imbattibilità dei clan. L’antimafia sui territori è tante altre cose ancora, da indagare e raccontare. Che sia sull’onda emotiva per un fatto eclatante (le lenzuola bianche a Palermo o i giovani scesi in piazza a Locri) o frutto di percorsi più meditati. Sono nati collettivi universitari (a Firenze c’è il forum nazionale) e interessanti premi giornalistici, nascono pizzerie sociali (a San Cipriano d’Aversa) o laboratori multimediali (a Torino), web radio e riviste, aziende agricole (a Polistena o Corleone) e festival culturali, fabbriche (a Trapani) e scuole di formazione (a Milano). Centinaia di percorsi che si uniscono a quelli nati per ricordare le vittime innocenti. E’ un mondo straordinariamente vario e vitale quello dell’antimafia: energie positive e buone pratiche. In questo contesto si inserisce l’attività dell’associazione daSud, nata cinque anni fa. Il nome esprime la provenienza delle persone che la compongono e il punto di vista attraverso il quale leggere l’Italia di oggi. Con due idee di fondo, intimamente collegate: ricostruire la memoria (condivisa dal basso e non riconciliata dall’alto) della “meglio gioventù” del Sud e ragionare attorno alla costruzione di una nuova e originale identità meridionale. Con la creatività, con la pratica politica, mettendo in rete esperienze, idee, progetti, passioni anche apparentemente lontane. Ne sono nati libri e documentari, una collana di fumetti e un archivio multimediale (Stopndrangheta.it), produzioni teatrali e campagne (e-migranti), eventi e rassegne, dossier (Arance insanguinate) e una sede romana (Spazio daSud) che valorizza le creatività meridionali e promuove i diritti sociali e civili.
Un pezzo di percorso svolto nella consapevolezza che è assolutamente necessario rimescolare i paradigmi, ripensare il modo conosciuto sinora di concepire mafia e antimafia, nord e sud, potere e critica al potere. Bisogna smettere di usare la parola (abusata) “legalità” e parlare piuttosto di “giustizia” o, come sostiene don Ciotti, “responsabilità”, uscire definitivamente dalla logica dell’emergenza per ragionare di logiche di sistema e agire con continuità, rifiutare l’idea degli eroi dell’antimafia e promuovere pratiche comuni e alla portata di tutti, rigettare il sistema della delega alle associazioni e assumere ognuno le proprie responsabilità, contrastare le amnesie di Stato e ricostruire le tessere della memoria. E ancora, lo scatto vero sarà capire che l’antimafia non è soltanto stare in un percorso “ufficiale” di antimafia. Ma contrastare i fatti di Rosarno e difendere il territorio dalle speculazioni, affermare il diritto ai servizi pubblici e denunciare i soprusi, pretendere una buona informazione e il rispetto delle regole dalla burocrazia pubblica, contrastare la precarietà sociale e rifuggire dal ricatto occupazionale. Tutto si tiene, tutto è legato da un filo che non si può spezzare. Non capirlo, significa utilizzare le categorie di chi pensa che la battaglia antimafia sia inutile, che con le cosche si deve convivere, che ci sono pezzi d’Italia da considerare persi per sempre. Significa usare gli schemi di chi ha fallito. Di fronte abbiamo scenari importanti, un’agenda stringente. L’antimafia deve guardare al Ponte sullo Stretto e all’Expo di Milano, vigilare sulle speculazioni finanziarie e rafforzare il suo ragionamento sull’uso sociale dei beni confiscati ai clan, individuare (altri) percorsi economici e contrastare la corruzione, deve saper parlare con la gente comune e deve sapersi relazionare senza subalternità con la politica imponendo le proprie priorità, creare un immaginario inedito e utilizzare linguaggi utili a farsi capire dalla gente comune e, perché no, a anche di diventare notizia. A una classe dirigente delegittimata e incapace di praticare l’antimafia (vogliamo scorrere l’elenco dei candidati e degli eletti alle regionali?), occorre rispondere con un nuovo impegno collettivo. Con la partecipazione, allargando il fronte delle alleanze e della battaglia politica. Con la rivendicazione di diritti, di un’identità. Nessuno può tirarsi fuori: la battaglia contro la mafia si vince se ciascuno fa la sua parte. Con rigore e curiosità. Senza più eroi, che poi si trasformano in alibi.

