Capitale in nero – Soldi, sangue e potere

Il quadro è unico. La droga e l’usura, gli omicidi e le gambizzazioni, il gioco d’azzardo e il riciclaggio del denaro sporco. I clan della ‘ndran- gheta e della camorra e le bande che seminano il panico nelle borgate, i professionisti che amano il denaro facile e i politici che di facile amano gli affari degli amici e i pacchetti di voti. Tutto si tiene, grazie a un filo rosso, rovente e pericoloso. Chi sbaglia a toccarlo muore, chi lo sa maneggiare diventa maledettamente ricco, e potente. In mezzo i romani. Che ancora non sanno (o vogliono) vedere, complice una politica tutta impegnata a difendere solo un malinteso senso del decoro di una Capitale in pericolo.

Un quadro unico

Il quadro è unico. Ed è complesso e mag- matico, pieno di insidie e sfumature. È particolarmente difficile allora collocare le mille tessere di un puzzle abitato da vecchi e nuovi poteri e personaggi. Ad offrire una chiave di interpretazione è il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Intervistato dal Tgr sull’emergen- za omicidi, risponde così: «È una cosa che può anche esserci». Colpisce però che orienti subito la sua riflessione in un’altra direzione: «Il problema di Roma invece è negli investimenti che le cosche criminali cercano di fare o nelle attività commerciali o imprenditoriali», grazie anche all’apporto «di commercialisti o professionisti». Bisogna seguire i soldi, allora. La stessa traccia su cui insiste anche il prefetto, Giuseppe Pecoraro, che intervistato dal Corriere della Sera, prima se la prende con i sociologi che «fanno allarmismo, danneggiano l’immagine della città e del Paese», ma poi riconosce che la malavita organizzata c’è «perché investe sul mercato, in attività commerciali e nel riciclaggio». Vale la pena, allora, partire dal vorticoso e gigantesco giro d’affari della Capitale: dalle grandi speculazioni finanziarie e immobiliari, dall’industria del turismo (hotel e ristoranti) che comincia a puzzare di ‘ndrangheta, dai centri commerciali delle periferie che invece sembrano finiti in mano alla camorra, dal gioco d’azzardo (legale e illegale). Dalla droga, innanzitutto: in città arrivano ogni giorno quantità inimmaginabili di stupefacenti. Passano attraverso quel «buco nero che è la dogana di Fiumicino» e dal porto di Civitavecchia. Un business miliardario in mano alla ‘ndrangheta, che gestisce rapporti privilegiati con i narcos sudamericani e messicani, e alla camorra. I clan operano quasi sempre senza pestarsi i piedi: si limitano a gestire gli affari più grossi e a fare da broker per le bande locali che con il piombo dei proiettili, per dirla con il capo della Direzione distrettuale antimafia, Giancarlo Capaldo, «si stanno contendendo il territorio».

Ma per capire cosa accade bisogna con- centrare l’attenzione anche su un altro affare tradizionale della mala romana: l’usura (vedi articolo a pag. 15). Que- stioni di sempre, come spiega nel 1991 la commissione parlamentare antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte: la malavita dispone di una «imponente liquidità» che consente «di penetrare nel mondo economico modificandone i vecchi assetti» con il «coinvolgimento» del mondo delle professioni. Non era Cassandra, la commissione antimafia. Osservava la realtà. Che è peggiorata, come dimostrano i numeri. Distaccati e allarmanti. Paese Sera ha calcolato che dal luglio 2010 al luglio 2011 il valore dei beni sequestrati ai clan tra Roma e provincia è pari a 122 milioni di euro, quello dei beni confiscati è invece di 212. A queste due cifre, già importanti, va aggiunta una quota significativa (ma non esattamente quantificabile) di beni sequestrati in blitz fatti tra il Sud e la Capitale, per l’iperbolica cifra di un miliardo di euro.

Altri dati, molto interessanti, contri- buiscono a diradare la nebbia: il primo dice che sono 274 i procedimenti aperti dalla Dda nei primi sei mesi del 2011, il secondo che sono 293 i beni confiscati a Roma (dato dell’Agenzia nazionale al settembre 2011), il terzo riguarda le 211 nuove licenze attribuite a Roma nei primi 7 mesi dell’anno per i negozi di compro oro (il 20% in più dell’anno scorso), una cifra che gli investigatori considerano sospetta. Ma soprattutto un numero rivela l’enormità del capitale in nero: l’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia ha contato ben 2473 operazioni bancarie sospette a Roma (di gran lunga la prima città italiana) nei primi sei mesi del 2011. Una cifra che diventa ancora più preoccupante se si confronta con un altro numero: sono appena 84 le segnalazioni per questo tipo di attività a rischio arri- vate dal mondo delle professioni. Non a caso il direttore dell’Uif Gianni Castaldi, parlando all’Antimafia il 28 giugno, ha segnalato la presenza di «soggetti che, pur non essendo organici al crimine (…) ne sfruttano cinicamente i vantaggi, anteponendo alla legalità e alla giustizia meschini interessi personali».

