La tragedia del Ponte

VILLA SAN GIOVANNI – Stava parlando del suo territorio, con l’amore e la passione di sempre. In mattinata era già intervenuto, quando il corteo doveva ancora partire. All’arrivo ha sentito il dovere di riparlare, per rivolgersi ai giovani. Franco Nisticò è morto ieri sul palco della manifestazione No Ponte, a Villa San Giovanni. Un attacco cardiaco. Erano da poco passate le 15. Inutile il tentativo dei compagni di rianimarlo, inutile la richiesta di un’ambulanza: non c’era. Inutile la corsa in ospedale («su un mezzo della polizia non equipaggiato adeguatamente», spiega un medico) a Reggio Calabria. L’attore Ulderico Pesce era a due passi da lui, aveva appena aperto la maratona (subito annullata) degli artisti contro il Ponte. Racconta: «È gravissimo: eravamo circondati dalle forze dell’ordine, c’erano elicotteri, camionette, una motovedetta e non c’era uno schifo di ambulanza – attacca ancora scosso – vogliono spendere 6 miliardi di euro per un’opera in un territorio dove si può morire per un calo di pressione. Ho visto quell’uomo cadere con i miei occhi, l’ho coperto con il mio giubbino blu. Sembrava il “Cristo del Mantegna”: suscitava disperazione e pietà e se ne stava lì a morire senza Stato, leggi e regole». È stato Pesce a placare la rabbia dei manifestanti inferociti per il ritardo dei soccorsi: «I ragazzi se la sono presa con i poliziotti e capisco la loro esasperazione – sottolinea – ma non c’entravano niente, il primo soccorso l’ha fatto proprio un poliziotto».