(Pubblicato sullo speciale almanacco del settimanale Carta. Scritto il 25 marzo 2010, 2-10 aprile 2010)

Un intellettuale comunista contro la ‘ndrangheta.A Rosarno, storia di Valarioti ucciso 30 anni fa

Il Pci vinse le elezioni e le ‘ndrine sconfitte si vendicarono uccidendo il segretario della locale sezione, appena due giorni dopo il voto. Con lui, due passi indietro, c’era Peppino Lavorato, ancora oggi memoria storica della sinistra nella Piana di Gioia Tauro

LA SCHEDA 
Giuseppe Valarioti è nato a Rosarno il 14 febbraio 1950. Era un professore di lettere con la passione per l’archeologia. Giovane intellettuale, Peppe aveva partecipato alle lotte per il lavoro e s’era opposto alla speculazione edilizia. A poco più di 25 anni scelse la strada della politica attiva e l’impegno anti-‘ndrangheta. È stato consigliere comunale e segretario del Pci di Rosarno in un periodo di grandi tensioni sociali nel quale lo scontro con le cosche era durissimo. È stato assassinato nella notte tra il 10 e l’11 giugno del 1980, all’uscita di una cena dopo la vittoria alle elezioni. Aveva trent’anni. Il suo omicidio non ha colpevoli. I testi in queste pagine sono una parte del lavoro dell’associazione daSud onlus, impegnata a scavare nella memoria del Mezzogiorno, alla ricerca delle storie della “meglio gioventù”. Confluiranno in un libro di Danilo Chirico e Alessio Magro sulla storia di Valarioti che uscirà in primavera. Il materiale è stato raccolto grazie all’archivio Stopndrangheta.it.

LA STORIA 
Aveva trent’anni e trent’anni fa è stato ammazzato. Due colpi di lupara per soffocare la speranza. È stata la ‘ndrangheta a uccidere Giuseppe Valarioti, l’11 giugno del 1980. La vittoria del Pci alle elezioni era la sconfitta delle ‘ndrine. Ecco che i capobastone della Piana hanno alzato il tiro sul segretario della sezione comunista di Rosarno.

Se non siamo noi, chi lo fa? 

Di famiglia contadina, Peppe Valarioti è cresciuto tra i libri e il lavoro in campagna. Gli piaceva studiare, coltivare i suoi interessi culturali. Laureato in Lettere classiche a Messina, è rimasto presto folgorato dal fascino di Medma, l’antica Rosarno magnogreca. Gli scavi, gli scritti, le ricerche, il confronto intellettuale. Una grande passione, che presto passa in secondo piano. La Piana è terra di disoccupazione giovanile, di grandi speculazioni, di emigrazione, di ‘ndrangheta e affari sporchi. «Questo schifo è anche colpa nostra. E se non siamo noi a batterci chi lo fa?» diceva sempre agli amici. Ecco che Valarioti decide di scendere in campo, con il Pci. Peppe riesce a parlare ai giovani, in un paio di anni prenderà in mano il partito e lo rinnoverà con grande energia.

La rivincita 

La tornata elettorale dell’8 e 9 giugno 1980 è decisiva. Nel 79 il Pci ha perso alle amministrative, a vantaggio del Psi, che governerà con la Dc. «Estorsione mafiosa del voto» la chiama Peppino Lavorato, padre politico di Valarioti e icona dell’antimafia sulla Piana. Le cosche hanno imposto i loro candidati. La strategia del Pci muta: attaccare i capi e parlare alle famiglie dei giovani. Perché per loro una speranza c’è ancora. Sfondano i comunisti a quelle elezioni del 1980 per il rinnovo dei consigli regionale e provinciale. Sfondano nonostante la ‘ndrangheta metta in campo tutto quello che ha. Addirittura, fuori dai seggi si vede don Peppe Pesce in persona, in permesso dal soggiorno obbligato – prolungato ad arte per settimane – per la morte della madre.

L’ultimo giorno 

Nel primo pomeriggio del 10 giugno, Lavorato è ancora in pigiama quando accoglie Valarioti. Un caffè, poi subito a lavoro. I primi risultati si conoscono verso le 4. È un successo: Lavorato è riconfermato consigliere provinciale, Fausto Bubba andrà in consiglio regionale. In sezione l’euforia è alle stelle. Di fronte c’è la sede del Psi, i volti sono scuri. Sembra restare fuori (ce la farà con i resti) il candidato del Psi Mario Battaglini. Una soddisfazione in più. Spontaneamente un gruppone di 40 comunisti parte per un corteo spontaneo verso il quartiere Corea – un nomignolo dispregiativo – che è riserva di voti del Pci ma anche il feudo della famiglia Pesce. Urla, canti, pugni chiusi, poi a pochi passi dalla casa del don ‘ndranghetista, Lavorato e Bubba intimano l’alt, per evitare le provocazioni. Qualche frizione è inevitabile, esplode un battibecco con una donna del casato rosarnese: «Arrivano i porci». Nessuno ci fa caso, in quel momento. La festa continua. E arriva l’idea della cena: «Compagni ce la meritiamo» dice Valarioti. Qualcuno ascolta attento i discorsi dei comunisti, appoggiato alle pareti del bar di fronte.