Roma, per usare le parole del sostituto della Direzione nazionale antimafia Diana Di Martino, è lo «snodo essenziale per tutti gli affari leciti e illeciti», così le organizzazioni criminali «acquisiscono anche a prezzi fuori mercato, immobi- li, società e attività commerciali nelle quali impiegano i capitali illecitamente acquisiti». Un modo per acquistare «il controllo di rilevanti attività commer- ciali e imprenditoriali» e per dotarsi di «fonti di reddito importanti e lecite». Un processo inarrestabile e, tutto sommato, semplice. Per due ragioni: perché a Roma «c’è posto per tutti» (e quindi i clan non si fanno la guerra) e perché tutto avviene senza generare un significativo «allarme sociale», che poi significa anche che non c’è la giusta attenzione, non ci sono – forse – gli anticorpi necessari.

Le inchieste

Un quadro unico, e inquietante – quello che viene fuori dalle inchieste – nel quale, a cavallo tra legale e illegale, si muovono con ruoli diversi professionisti, imprenditori, faccendieri, funzionari di banca, politici, massoni e mafiosi. Come un grande monòpoli con in palio denaro a fiumi e il potere nella città di domani. Emblematico, in questo scenario, è il caso Pambianchi. Il presidente di Confcommercio (a processo il 15 novembre) e il suo socio, il commercialista Carlo Mazzieri, sono accusati dallo scorso marzo di eva- sione fiscale per 600 milioni di euro. La loro organizzazione (almeno 39 persone tra professionisti e prestanome), per la Polizia valutaria della Guardia di finanza, consentiva «mediante operazioni socie- tarie straordinarie di realizzare rilevanti operazioni immobiliari e societarie» e di ristrutturare «gruppi economici gravati da forte indebitamento con l’erario». Un meccanismo perfetto che utilizzava scissioni e fusioni ad hoc, cessioni di rami d’azienda e trasferimenti all’estero. Un affare per 703 società.

Altrettanto grave è il quadro che emerge anche dall’inchiesta su Gianfranco Lande, il promotore finanziario dei vip ai Parioli. Secondo le Fiamme gialle ha «raccolto abu- sivamente risparmio presso il pubblico dal 1994 al 2000»: un giro, su società inglesi e irlandesi, da 1500 clienti e 350 milioni di euro. Lande ha anche «trasferito oltre 700 posizioni abusive, per un totale di circa 235 milioni» a un’impresa francese apparentemente regolare. Tuttavia, allo scadere delle obbligazioni, i soldi invece che ai clienti sono finiti «su conti esteri nella disponibilità degli indagati». Fare la somma di vicende diverse e processi ancora da celebrare può essere arbitrario, ma impressionano, ancora una volta, i numeri: oltre 800 milioni di euro, tra presunte evasioni fiscali e risparmi finiti in un vortice d’illegalità. Dove può diventare difficile distinguere il confine tra vittime e carnefici, come ha sostenuto lo stesso Lande in un’intervista a Repubblica e come ha sottolineato il Giudice delle indagini preliminari dell’inchiesta, Simonetta D’Alessandro, nell’ordinanza di custodia cautelare per bancarotta fraudolenta emessa a settembre: alcuni clienti di Lande «hanno probabilmente capito la natura meramente apparente dell’impresa» e, “convinti” dai super interessi promessi, hanno comunque deciso di investire «sulla pelle» degli altri. Non è un caso, allora, se a fronte di 1678 vittime individuate, le querele sono appena 350. Altri aspetti tutti da approfondire riguardano il ruolo delle banche (tre i direttori di filiale indagati), della ‘ndrangheta (il clan Piromalli avrebbe minacciato Lande), dell’estrema destra (almeno una persona è appartenuta a Ordine nuovo). E c’è da valutare anche la posizione di un manager importante (ex di Finmeccanica) come Pierluigi Romagnoli (che ha curato l’affare degli aerei Eurofighter).