Franco Nisticò coordinava il comitato di lotta per i problemi del Basso Jonio catanzarese, era stato candidato a sindaco di Badolato, un paese simbolo, divenuto famoso per avere spalancato le porte al popolo kurdo. La sua è una morte assurda, «sulla quale – chiedono i manifestanti ancora increduli – bisogna fare chiarezza: ognuno deve assumersi le sue responsabilità». Una tragedia, che rende ancora più demenziale l’idea del Ponte.
Fino a quel momento era stata «una festa nonostante le difficoltà», secondo Peppe Marra della Rete No Ponte. Un modo per ribadire il No al Ponte e chiedere opere utili, «a partire – gli fa eco Maurizio Marzolla del No Ponte – dalla messa in sicurezza del territorio». Non era scontato, per il maltempo e per una sorta di campagna di criminalizzazione del corteo con tanto di evocazione strumentale dei black bloc. Non è successo nulla, eppure la partecipazione dei villesi è stata scarsa e i commercianti hanno tenuto le saracinesche abbassate. Una festa in un deserto, che neppure la presenza degli ultimi tre sindaci – Cosimo Calabrò, Rocco Cassone e Giancarlo Melito – ha evitato. «È stata una scelta del commissario prefettizio quella di avvisare i cittadini – spiega Melito – forse è stata caricata un po’ troppo». Tant’è.
All’imbocco della discesa che porta al lungomare gli ultimi dubbi s’erano dissolti: il movimento No Ponte c’è. Ci sono associazioni e partiti, studenti e precari della scuola, anche la chiesa valdese. Dissotterra subito l’ascia di guerra il segretario dei Verdi Angelo Bonelli. Prima attacca Di Pietro («se da ministro non si fosse opposto allo scioglimento della Stretto di Messina spa oggi non saremmo qui», dice), poi affonda i colpi contro Altero Matteoli: «L’inizio dei lavori della variante ferroviaria di Cannitello è solo un trucco per dire che non si torna indietro: non è così, faremo una vertenza legale».
Quella che il governo considera «la prima pietra del Ponte» sarà posata il 23 dicembre. Doveva arrivare anche Berlusconi ma lo show, dopo i fatti di Milano, è rinviato. Inizieranno comunque i lavori. Spiega Nuccio Barillà, del direttivo nazionale di Legambiente: «Berlusconi vuole riproporre una pratica che da queste parti è tristemente nota», dice. Il riferimento è al 1975, quando Giulio Andreotti a Gioia Tauro pose la prima pietra di un altro grande inganno: il quinto centro siderurgico. «I calabresi andarono a Roma a restituire quella prima pietra – sottolinea Barillà – Noi faremo lo stesso e chiederemo la restituzione delle risorse sperperate». Ormai, conclude, «è chiaro che l’alternativa non è più tra sì e no al Ponte – sottolinea – ma tra due idee inconciliabili di sviluppo». I cittadini calabresi, spiega il segretario della Cgil reggina Francesco Alì, «hanno bisogno di uscire dall’isolamento: bisogna concludere i lavori dell’A3, rendere sicura la Statale 106 e competitivo l’aeroporto dello Stretto, potenziare il trasporto pubblico locale, sostenere i pendolari dello Stretto». Via via sfilano le associazioni (dai comitati di Giampilieri a quelli contro i veleni a Crotone, dal comitato Natale de Grazia di Amantea al reggino Gruppozero), ci sono i centri sociali e l’onda anomala di Cosenza, i sindacati dei marittimi e l’Arci. La denuncia antimafia è di Magnolia (in piazza con le tute bianche del Ris e la scritta “Stretto di Messina scena del crimine”) e dell’associazione Rita Atria, della “20 luglio” di Palermo e di daSud, di Mario Congiusta, padre di Gianluca, ucciso dalla ‘ndrangheta. Risuona la musica proposta dai Pirati dello Stretto, sfila anche il Popolo viola («il ponte amplifica i problemi economici e sociali a livello locale»), si vedono anche Marco Ferrando e le bandiere di Sinistra e Libertà, gli ex parlamentari e sindaci coraggio Mommo Tripodi e Peppino Lavorato, i Cobas e Sinistra euromediterranea. Giorgio Cremaschi (Fiom Cgil) spiega che «il ponte è solo una fonte di speculazione», mentre il Wwf (c’è anche l’ex senatrice Anna Donati) denuncia con Raniero Maggini il rischio «che, come tra gli anni 60 e 90, il Paese sia devastato da tronconi di grandi opere incompiute». C’è un corposo spezzone della Federazione della sinistra. Avverte il segretario regionale del Prc Nino De Gaetano: «Per opporci al Ponte siamo pronti anche a compiere gesti eclatanti». Sfilano, per la prima volta in via ufficiale, anche le istituzioni locali. C’è la Provincia di Reggio Calabria con l’assessore Michele Tripodi: «Le nostre scelte strategiche non prevedono il Ponte». E aggiunge: «Dividendo i 6 miliardi di euro per 2 milioni di calabresi – sottolinea – avremmo tre milioni di euro per ogni mille abitanti: tutti i problemi dei comuni sarebbero risolti». La Regione Calabria (uscita di recente dalla Stretto di Messina spa e pronta a ricorrere al Tar contro la variante di Cannitello) è ben rappresentata. Spiega Silvio Greco, assessore all’Ambiente: «Trovo amorale fare campagne pubblicitarie sulle spalle dei calabresi e sperperare così i soldi pubblici». Già che si trova, Greco spiega che «finché ci siamo noi» il governo non potrà fare la «centrale a carbone di Saline». Demetrio Naccari, Pd e assessore ai Trasporti, spiega che «questa opera del faraone serve solo a mantenere nominalmente al 40% i fondi Fas impiegati per il Sud. Alla fine scopriremo che si tratta di appena il 10». Commenta Michelangelo Tripodi, Pdci e assessore all’Urbanistica: «Nonostante il tentativo di creare un clima di paura e di isolare la manifestazione – spiega – è stato un successo che ci dà fiducia per continuare la battaglia per un’idea di sviluppo diversa». Che passa anche dai servizi per i cittadini, che possono salvare la vita ai cittadini.