La cena 

Al ristorante La Pergola, sulla strada per Nicotera, è tutto pronto per accogliere i vincitori. Si mangia tanto e si innaffia tutto col vino buono. Si sprecano gli evviva e le storie divertenti. «Compagni abbiamo vinto», enfatizza Peppino Lavorato alzando il suo bicchiere. Poco dopo la mezzanotte pagano il conto. Valarioti esce dal ristorante per primo, due passi indietro c’è Lavorato. Peppe non fa in tempo ad aprire lo sportello, due fucilate cariche di vendetta lo investono in pieno. Sanguina e si lamenta la speranza della Piana. «Aiuto cumpagni, mi spararu». Quel sangue caldo Lavorato ce l’ha ancora sulle mani, sulla faccia, sui vestiti. Lo ha tenuto stretto durante il viaggio disperato verso l’ospedale di Rosarno. Ma non c’era più nulla da fare. Resta quell’ultimo sguardo che è una promessa, «non ci fermeremo».

La campagna elettorale del 1980 

In quel 1980 i manifesti del Pci non li strappavano né li coprivano. Li capovolgevano. Non è la stessa cosa, affatto. Vuol dire: ti colpisco quando voglio. Ma i comunisti quella campagna la vivono da protagonisti. Due, tre, quattro, cinque comizi volanti ogni sera. Fa nomi e cognomi Peppino Lavorato. La tensione sale, la situazione precipita. I mafiosi non stanno a guardare. E in una notte di fuoco mandano in fumo l’auto di Lavorato e provano a incendiare la sezione comunista. «Se qualcuno pensa di intimidirci si sbaglia di grosso, i comunisti non si piegheranno mai». Peppe Valarioti lo dice con aria seria, aprendo quel 25 maggio il comizio in piazza dopo quell’affronto. Quello stesso giorno arriva in paese tutta la ‘ndrangheta della Piana: è morta la madre di don Peppe Pesce.

Il Pci sotto tiro 

La forza morale del Pci è immensa. E risiede in un semplice principio: mai cedere alla ‘ndrangheta, mai tollerare la corruzione. Un principio praticato con determinazione, in quegli anni. Come tutte le grandi organizzazioni, spesso qualcosa sfugge. Ma l’intransigenza si manifesta nel colpire le mele marce: chi sbaglia non ha una seconda possibilità. Un’intransigenza che costa cara: come in Sicilia, anche in Calabria è il Pci a pagare un tributo di sangue nella lotta alla mafia. A Cittanova i giovani del Pci s’erano fatti carico del rinnovamento dopo l’omicidio del loro compagno Ciccio Vinci nel ’76, a Gioiosa il sindaco Ciccio Modafferi insieme a tanti altri aveva difeso il paese e la memoria di Rocco Gatto, mugnaio assassinato per le sue denunce nel ’77. Poi una nuova offensiva: l’omicidio di Valarioti e quello dell’assessore di Cetraro, in provincia di Cosenza, Giannino Losardo appena 10 giorni dopo. C’è un vero e proprio accerchiamento, partono anche le campagne di denigrazione («La morte di Valarioti? Questione di donne»). I funerali di Valarioti e Losardo sono grandi momenti di democrazia. A Cetraro arriva anche Enrico Berlinguer e annuncia che il partito non si sottrae alla battaglia.

Il comizio di Ingrao 

È passato un mese dalla morte di Peppe. A Rosarno gli hanno già dedicato una piazza. È la sua piazza ed è già stracolma di gente quando arriva Pietro Ingrao. Sul palco un vecchio stanco aspetta il partigiano dei comunisti. È Pasquale Gatto, il padre di Rocco, giunto da Gioiosa per onorare la memoria di quell’altra vittima dell’anti-‘ndrangheta. Tra la folla ci sono anche gli amici di Ciccio Vinci. L’emozione è alle stelle. Le storie della meglio gioventù calabrese si incrociano. E incrociano le delegazioni del Pci giunte da tutt’Italia. Sullo sfondo del palco giganteggia una litografia che raffigura Valarioti e riporta la sua frase epitaffio: «I comunisti non si piegheranno mai».
Il concetto di Ingrao è semplice: se hanno colpito noi possono colpire chiunque. La campana suona per tutti. Ma con una certezza: «Ci hanno ammazzato anche Antonio Gramsci! Ma noi siamo rispuntati più forti». Un lungo, commosso applauso. Il cammino dei rosarnesi riprende lungo le strade d’Italia, attraverso le feste dell’Unità che accolgono le parole commosse di Peppino Lavorato e sostengono una campagna di raccolta fondi. Rosarno deve avere una nuova Casa del popolo, e l’avrà. Intitolata a Valarioti.