Business importanti. Ma forse non come quelli del gruppo di Gennaro Mokbel, l’imprenditore romano con rapporti con i terroristi neri Mambro e Fioravanti, con uomini della Banda della Magliana e il boss Carmine Fasciani. L’inchiesta Broker ha svelato una rete di aziende italiane ed estere capace di mettere in piedi un giro da due miliardi di euro grazie a gigantesche operazioni di riciclaggio nel settore della telefonia (fu coinvolta innanzitutto Fastweb). Un piano criminale con ambizioni politiche: Mokbel nel 2008 infatti riuscì a portare in Senato con il Pdl il suo amico Paolo Di Girolamo, finito nei guai (e arrestato) per i suoi rapporti con la cosca Arena di Isola Capo Rizzuto, capace di garantirgli l’elezione nella cir- coscrizione della Germania. È certamente più piccolo il giro d’affari svelato dal pm Stefano Pesci a fine settembre, ma il quadro emerso è paradigmatico di un sistema pieno di incrostazioni. Le Fiamme gialle hanno scoperto migliaia di polizze (almeno 2660) concesse abusivamente attraverso un consorzio di garanzia fidi, la Congafid, i cui fondi venivano destinati a società titolari di centri estetici. A finire ai domiciliari il dominus della Congafid Nicola Defina e la sua compagna Sandra Zoccali: è titolare dal 2009 dell’Adonis, la holding che detiene il controllo dei centri estetici e, soprattutto, del Caffè Chigi sequestrato a luglio perché con- siderato di proprietà della ‘ndrangheta (vedi articolo a pag. 16). Affari e relazioni pericolose. E storie che si ripetono. Con imprenditori, faccendieri, picchiatori, usurai e uomini legati alla Banda della Magliana, alle mafie. Chi non ricorda, in questo senso, il crack di Danilo Coppola, protagonista della stagione dei “furbetti del quartierino” e capace di entrare nel salotto buono della finanza italiana. È il marzo 2007 quando l’imprenditore originario di Borgata Finocchio finisce in cella per un crac da almeno 130 milioni. Nell’inchiesta finiscono le banche (che hanno finanziato l’ascesa di Coppola), personaggi come Umberto Morzilli (vedi box a pagina 11), considerato dagli inve- stigatori vicino ad ambienti della famosa Banda della Magliana. Un quadro torbido, ed esemplare.

La mala romana e le mafie

«Non siamo a Napoli o a Palermo», si affanna a dire il sindaco di Roma Gianni Alemanno, lanciando l’ennesimo patto per la sicurezza da discutere a ottobre in consiglio comunale. Ma, è evidente, non siamo neppure di fronte a una “ba- nale” (si fa per dire visti gli omicidi e i ferimenti che si ripetono) emergenza di bande giovanili, per le quali il prefetto Pecoraro, dopo gli ultimi fatti di sangue, ha proposto l’istituzione di una task force. Roma, e non da oggi, deve fare i conti con una presenza forte dei clan. Calabresi, campani, siciliani, stranieri. E anche romani. Suggerisce un magistrato rigoroso, che per anni ha seguito le vicende criminali della Capitale: «Bisogna immaginare un consorzio, una sorta di Ati per capire il rapporto tra la mala romana e le mafie». Nel corso del tempo, «s’è cristallizzato un modello orizzontale di controllo delle attività imprenditoriali». Niente a che vedere con il verticismo di siciliani e calabresi e nemmeno con «il modello della Banda della Magliana, che in un certo momento controllava tutto in maniera solida», né bisogna rifarsi oggi al mito letterario di Romanzo criminale. Esiste uno schema «libero e particolarmente insidioso, evoluto, dal carattere fortemente imprenditoriale, aterritoriale e legato al settore di affare, con una straordinaria capacità di relazione con le altre forme di malavita organizzata». È il paradigma di Roma città aperta alle mafie, condiviso da altri magistrati. Dalle loro riflessioni, anche se con il vincolo della riservatezza, emerge un sistema in cui chiunque voglia fare affari trova un’operatività che con- sente di sviluppare il business al meglio: «è come se ci fosse un’agenzia di servizi criminali super efficiente».

Tuttavia i fatti di sangue dicono che qualcosa sta cambiando (e qualcuno il parallelo con le origini della Magliana lo azzarda). Che cosa stia accadendo ancora non lo sa nessuno. L’associazione Libera rileva tuttavia che i grandi traffici e la gestione dei reati «necessitano per l’ot- timizzazione dei profitti la formazione di una regia di controllo».

In passato

È accaduto che la mala romana abbia avuto rapporti con Pippo Calò e Cosa nostra, ci sono tracce di vertici tra la banda della Magliana e il boss della ‘ndrangheta Gior- gio De Stefano negli anni 70, ci sono i rapporti della Magliana con la camorra per la droga. Uno schema mobile, trasversale, infinitamente replicabile. La straordinaria (a suo modo) storia di Enrico Nicoletti, considerato il cassiere della Magliana, ne è un esempio. In quarant’anni è stato accusato di usura ed estorsione, di abusivismo finanziario e ricettazione, riciclaggio e bancarotta. Dalle indagini emerge soprattutto la ca- pacità di gestire rapporti e relazioni con chiunque, anche contemporaneamente, come dimostrano i suoi rapporti con cosa nostra, la ‘ndrangheta e la camorra, con personaggi della destra come l’ex Nar Massimo Carminati, con la politica e la Dc di Andreotti, con i servizi segreti. Lo dimostra anche l’inchiesta Ibisco contro una cosca della ‘ndrangheta guidata da Candeloro Loruccio Parrello, boss di Palmi (nel reggino), con la residenza a Grottaferrata e gli affari nella Capitale. Secondo il Ros dei Carabinieri, Parrello curava un gigantesco traffico internazionale di hashish e cocaina: nel suo clan c’erano broker romani come il principe Massimo Avesani, camorristi, ex esponenti della Magliana, un ex poliziotto e sudamericani. Lo sbocco di tutto questo erano operazioni immobiliari e finanziarie nella Capitale e il lusso di auto, ville e yacht.