(pubblicato su Il Manifesto)

Il problema non è la ‘ndrangheta

Non è la ‘ndrangheta il problema, nemmeno Cosa nostra. Non pensiamo affatto che il Ponte sullo Stretto non si debba costruire perché sarebbe (come pure è facile pensare, alla luce di quanto accaduto nella storia italiana) un affare per le cosche. E’ un’argomentazione sbagliata, utilizzata spesso strumentalmente da chi il Ponte lo vuole e con il Ponte vuole fare affari. Ci sono invece mille buone ragioni per non costruire un’opera inutile, dannosa, scriteriata. E ce ne sono altrettante per ragionare attorno a un nuovo modo di pensare, praticare, essere Sud. Non è questo lo spazio web giusto per trovarle. Qui potrete leggere invece che la storia del Ponte e quella dei clan calabresi e siciliani s’è intrecciata più volte: la storiografia racconta per esempio che fu proprio per i presunti appalti del Ponte che scoppiò la seconda guerra di ‘ndrangheta nel 1985, mentre le indagini della magistratura hanno svelato quando sia forte (tanto da arrivare in Nord America) l’interesse dei clan per il più grande ecomostro mai pensato da mente umana. Ci hanno pensato anche il direttore della Gazzetta del Sud Nino Calarco (con la sua celebre e imbarazzante intervista a Sciuscià) e l’ex ministro dei Lavori pubblici Pietro Lunardi a rafforzare l’idea che mafia e Ponte e, in generale le opere pubbliche, siano inscindibili. Ci sono inchieste giornalistiche e dossier di associazioni che hanno poi squarciato il velo di ipocrisia che esiste sulla gestione del territorio nel Messinese e nel Reggino. Pagine interessanti, da leggere per cogliere le dinamiche del potere politico, economico e criminale. Il dossier che pubblichiamo – che, come sempre, è un punto di partenza, uno stimolo alla discussione e un invito a segnalare tutti i materiali “mancanti” – arriva in un momento emotivamente “caldo”: Franco Nisticò è morto sul palco della manifestazione No Ponte del 19 dicembre 2009 mentre i soccorritori invocavano un’ambulanza. Inutilmente: il mezzo non c’era. L’ex sindaco di Badolato, animatore di mille battaglie per lo sviluppo del territorio calabrese, stava chiedendo, insieme con altre migliaia di persone, le infrastrutture di prossimità, la bonifica delle zone inquinate, la messa in sicurezza dei territori, le opere utili per tutti i cittadini, un sistema di trasporti pubblico ed efficiente nello Stretto.

Ai manifestanti e alle decisioni (meglio tardi che mai!) della Regione Calabria che ha appena annunciato l’uscita dalla Stretto di Messina spa e il ricorso al Tar contro all’avvio dei lavori della variante ferroviaria di Cannitello (“la prima pietra”, ha spiegato trionfalmente il ministro Matteoli), il governo ha subito risposto con un ulteriore stanziamento di fondi del Cipe per il Ponte (ma siamo molto molto lontani dall’obiettivo). Intanto – a causa dell’aggressione subita da Silvio Berlusconi – slitta a data da destinarsi la posa della prima pietra inizialmente prevista per il 23 dicembre. In fondo un’opportunità per questo governo che ha qualche settimana in più per ripensarci. Le “prime pietre” annunciate in grande stile non hanno una grande tradizione da queste parti. Quella posta da Giulio Andreotti per l’avvio dei lavori del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro (vedi la storica prima pagina della Gazzetta del Sud che apre il dossier) i cittadini della Piana sono andati a Roma a restituirla. Con tanti ringraziamenti.

(scritto per Stopndrangheta.it)

Il tempo è scaduto

Francesco Maria aveva 18 anni ed è morto. Il suo nome si aggiunge a tanti altri nomi di tanti altri giovani anch’essi immolati come bestie da macello e di cui nessuno si accorge ormai della loro assenza. Ma fino a quando è possibile continuare a rimanere distratti dinnanzi a così orrendi misfatti? Non vorremo che, celebrati i funerali di Francesco Maria, con lui vada via definitivamente la speranza. Ed è per questo che mi rivolgo ai giovani del nostro territorio, più che ad altri. Il tempo è ormai scaduto. O adesso o mai più è necessario risalire da questo tunnel di tristezza e di desolazione. E’ necessario che voi giovani scendiate nelle piazze e nelle strade per creare momenti di confronto e sognare e costruire città vivibili e soprattutto condizioni di maggiore giustizia per questa nostra terra martoriata.