Il presidio della libertà 

Quando cala la tensione, i comunisti restano pochi, ma tengono aperta la sezione. Ogni giorno, per anni. Per dire che il Pci non è morto. Peppino, Rafele Cunsolo che è il nuovo segretario, Ninì, Peppe, gli altri sono lì a fare quadrato mentre in paese la gente ha paura e li evita come appestati. Da Roma arriva la chiamata: Peppino Lavorato diventa deputato. Gli anni volano e, dopo un mandato passato a battagliare a Montecitorio per la sua terra, torna a Rosarno. La nuova legge per l’elezione diretta dei sindaci è l’occasione giusta. Si candida, i rosarnesi lo premiamo per due volte consecutive. È una stagione di cambiamenti, in un contesto maledettamente difficile. E’ tempo di beni confiscati e manifestazioni, di minacce e proiettili contro il Comune, della costituzione di parte civile di un comune contro le cosche in un processo civile (primo caso in Italia). È la stagione dell’accoglienza dei migranti, che ormai arrivano a centinaia sulla Piana. Una stagione troppo breve. Ma un seme, quello della “Calabria contro”, che viene da lontano e che bisogna coltivare con passione e grande attenzione.

Il processo 

Due sono le piste battute al processo Valarioti, in parte sovrapposte: quella della Cooperativa Rinascita (il consorzio di agrumicoltori guidato dal Pci) e quella della campagna elettorale dell’80. Nel mirino la cosca Pesce, a partire dal patriarca don Peppino. Valarioti, già nel gennaio dell’80, aveva contestato la gestione della coop (guidata dal cugino Antonio), imponendo una verifica sul meccanismo dei contributi pubblici. Secondo l’accusa (il pm Giuseppe Tuccio), la cosca Pesce imponeva bollette di pesatura gonfiate ed era riuscita a infiltrare la Rinascita. Ma è la tesissima campagna elettorale dell’80 a creare le premesse del primo omicidio politico-mafioso in Calabria. Valarioti continuava a sfidare le cosche. E la sua linea aveva vinto, e convinto. Serviva un segnale forte. Eclatante. Lo aspettano all’uscita dal ristorante quella notte dell’11 giugno, dopo la cena di festeggiamento per la vittoria alle elezioni, quando era insieme agli altri dirigenti del Pci. Colpirne uno per educarli tutti.
Pesce è stato assolto per insufficienza di prove dalla Corte d’assise di Palmi il 17 luglio 1982. Poi il silenzio. Fino al colpo di scena del dicembre del 1983, quando a parlare è Pino Scriva. Il “re delle evasioni”, famigerato ‘ndranghetista di San Ferdinando, è il primo grande (e non unico) pentito della ‘ndrangheta. Secondo Scriva, dietro l’omicidio Valarioti ci sarebbe la decisione della cupola della Piana. Le rivelazioni di Scriva hanno portato ad ergastoli e centinaia di anni di carcere. Eppure l’inchiesta-bis sull’omicidio Valarioti nel 1987 si è conclusa con un buco nell’acqua. Nel 1990, la Corte d’assise d’appello lascia il delitto avvolto nel mistero.

Un paese imploso 

Come nella Tebe di Laio, Giocasta ed Edipo, il sangue versato è una maledizione che si abbatte sull’intera comunità. L’unica soluzione è esiliare i colpevoli. Ma ciò a Rosarno non è avvenuto, non ancora. È una metafora che spiega l’origine di quella Rosarno che tutti abbiamo visto nelle immagini della “caccia al negro”. Il paese del grande movimento contadino del dopoguerra ridotto al silenzio, nelle mani della ‘ndrangheta. Che il delitto del dirigente comunista, ancora impunito, sia all’origine di questa implosione? Quel che è certo è che questo Paese non ha saputo garantire giustizia neppure a un giovane e trasparente eroe dell’anti-ndrangheta come Peppe Valarioti. È da qui che bisogna ripartire. Con la memoria e l’impegno.