Non c’è solo la ‘ndrangheta nelle radici della grande criminalità romana. Nella Capitale ha avuto una forte influenza un personaggio come Michele Senese uomo della camorra a Napoli ma non a Roma, dove è stato processato e assolto per 416 bis. Secondo i carabinieri, Senese, o pazzo, è un uomo della Nuova Famiglia, arriva a Roma negli anni 80, diventa il riferimento dei campani per tutti gli affari capitolini, traffica droga e controlla Roma Sud, il banco dei pegni, il mercato delle auto, entra negli appalti pubblici. Anche lui lavora con la Magliana e all’occorrenza con i calabresi.

E nessuno che vede

Sangue e soldi. Con ‘ndrangheta e camorra che fanno i grandi affari, i vecchi della Magliana che continuano a esercitare il loro carisma, i gruppi locali che si con- tendono il territorio a colpi di pistola. E soprattutto il mondo dell’economia che gode dei benefici del denaro sporco, soprattutto in epoca di crisi. Nel silenzio generale. Eppure, come dice nel 2008 l’ex sostituto della Direzione nazionale anti- mafia, Luigi De Ficchy (oggi procuratore a Tivoli) a Roma si lavora sulla crimina- lità organizzata «da trent’anni». C’è un ritardo di consapevolezza che la città rischia di pagare a caro prezzo. Ci sono le complicità istituzionali, le collusioni bancarie, le convenienze delle professioni, le colpe della politica, c’è il concetto della sicurezza declinato soltanto sull’ordine pubblico e i piccoli reati. E ci sono le forze dell’ordine che lamentano tagli a uomini e mezzi, una procura che vive un momento difficile: spaccata al proprio interno, con il capo in scadenza e il capo della Dda sotto indagine disciplinare per il caso Milanese.

Serve un’assunzione di responsabilità di tutti e di ciascuno. Non basta il lavoro prezioso delle associazioni antimafia. Il rischio è che Roma si ritrovi a vivere una stagione come quella in Sicilia negli anni 50, in Calabria negli anni 70 e a Milano negli anni 90. Quando nessuno ha voluto vedere. Anche quando si conoscono i nomi e i cognomi di chi sta aggredendo il tessuto economico e sociale della città. Basta scorrere l’elenco dei proprietari effettivi dei beni sequestrati solo nell’ul- timo anno, dal centro alla periferia fino ai comuni dell’area metropolitana, alle organizzazioni mafiose: Alvaro, Mallardo, Fairè, Schiavone, Cava, Ciarelli, Tripodo, Diana, Chianese, Pesce, Belforte, Gallico, Molè. E seguire la traccia dei soldi.

(Paese Sera n. 5 – Capitale in nero – Ottobre 2011)

Io mi chiamo Giovanni Tizian

Sostenere un giornalista minacciato dalle mafie e sotto scor- ta significa anche diffondere il più possibile le sue parole. Mammasantissima questo mese è scritta da Giovanni Tizian.

«Ispettore, ha visto che siamo brave persone, i beni ce li hanno restituiti!». Quei volti Leonardo ce li ha impressi nella mente fin da quando tirava calci al pallone per le strade del suo piccolo paese della Locride. Strade sterrate, bucate, lasciate in balia di voragini che devastano le sospensioni delle auto. Qui la cappa di ‘ndrangheta c’è, si vede, si respira. Quella stessa cappa che a Roma c’è ma non si vuole vedere. Che governa settori di eco- nomia legale e illegale. Per molti non esiste. Neppure quando gestisce la “dolce vita” romana, il fenomeno preoccupa, neppure quando il sindaco Alemanno finisce, senza saperlo e ignaro di tutto, a un party elettorale al Cafè de Paris – da qualche mese confiscato agli Alvaro di Sinopoli – con una potente famiglia di ‘ndrangheta. Perché preoccuparsi? “Non possiamo conoscere i loro trascorsi, i loro rapporti”, rispondono ormai numerosi i politici d’ogni parte d’Italia. Nel dubbio, i voti non hanno odore. Politici, anche indagati, che urlano «non sapevamo fossero boss», e ‘ndranghetisti che sanno benissimo chi hanno davanti. Sulla sicurezza si fanno campagne elettorali, sulle politiche antimafia no. Nonostante la ‘ndrangheta scippi il futuro nel silenzio di tutti, lo rubi al Paese, ai romani e a Roma, non solo ai calabresi. Ecco, appunto i calabresi, ne conosco tanti di onesti, a dire la verità conosco solo calabresi onesti, perché a nessun ‘ndranghetista ho stretto mani.