Francesco Maria Inzitari aveva 18 anni. E’ stato ucciso in un agguato a Taurianova (Rc) lo scorso 6 dicembre. Dieci colpi di pistola. Sembra avesse solo una “colpa”: era figlio di di Pasquale Inzitari (ex Udc), condannato, il 18 settembre scorso dal gup di Reggio Calabria a 7 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa. Inzitari, già consigliere provinciale di Reggio Calabria (ha sfiorato sia l’elezione al Senato che quella al Consiglio Regionale) è un imprenditore che ha gestito il centro commerciale Parco degli Ulivi di Rizziconi. E’  genero del presunto boss della ‘ndrangheta Domenico Rugolo, 74 anni ed era il cognato dell’imprenditore Nino Princi, ucciso lo scorso anno da un’autobomba. Adesso è agli arresti domiciliari. Una brutta storia la sua, che vede nell’omicidio di Francesco Maria l’epilogo peggiore. La morte del giovane ha scosso il territorio. Don Pino Demasi, vicario generale della diocesi di Oppido- Palmi e referente di Libera, sera dell’agguato ha subito scritto un appello ai giovani del territorio chiedendo di ribellarsi alla ‘ndrangheta. Ai mafiosi, durante i funerali, ha chiesto di convertirsi. Citando Giovanni Paolo II ha detto: “Permettetemi – così nel corso dell’omelia – che mi rivolga anche ai mafiosi ed a coloro che antepongono i propri interessi ed i propri loschi affari a qualunque  possibilità di vita civile e serena del nostro territorio. Voglio citare le parole di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi: che ci sia concordia, perché Dio ha detto di non uccidere. La mafia non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio e per questo vi chiedo di convertirvi'”. La prima risposta a don Pino De Masi è arrivata ieri 11 dicembre: a Rizziconi, dopo la messa, hanno partecipato in migliaia alla fiaccolata organizzata per ricordare Francesco Inzitari. Questo il testo della lettera del sacerdote di Polistena ai giovani calabresi.

di don Pino Demasi

L’uccisione di Francesco Maria Inzitari, il diciottenne incensurato, ucciso quasi certamente per una vendetta trasversale nei confronti del padre, è certamente un episodio di una gravità inaudita sia per le modalità con cui è stato commesso (vero e proprio agguato mafioso), sia per la giovane età della vittima e per la sua condizione di “ragazzo normale” e pieno di vita. La ndrangheta ormai non guarda in faccia nessuno e vuole ad ogni costo anteporre i propri interessi ed i propri loschi affari a qualunque possibilità di vita civile e serena nel nostro territorio.


Francesco Maria aveva 18 anni ed è morto. Il suo nome si aggiunge a tanti altri nomi di tanti altri giovani anch’essi immolati come bestie da macello e di cui nessuno si accorge ormai della loro assenza. Ma fino a quando è possibile continuare a rimanere distratti dinnanzi a così orrendi misfatti? Non vorremo che, celebrati i funerali di Francesco Maria, con lui vada via definitivamente la speranza. Ed è per questo che mi rivolgo ai giovani del nostro territorio, più che ad altri. Il tempo è ormai scaduto. O adesso o mai più è necessario risalire da questo tunnel di tristezza e di desolazione.


E’ necessario che voi giovani scendiate nelle piazze e nelle strade per creare momenti di confronto e sognare e costruire città vivibili e soprattutto condizioni di maggiore giustizia per questa nostra terra martoriata. Poche ore prima dell’uccisione di Francesco Maria, a Palermo tanti giovani come voi, con sirene, canti ed esultanze da stadio hanno festeggiato, insieme agli agenti, la cattura del boss Gianni Nicchi. Riuscirete anche voi, giovani della Piana, a dare a noi adulti distratti di questo territorio, testimonianze altrettanto belle e concrete? O saranno ancora loro, i mafiosi ed i loro referenti politici ed economici, e a quel punto lo saranno per sempre, i padroni incontrollati delle nostre piazze e delle vostre vite?