(scritto con Alessio Magro, pubblicato su Il manifesto)

Da Roma a Rosarno. E ritorno

Rosarno stravolge le certezze sul Sud e i migranti. Rappresenta il fallimento. E tuttavia ci permette di ripartire.
La rete nata a Roma dopo i fatti di Rosarno è attraversata da questa esigenza, che se ne discuta nelle assemblee nello Spazio daSud o che si organizzino momenti pubblici. Fa un’analisi rigorosa e cerca soluzioni concrete. A partire dai cento migranti arrivati a Roma che ieri insieme a noi hanno rivendicato pubblicamente i loro diritti. Sono i ragazzi che hanno reagito al razzismo e alla ‘ndrangheta. Che sono stati sfruttati e deportati dallo Stato. Con loro stiamo lavorando all’assemblea cittadina e poi al primo marzo, una data importante, persino oltre le intenzioni degli organizzatori o il fatto che il sindacato non convocherà lo sciopero.
Parallelamente, continuiamo a guardare alla Calabria, il vero luogo della vertenza. Con una consapevolezza per noi fondativa: non tutto il positivo è dentro di noi o usa le nostre parole. Come, seppur con limiti, ha dimostrato il No Mafia day a Rosarno. Come dimostrano alcune esperienze politiche, sindacali, imprenditoriali, solidali e associative, il lavoro di don Pino Demasi nella Piana di Gioia Tauro, le iniziative in cantiere per i prossimi mesi.
Ripartiamo da qui, allora. Mettendo in rete esperienze, idee, passioni. Con il portale Equalway, Banca Etica e Carta lavoriamo alla costruzione di una nuova filiera delle arance calabresi: nessuno spazio per chi paga la mazzetta o sfrutta il lavoro nero. Con l’archivio multimediale Stopndrangheta.it abbiamo realizzato un dossier su Rosarno. E’ sul web, avrà una versione cartacea. Per ripartire dai fatti, dalla memoria dei fatti. Lo presenteremo a Reggio Calabria, città di contraddizioni sociali e intrecci perversi. Da spezzare. Lo faremo con associazioni, forze politiche e sindacali, artisti e cittadini. Lo porteremo nelle scuole e anche a Rosarno, per riattraversare un territorio oggi off limits: la prima zona rossa permanente dopo Reggio ‘70. Lo metteremo a disposizione di chi vuole, per riannodare i fili di un percorso di ricostruzione. Che passa da molti luoghi. Anche da Roma, nel nostro Spazio, dove dal 25 al 28 febbraio ragioneremo di Sud e crisi interrogando le voci critiche. Alla ricerca di nuovi linguaggi e percorsi a dispetto di malintese conoscenze del mondo migrante, del Sud, della Calabria. Con questo bagaglio lavoriamo a un’assemblea (il 3 e 4 marzo) all’Unical, insieme a professori e studenti e molti altri (Resecol, Sem, A Sud) per parlare della dorsale della solidarietà, di mafie e di una nuova questione meridionale.
C’è bisogno di rimescolare i paradigmi e riportare la Calabria in Calabria, Roma a Rosarno. I viaggi di sola andata non hanno senso. Serve un nuovo impegno collettivo. Sono tante le questioni in campo, lontane e intimamente collegate: la bomba di Reggio e le mille minacce delle cosche, il mercato del lavoro bloccato, i reportage dei giornali pervicacemente senza notizie, i fatti di Rosarno e la gestione dei fatti di Rosarno. Fino alla costruzione del Ponte sullo Stretto alle porte.
C’è un caso Calabria. Persino il governo – seppure in modo maldestro – se n’è accorto. Occorre una mobilitazione delle mobilitazioni, per ragionare di Rosarno e ‘ndrangheta, lavoro nero e malapolitica. Costruita su parole d’ordine chiare e non equivocabili. Alla classe dirigente senza credibilità si deve rispondere con la partecipazione, la rivendicazione di diritti, di una identità. Il contrario del rinvio a tempi migliori o dei nuovismi di maniera. Bisogna aprire una discussione sul senso di essere e praticare Sud. E costruire un grande momento di partecipazione popolare. Insieme ai tanti calabresi e italiani che vogliono farsi carico di un’emergenza democratica, di restituire verità e giustizia a un territorio, di dare un’opportunità a chi si mette in gioco e non sta chiuso nel proprio spazio. Chi non ci sarà, avrà la responsabilità di non esserci stato. Perché la Calabria non è persa, ma ci siamo vicini.

(pubblicato su Il manifesto)