L’ispettore di quel piccolo borgo della Locride, era una persona onesta. E con il suo meticoloso lavoro aveva sco- perto che la ‘ndrangheta di San Luca, cuore dell’Organizzazione, aveva messo le mani nel petto della capitale d’Italia. Ha scritto rapporti, compilato informative, sequestrato beni e ristoranti. Quell’ispettore, nato e cresciuto nella Locride, sa di cosa sono capaci quei mammasantissima di San Luca che si fanno chiamare imprenditori, e godono di appoggi “imbarazzanti” nella Capitale. Oggi lavorano e investono in mezzo mondo i soldi guadagnati sulla pelle degli onesti. Talmente importanti che la spada della Legge si piega e non può nulla contro di loro, e all’ispettore non resta che subire il ghigno dei due “imprenditori” liberi e con i beni dissequestrati. La ‘ndrangheta a Roma non deve esistere, l’ispettore se ne faccia una ragione. Ma per altri che hanno letto quel rapporto, e numerose altre relazioni investigative, beh, a Roma la ‘ndrangheta c’è, e per chi l’ha vissuta nella provincia di Reggio Calabria, si vede anche.

Lucarelli racconta: Rosarno

Lunedì 20 dicembre su Raitre a partire dalle 21 la terza puntata del nuovo programma di Carlo Lucarelli “Lucarelli racconta”. Nell’ambito dell’inchiesta realizzata, tra gli altri, da Mario Portanova e che riguarda il mondo del lavoro in Italia si parla anche del caso Rosarno. Ci sarà anche l’associazione daSud con il suo dossier Arance insanguinate e un’intervista a Danilo Chirico.

Un intellettuale comunista contro la ‘ndrangheta.A Rosarno, storia di Valarioti ucciso 30 anni fa

Il Pci vinse le elezioni e le ‘ndrine sconfitte si vendicarono uccidendo il segretario della locale sezione, appena due giorni dopo il voto. Con lui, due passi indietro, c’era Peppino Lavorato, ancora oggi memoria storica della sinistra nella Piana di Gioia Tauro

LA SCHEDA 
Giuseppe Valarioti è nato a Rosarno il 14 febbraio 1950. Era un professore di lettere con la passione per l’archeologia. Giovane intellettuale, Peppe aveva partecipato alle lotte per il lavoro e s’era opposto alla speculazione edilizia. A poco più di 25 anni scelse la strada della politica attiva e l’impegno anti-‘ndrangheta. È stato consigliere comunale e segretario del Pci di Rosarno in un periodo di grandi tensioni sociali nel quale lo scontro con le cosche era durissimo. È stato assassinato nella notte tra il 10 e l’11 giugno del 1980, all’uscita di una cena dopo la vittoria alle elezioni. Aveva trent’anni. Il suo omicidio non ha colpevoli. I testi in queste pagine sono una parte del lavoro dell’associazione daSud onlus, impegnata a scavare nella memoria del Mezzogiorno, alla ricerca delle storie della “meglio gioventù”. Confluiranno in un libro di Danilo Chirico e Alessio Magro sulla storia di Valarioti che uscirà in primavera. Il materiale è stato raccolto grazie all’archivio Stopndrangheta.it.

LA STORIA 
Aveva trent’anni e trent’anni fa è stato ammazzato. Due colpi di lupara per soffocare la speranza. È stata la ‘ndrangheta a uccidere Giuseppe Valarioti, l’11 giugno del 1980. La vittoria del Pci alle elezioni era la sconfitta delle ‘ndrine. Ecco che i capobastone della Piana hanno alzato il tiro sul segretario della sezione comunista di Rosarno.

Se non siamo noi, chi lo fa? 

Di famiglia contadina, Peppe Valarioti è cresciuto tra i libri e il lavoro in campagna. Gli piaceva studiare, coltivare i suoi interessi culturali. Laureato in Lettere classiche a Messina, è rimasto presto folgorato dal fascino di Medma, l’antica Rosarno magnogreca. Gli scavi, gli scritti, le ricerche, il confronto intellettuale. Una grande passione, che presto passa in secondo piano. La Piana è terra di disoccupazione giovanile, di grandi speculazioni, di emigrazione, di ‘ndrangheta e affari sporchi. «Questo schifo è anche colpa nostra. E se non siamo noi a batterci chi lo fa?» diceva sempre agli amici. Ecco che Valarioti decide di scendere in campo, con il Pci. Peppe riesce a parlare ai giovani, in un paio di anni prenderà in mano il partito e lo rinnoverà con grande energia.

La rivincita 

La tornata elettorale dell’8 e 9 giugno 1980 è decisiva. Nel 79 il Pci ha perso alle amministrative, a vantaggio del Psi, che governerà con la Dc. «Estorsione mafiosa del voto» la chiama Peppino Lavorato, padre politico di Valarioti e icona dell’antimafia sulla Piana. Le cosche hanno imposto i loro candidati. La strategia del Pci muta: attaccare i capi e parlare alle famiglie dei giovani. Perché per loro una speranza c’è ancora. Sfondano i comunisti a quelle elezioni del 1980 per il rinnovo dei consigli regionale e provinciale. Sfondano nonostante la ‘ndrangheta metta in campo tutto quello che ha. Addirittura, fuori dai seggi si vede don Peppe Pesce in persona, in permesso dal soggiorno obbligato – prolungato ad arte per settimane – per la morte della madre.