Peppe Tizian, un bancario integerrimo morto di ‘ndrangheta

Accanto al museo della Magna Grecia a Locri c’è un muro che è il muro della vergogna. Proprio lì hanno trovato il corpo di Giuseppe Tizian. Lo hanno trovato dentro l’auto, sul ciglio della strada. Hanno trovato l’arma del delitto, un fucile calibro 12, con matricola abrasa, caricato a pallettoni, abbandonata dietro un cespuglio 200 metri più avanti. Poi non hanno trovato più nulla. Il muro della vergogna e della dimenticanza.

Eppure le indagini erano partite col piede giusto. A caldo gli investigatori del commissariato di Siderno dissero che Peppe era un “funzionario integerrimo”. Una dichiarazione che già spiega in sé il movente, la dinamica, gli interessi e circoscrive la rosa dei potenziali mandanti.

Certo le prove sono altro dai sospetti. Le hanno subito cercate nel posto più ovvio, seguendo la pista dell’attività bancaria. Coordinati dal magistrato Carlo Macrì, i poliziotti sono andati in banca, hanno guardato fra le carte, hanno fatto qualche domanda ai colleghi di Tizian.

Tutti spaventatissimi e arrabbiati, tanto da serrare per un giorno le banche locresi e affidare alla stampa lo sfogo amaro di una categoria che “giornalmente, in maniera certamente emblematica, viene ad essere sottoposta a pressioni o minacce che, purtroppo, la classe datoriale, volutamente o no, finge di ignorare.

Tali episodi delittuosi rappresentano il degrado socio-economico, politico e istituzionale in cui versa la Locride, nonché l’intera provincia reggina”. Era venti anni fa e sembra oggi.

Omicidio passionale?

Tizian era separato dalla moglie, tanto basta a far circolare subito le voci tossiche e vigliacche dell’omicidio passionale, come sempre accade. Si uccide per la seconda volta con il fango sul morto ancora caldo. Ecco che il fascicolo del caso si riempie di accertamenti sulla vita privata e sentimentale, e la pista principale viene quasi abbandonata.

Non si arriva da nessuna parte. Che ci siano state o meno altre donne nella vita del bancario Tizian, resta un assurdo vuoto di indagini. La verità sta ancora tra quelle carte in banca, e la vergogna su quel muro.

Dal 23 ottobre dell’89 inizia per la famiglia di Giuseppe un lungo calvario, fatto di silenzi e ostilità. Di paura e solitudine. Di sacrifici per ricominciare e andare avanti. Le indagini a rilento, le strane richieste ai parenti impegnati nella fabbrica di famiglia. Fino all’incendio che ha distrutto tutto e ha imposto l’esilio volontario e la colpa di essere vittime.

I Tizian vivono oggi a Modena e tornano a Bovalino ogni estate. Per anni si sono tenuti dentro il dolore e la vergogna assurda e tutta calabrese di dover giustificare un morto ammazzato, colpevole fino a prova contraria.

Per anni, fino a un giorno come tutti gli altri di sei anni fa quando all’improvviso sono arrivate le lacrime: il figlio di Peppe, Giovanni, ha pianto per la prima volta a 21 anni, e da allora ha iniziato un coraggioso percorso di verità e di giustizia, personale e collettivo, facendo pace col passato.

Ha voluto studiare criminologia e dedicare mesi e sacrifici a un’ottima tesi sulla ‘ndrangheta (che è on line sull’archivio web Stopndrangheta.it), ha iniziato la carriera di giornalista e oggi si occupa di criminalità organizzata scrivendo per un quotidiano di Modena, dove nel frattempo la ‘ndrangheta ha messo radici.

Una ricerca di verità che è personale, ma anche e soprattutto collettiva. La voglia di dare un senso alla giustizia negata ha spinto Giovanni a cercare alleati. Ecco che inizia la collaborazione con Democrazia e Legalità, Liberainformazione.org e Rivistaonline.com, tre siti di informazione tematici.

Ecco che nel 2008 arriva la Lunga Marcia della Memoria – la manifestazione promossa dall’associazione daSud per ricordare le vittime della ‘ndrangheta – e il 22 luglio si va in processione a Pietra Cappa in Aspromonte. È un luogo mistico, che ha fatto innamorare i colonizzatori della Magna Grecia.

Lassù hanno trovato dopo dieci anni dal sequestro i resti di Lollò Cartisano. Dal 2003 la famiglia lo ricorda con una cerimonia semplice e toccante. Nel luglio di due estati fa insieme ai Cartisano c’erano i ragazzi stranieri del campo di volontariato di Libera Locride e quelli di daSud.

C’erano Deborah Cartisano e Stefania Grasso, due ragazze splendide e coraggiose che hanno deciso di proseguire le orme dei padri impegnandosi con l’associazione Libera. C’era Giovanni, che per la prima volta ha deciso di parlare davanti a tutti della sua storia. E la scorsa estate è toccato a Mara raccontarsi e ricucire i fili della memoria. Episodi intensi e commoventi di un lungo percorso di crescita e condivisione tra i familiari delle vittime, riuniti in tanti con Libera Memoria.

Per lo Stato Giuseppe Tizian è solo il nome di un fascicolo riposto in un archivio polveroso a Locri, tanto nascosto che ci è voluto un anno per ritrovarlo e consegnarlo alla famiglia. Un caso irrisolto, uno dei tanti. Un’altra ingiustizia da riparare.

Il primo passo è la richiesta del riconoscimento dello status di vittima della mafia, con le pratiche preliminari che la famiglia ha deciso adesso, e faticosamente, di avviare. Per fare chiarezza e per dare un po’ di sollievo al dolore.

Per la Calabria Giuseppe Tizian è ancora il nome dal sapore forestiero di uno sconosciuto. È per questo che la scorsa estate, durante la Lunga Marcia della Memoria 09 di daSud, vie e piazze di decine di città italiane sono state dedicate a Giuseppe e alle altre vittime delle mafie.

A Modena insieme ai Tizian e a Bologna con i parenti di Rocco Gatto (ucciso nel ’77 a Gioiosa Ionica), a Milano come a Roma, a Reggio Calabria come a Pordenone, Palermo e Napoli. Azioni pacifiche e colorate per intitolare simbolicamente i luoghi principali delle nostre città ai nostri migliori concittadini, quelli che hanno detto no e sono stati uccisi.

Per ridare vita alla meglio gioventù di questo sconsolato Paese occorre non dimenticare. Sono i Tizian ad insegnarci come fare. Ce lo hanno insegnato i ragazzi di Bovalino Libera, che con Deborah Cartisano, l’attore teatrale Nino Racco e Totò Speranza seppero scendere in piazza nel 1993 e dire al mondo che il loro non era un paese di sequestratori, ma di sequestrati.

Ce lo hanno insegnato don Luigi Ciotti e Libera, la grande associazione di associazioni che ha appena chiuso a Roma gli Stati generali dell’antimafia-Contromafie. Ce lo insegnano i risultati della Lunga Marcia della Memoria, di daSud, di Stopndrangheta.it. Basta volerlo e mettersi insieme.

Resta la vergogna su quel muro a Locri, nella terra che ci ricorda i fasti magnogreci. È lì da venti anni esatti. E va rimossa.

(scritto con Alessio Magro, pubblicato su Il Manifesto)

Storica sentenza del Tribunale di Palmi

Una sentenza memorabile, che cambia il rapporto tra mafie e territorio. Passa il principio che le cosche impediscono lo sviluppo e che, per questo, devono risarcire i cittadini. La pronuncia-svolta, dello scorso luglio, viene dalla Calabria: il giudice del Tribunale di Palmi, Antonio Salvati, ha accolto infatti la richiesta di maxirisarcimento del Comune di Rosarno per danni all’immagine, morali ed economici.