L’ultimo giorno 

Nel primo pomeriggio del 10 giugno, Lavorato è ancora in pigiama quando accoglie Valarioti. Un caffè, poi subito a lavoro. I primi risultati si conoscono verso le 4. È un successo: Lavorato è riconfermato consigliere provinciale, Fausto Bubba andrà in consiglio regionale. In sezione l’euforia è alle stelle. Di fronte c’è la sede del Psi, i volti sono scuri. Sembra restare fuori (ce la farà con i resti) il candidato del Psi Mario Battaglini. Una soddisfazione in più. Spontaneamente un gruppone di 40 comunisti parte per un corteo spontaneo verso il quartiere Corea – un nomignolo dispregiativo – che è riserva di voti del Pci ma anche il feudo della famiglia Pesce. Urla, canti, pugni chiusi, poi a pochi passi dalla casa del don ‘ndranghetista, Lavorato e Bubba intimano l’alt, per evitare le provocazioni. Qualche frizione è inevitabile, esplode un battibecco con una donna del casato rosarnese: «Arrivano i porci». Nessuno ci fa caso, in quel momento. La festa continua. E arriva l’idea della cena: «Compagni ce la meritiamo» dice Valarioti. Qualcuno ascolta attento i discorsi dei comunisti, appoggiato alle pareti del bar di fronte.

La cena 

Al ristorante La Pergola, sulla strada per Nicotera, è tutto pronto per accogliere i vincitori. Si mangia tanto e si innaffia tutto col vino buono. Si sprecano gli evviva e le storie divertenti. «Compagni abbiamo vinto», enfatizza Peppino Lavorato alzando il suo bicchiere. Poco dopo la mezzanotte pagano il conto. Valarioti esce dal ristorante per primo, due passi indietro c’è Lavorato. Peppe non fa in tempo ad aprire lo sportello, due fucilate cariche di vendetta lo investono in pieno. Sanguina e si lamenta la speranza della Piana. «Aiuto cumpagni, mi spararu». Quel sangue caldo Lavorato ce l’ha ancora sulle mani, sulla faccia, sui vestiti. Lo ha tenuto stretto durante il viaggio disperato verso l’ospedale di Rosarno. Ma non c’era più nulla da fare. Resta quell’ultimo sguardo che è una promessa, «non ci fermeremo».

La campagna elettorale del 1980 

In quel 1980 i manifesti del Pci non li strappavano né li coprivano. Li capovolgevano. Non è la stessa cosa, affatto. Vuol dire: ti colpisco quando voglio. Ma i comunisti quella campagna la vivono da protagonisti. Due, tre, quattro, cinque comizi volanti ogni sera. Fa nomi e cognomi Peppino Lavorato. La tensione sale, la situazione precipita. I mafiosi non stanno a guardare. E in una notte di fuoco mandano in fumo l’auto di Lavorato e provano a incendiare la sezione comunista. «Se qualcuno pensa di intimidirci si sbaglia di grosso, i comunisti non si piegheranno mai». Peppe Valarioti lo dice con aria seria, aprendo quel 25 maggio il comizio in piazza dopo quell’affronto. Quello stesso giorno arriva in paese tutta la ‘ndrangheta della Piana: è morta la madre di don Peppe Pesce.

Il Pci sotto tiro 

La forza morale del Pci è immensa. E risiede in un semplice principio: mai cedere alla ‘ndrangheta, mai tollerare la corruzione. Un principio praticato con determinazione, in quegli anni. Come tutte le grandi organizzazioni, spesso qualcosa sfugge. Ma l’intransigenza si manifesta nel colpire le mele marce: chi sbaglia non ha una seconda possibilità. Un’intransigenza che costa cara: come in Sicilia, anche in Calabria è il Pci a pagare un tributo di sangue nella lotta alla mafia. A Cittanova i giovani del Pci s’erano fatti carico del rinnovamento dopo l’omicidio del loro compagno Ciccio Vinci nel ’76, a Gioiosa il sindaco Ciccio Modafferi insieme a tanti altri aveva difeso il paese e la memoria di Rocco Gatto, mugnaio assassinato per le sue denunce nel ’77. Poi una nuova offensiva: l’omicidio di Valarioti e quello dell’assessore di Cetraro, in provincia di Cosenza, Giannino Losardo appena 10 giorni dopo. C’è un vero e proprio accerchiamento, partono anche le campagne di denigrazione («La morte di Valarioti? Questione di donne»). I funerali di Valarioti e Losardo sono grandi momenti di democrazia. A Cetraro arriva anche Enrico Berlinguer e annuncia che il partito non si sottrae alla battaglia.