 Conto salato per i mammasantissima. È la prima volta che accade in sede civile. A pagare saranno 16 esponenti delle potentissime cosche Piromalli e Bellocco, dominatrici della Piana di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria. Ad aprire il proprio forziere e a pagare 9 milioni di euro, con gli interessi, saranno mammasantissima del calibro di Carmelo Bellocco, Girolamo Molè, Gioacchino e Giuseppe Piromalli, ras di Gioia Tauro e Rosarno.
«Una sentenza simbolo», sottolinea Francesco Forgione, presidente della Commissione parlamentare antimafia. «Una decisione di straordinaria importanza», gli fa eco il senatore calabrese di Sd, membro dell’Antimafia, Nuccio Iovene. E Libera ragiona: la costituzione di parte civile si affianca alle confische come strumenti per colpire con efficacia le cosche.

Il nesso tra mafia e povertà. La rivoluzione di Palmi nasce da lontano. I 16 costretti a risarcire il Comune rosarnese furono condannati per associazione mafiosa nel maxiprocesso “Porto”. L’inchiesta della Dda di Reggio che sul finire degli anni Novanta svelò le infiltrazioni nel porto di Gioia Tauro costò ai clan decine di arresti e sequestri. L’allora sindaco di Rosarno Peppino Lavorato volle il suo Comune contro i clan in sede penale prima e civile poi. Con la sentenza di Palmi i fatti gli danno ragione: «È provato – secondo il giudice – che l’attività delle cosche abbia interferito con l’esplicazione delle potenzialità economiche del territorio». Rifacendosi al processo “Porto”, il giudice rileva come «la pervasività e l’ampiezza del controllo sulle attività economiche connesse al porto di Gioia Tauro ha presentato connotati tali da rendere pienamente sussistente il nesso causale» tra presenza mafiosa e danno economico per le comunità locali, con una vera e propria «occupazione armata del territorio».

Un’intuizione lungimirante. Una «sentenza di straordinario rilievo», sottolinea il legale del Comune di Rosarno, l’avvocato Salvatore Costantino, un “precedente significativo” che dà agli amministratori un’arma affilata, “uno strumento ordinario” contro le cosche. Un risultato che si deve all’intuizione di Peppino Lavorato. L’ex parlamentare Pci ed ex primo cittadino Ds di Rosarno oggi la racconta così: «Dopo i rinvii a giudizio e saputo che i Comuni erano indicati come parti lese nelle carte del procedimento Porto, fu naturale la costituzione di parte civile in sede penale». Lavorato va oltre e chiama in causa la Provincia di Reggio, la Regione Calabria e il Governo, tutti di centrosinistra. «Abbiamo chiesto di stare al fianco dei Comuni contro la ‘Ndrangheta», dice. La risposta è positiva e, per una volta, «il fronte compatto». Nel 2002 arrivano le condanne definitive per i 16 che avevano scelto il rito abbreviato. Lavorato non s’accontenta e dà «mandato di chiedere il risarcimento in sede civile». Un’avventura che vedrà il Comune di Rosarno da solo nella sfida ai Bellocco e ai Piromalli. Perché soffia il vento della destra e le altre istituzioni si defilano. Anche Rosarno (Lavorato non si può ricandidare) passa alla Cdl, ma quel procedimento resta in piedi, in silenzio.