Il comizio di Ingrao 

È passato un mese dalla morte di Peppe. A Rosarno gli hanno già dedicato una piazza. È la sua piazza ed è già stracolma di gente quando arriva Pietro Ingrao. Sul palco un vecchio stanco aspetta il partigiano dei comunisti. È Pasquale Gatto, il padre di Rocco, giunto da Gioiosa per onorare la memoria di quell’altra vittima dell’anti-‘ndrangheta. Tra la folla ci sono anche gli amici di Ciccio Vinci. L’emozione è alle stelle. Le storie della meglio gioventù calabrese si incrociano. E incrociano le delegazioni del Pci giunte da tutt’Italia. Sullo sfondo del palco giganteggia una litografia che raffigura Valarioti e riporta la sua frase epitaffio: «I comunisti non si piegheranno mai».
Il concetto di Ingrao è semplice: se hanno colpito noi possono colpire chiunque. La campana suona per tutti. Ma con una certezza: «Ci hanno ammazzato anche Antonio Gramsci! Ma noi siamo rispuntati più forti». Un lungo, commosso applauso. Il cammino dei rosarnesi riprende lungo le strade d’Italia, attraverso le feste dell’Unità che accolgono le parole commosse di Peppino Lavorato e sostengono una campagna di raccolta fondi. Rosarno deve avere una nuova Casa del popolo, e l’avrà. Intitolata a Valarioti.

Il presidio della libertà 

Quando cala la tensione, i comunisti restano pochi, ma tengono aperta la sezione. Ogni giorno, per anni. Per dire che il Pci non è morto. Peppino, Rafele Cunsolo che è il nuovo segretario, Ninì, Peppe, gli altri sono lì a fare quadrato mentre in paese la gente ha paura e li evita come appestati. Da Roma arriva la chiamata: Peppino Lavorato diventa deputato. Gli anni volano e, dopo un mandato passato a battagliare a Montecitorio per la sua terra, torna a Rosarno. La nuova legge per l’elezione diretta dei sindaci è l’occasione giusta. Si candida, i rosarnesi lo premiamo per due volte consecutive. È una stagione di cambiamenti, in un contesto maledettamente difficile. E’ tempo di beni confiscati e manifestazioni, di minacce e proiettili contro il Comune, della costituzione di parte civile di un comune contro le cosche in un processo civile (primo caso in Italia). È la stagione dell’accoglienza dei migranti, che ormai arrivano a centinaia sulla Piana. Una stagione troppo breve. Ma un seme, quello della “Calabria contro”, che viene da lontano e che bisogna coltivare con passione e grande attenzione.

Il processo 

Due sono le piste battute al processo Valarioti, in parte sovrapposte: quella della Cooperativa Rinascita (il consorzio di agrumicoltori guidato dal Pci) e quella della campagna elettorale dell’80. Nel mirino la cosca Pesce, a partire dal patriarca don Peppino. Valarioti, già nel gennaio dell’80, aveva contestato la gestione della coop (guidata dal cugino Antonio), imponendo una verifica sul meccanismo dei contributi pubblici. Secondo l’accusa (il pm Giuseppe Tuccio), la cosca Pesce imponeva bollette di pesatura gonfiate ed era riuscita a infiltrare la Rinascita. Ma è la tesissima campagna elettorale dell’80 a creare le premesse del primo omicidio politico-mafioso in Calabria. Valarioti continuava a sfidare le cosche. E la sua linea aveva vinto, e convinto. Serviva un segnale forte. Eclatante. Lo aspettano all’uscita dal ristorante quella notte dell’11 giugno, dopo la cena di festeggiamento per la vittoria alle elezioni, quando era insieme agli altri dirigenti del Pci. Colpirne uno per educarli tutti.
Pesce è stato assolto per insufficienza di prove dalla Corte d’assise di Palmi il 17 luglio 1982. Poi il silenzio. Fino al colpo di scena del dicembre del 1983, quando a parlare è Pino Scriva. Il “re delle evasioni”, famigerato ‘ndranghetista di San Ferdinando, è il primo grande (e non unico) pentito della ‘ndrangheta. Secondo Scriva, dietro l’omicidio Valarioti ci sarebbe la decisione della cupola della Piana. Le rivelazioni di Scriva hanno portato ad ergastoli e centinaia di anni di carcere. Eppure l’inchiesta-bis sull’omicidio Valarioti nel 1987 si è conclusa con un buco nell’acqua. Nel 1990, la Corte d’assise d’appello lascia il delitto avvolto nel mistero.

Un paese imploso 

Come nella Tebe di Laio, Giocasta ed Edipo, il sangue versato è una maledizione che si abbatte sull’intera comunità. L’unica soluzione è esiliare i colpevoli. Ma ciò a Rosarno non è avvenuto, non ancora. È una metafora che spiega l’origine di quella Rosarno che tutti abbiamo visto nelle immagini della “caccia al negro”. Il paese del grande movimento contadino del dopoguerra ridotto al silenzio, nelle mani della ‘ndrangheta. Che il delitto del dirigente comunista, ancora impunito, sia all’origine di questa implosione? Quel che è certo è che questo Paese non ha saputo garantire giustizia neppure a un giovane e trasparente eroe dell’anti-ndrangheta come Peppe Valarioti. È da qui che bisogna ripartire. Con la memoria e l’impegno.

(scritto con Alessio Magro, pubblicato su Il manifesto)

Da Roma a Rosarno. E ritorno

Rosarno stravolge le certezze sul Sud e i migranti. Rappresenta il fallimento. E tuttavia ci permette di ripartire.
La rete nata a Roma dopo i fatti di Rosarno è attraversata da questa esigenza, che se ne discuta nelle assemblee nello Spazio daSud o che si organizzino momenti pubblici. Fa un’analisi rigorosa e cerca soluzioni concrete. A partire dai cento migranti arrivati a Roma che ieri insieme a noi hanno rivendicato pubblicamente i loro diritti. Sono i ragazzi che hanno reagito al razzismo e alla ‘ndrangheta. Che sono stati sfruttati e deportati dallo Stato. Con loro stiamo lavorando all’assemblea cittadina e poi al primo marzo, una data importante, persino oltre le intenzioni degli organizzatori o il fatto che il sindacato non convocherà lo sciopero.
Parallelamente, continuiamo a guardare alla Calabria, il vero luogo della vertenza. Con una consapevolezza per noi fondativa: non tutto il positivo è dentro di noi o usa le nostre parole. Come, seppur con limiti, ha dimostrato il No Mafia day a Rosarno. Come dimostrano alcune esperienze politiche, sindacali, imprenditoriali, solidali e associative, il lavoro di don Pino Demasi nella Piana di Gioia Tauro, le iniziative in cantiere per i prossimi mesi.
Ripartiamo da qui, allora. Mettendo in rete esperienze, idee, passioni. Con il portale Equalway, Banca Etica e Carta lavoriamo alla costruzione di una nuova filiera delle arance calabresi: nessuno spazio per chi paga la mazzetta o sfrutta il lavoro nero. Con l’archivio multimediale Stopndrangheta.it abbiamo realizzato un dossier su Rosarno. E’ sul web, avrà una versione cartacea. Per ripartire dai fatti, dalla memoria dei fatti. Lo presenteremo a Reggio Calabria, città di contraddizioni sociali e intrecci perversi. Da spezzare. Lo faremo con associazioni, forze politiche e sindacali, artisti e cittadini. Lo porteremo nelle scuole e anche a Rosarno, per riattraversare un territorio oggi off limits: la prima zona rossa permanente dopo Reggio ‘70. Lo metteremo a disposizione di chi vuole, per riannodare i fili di un percorso di ricostruzione. Che passa da molti luoghi. Anche da Roma, nel nostro Spazio, dove dal 25 al 28 febbraio ragioneremo di Sud e crisi interrogando le voci critiche. Alla ricerca di nuovi linguaggi e percorsi a dispetto di malintese conoscenze del mondo migrante, del Sud, della Calabria. Con questo bagaglio lavoriamo a un’assemblea (il 3 e 4 marzo) all’Unical, insieme a professori e studenti e molti altri (Resecol, Sem, A Sud) per parlare della dorsale della solidarietà, di mafie e di una nuova questione meridionale.
C’è bisogno di rimescolare i paradigmi e riportare la Calabria in Calabria, Roma a Rosarno. I viaggi di sola andata non hanno senso. Serve un nuovo impegno collettivo. Sono tante le questioni in campo, lontane e intimamente collegate: la bomba di Reggio e le mille minacce delle cosche, il mercato del lavoro bloccato, i reportage dei giornali pervicacemente senza notizie, i fatti di Rosarno e la gestione dei fatti di Rosarno. Fino alla costruzione del Ponte sullo Stretto alle porte.
C’è un caso Calabria. Persino il governo – seppure in modo maldestro – se n’è accorto. Occorre una mobilitazione delle mobilitazioni, per ragionare di Rosarno e ‘ndrangheta, lavoro nero e malapolitica. Costruita su parole d’ordine chiare e non equivocabili. Alla classe dirigente senza credibilità si deve rispondere con la partecipazione, la rivendicazione di diritti, di una identità. Il contrario del rinvio a tempi migliori o dei nuovismi di maniera. Bisogna aprire una discussione sul senso di essere e praticare Sud. E costruire un grande momento di partecipazione popolare. Insieme ai tanti calabresi e italiani che vogliono farsi carico di un’emergenza democratica, di restituire verità e giustizia a un territorio, di dare un’opportunità a chi si mette in gioco e non sta chiuso nel proprio spazio. Chi non ci sarà, avrà la responsabilità di non esserci stato. Perché la Calabria non è persa, ma ci siamo vicini.

(pubblicato su Il manifesto)