Una strada parallela. Sostiene oggi Lavorato che «quella di Palmi è una sentenza storica che ci indica la strada per combattere la mafia. Fino in fondo». Non può però non sottolineare l’amarezza nel notare che «l’ente più piccolo e indifeso sia stato lasciato solo». Ma oggi, forse, qualcosa può cambiare. La pensa così il presidente Forgione, calabrese, che nella sua gestione dell’Antimafia ha messo la ‘Ndrangheta al primissimo posto. «La sentenza di Palmi – commenta – è un buongiorno della giustizia e quello di Lavorato è un esempio per chi governa Comuni ed Enti locali». Un gesto politico rilevante, «ma anche un’altra via – spiega Forgione – per aggredire i patrimoni delle famiglie mafiose, in questo caso di due famiglie importanti come i Piromalli e i Bellocco». Una strada da percorrere con grande convinzione anche per il senatore Iovene. «Questa sentenza – rimarca – dimostra che la costituzione di parte civile, che su impulso di Lavorato abbiamo chiesto molte volte, non è un fatto simbolico, ma politicamente e concretamente rilevante anche perché si riconosce un principio fondamentale: la presenza dei clan danneggia il territorio e le comunità». Dunque, per il senatore, le cause civili sono una strada «parallela e altrettanto incisiva rispetto alle confische dei beni».
Anche Libera, che da sempre punta l’attenzione sulle confische, pone oggi l’accento sulle costituzioni ai processi di mafia, in sede penale e civile. E con la direttrice Gabriella Stramaccioni incalza le istituzioni: «Non si devono lasciare soli i familiari delle vittime e gli amministratori coraggiosi. Bisogna rafforzare le reti territoriali di contrasto alla mafia, dimostrare che la mobilitazione è corale. Speriamo che quello di Lavorato non resti un caso isolato. Anche perché – aggiunge – non servono eroi. Servono reti di supporto. E la modifica dello statuto di Libera per permetterci la costituzione di parte civile contro le mafie va in questa direzione». Il richiamo è chiaro: ognuno faccia la sua parte.

Ancora solo contro le cosche. Lavorato, in questo senso, ha un’idea concreta, stringente. Che parte da uno sfogo: non si può infatti non sentire, per Lavorato, «il completo silenzio del mondo politico e istituzionale», dopo una sentenza che «rincuora tutte le persone oneste». Se questo è vero, la pronuncia del giudice di Palmi «deve spingere a una rigorosa riflessione autocritica tutti i poteri dello Stato iniziando da quelli più in alto». Basta solidarietà sterile, è il ragionamento, la cosa importante adesso è che «le costituzioni di parte civile, le successive richieste di risarcimento danni in sede civile e le richieste di acquisizione dei beni confiscati diventino atti dovuti e non discrezionali». Serve un’assunzione di responsabilità collettiva, dice, perché «solo se si dispiega questo impegno corale, tutti potranno lavorare con maggiore serenità ed efficacia – spiega l’ex sindaco antimafia – e nessuno correrà più pericoli». Lo sa bene Lavorato cosa significa e sa bene che cosa vuol dire vivere isolato. Gli è capitato per anni, da quel giugno 1980 quando s’è visto morire tra le braccia Peppe Valarioti, segretario del Pci di Rosarno, il suo discepolo. Insieme avevano sfidato le cosche. Da allora la vita di Lavorato è cambiata: ha giurato che avrebbe combattuto la ‘Ndrangheta, a viso aperto. E quasi mai ha trovato il sostegno concreto di cui avrebbe avuto bisogno.

Classifiche antimafia. Non s’è dato per vinto e anche oggi, che dal tribunale di Palmi arriva un nuovo strumento di lotta, lancia una proposta alla Commissione parlamentare antimafia, reduce da un viaggio ricognitivo in Calabria. Per Lavorato «occorre chiedere alle Dda l’elenco dei soggetti pubblici individuati come parti lese nei processi penali di mafia, accertare quanti hanno compiuto e quanti non hanno compiuto il loro dovere e rendere pubblica tale verifica». Stesso discorso per i beni confiscati. Una sorta di classifica, dunque, dei Comuni virtuosi sul fronte antimafia. Una buona proposta per Francesco Forgione quella di rendere pubblica la lista dei Comuni in prima linea nei processi: «È una richiesta giusta, ne discuteremo. Speriamo che nell’ambito dei lavori sul comitato degli Enti locali si possa dare una risposta concreta».

(scritto con Alessio Magro, pubblicato da Narcomafie)