Giuseppe Gagliardi, regista che racconta Tatanka

Il regista calabrese Giuseppe Gagliardi ha un film in uscita “Tatanka scatenato”, ispirato a un racconto di Roberto Saviano. È lui il sesto protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.

 

INTHEBRONX«Il Sud è il luogo che se tutto funzionasse sarebbe un paradiso». Alla domanda su cos’è oggi il Sud, non esita neppure un attimo. Aggiunge un attimo dopo: «Il problema è il fatto che non funziona quasi nulla». Giuseppe Gagliardi ha 33 anni, è un regista e sceneggiatore calabrese. Che vive altrove, come molti suoi coetanei, come molti che hanno deciso di fare cinema («in Calabria sarebbe impossibile», precisa).
«Potenzialmente – sottolinea – al Sud ci potrebbe essere tutto». E invece «da 150 anni questo pezzo d’Italia è rimasto schiacciato da dinamiche politiche inquietanti: nel processo di unificazione c’è stata la volontà storica di ridurlo così, la volontà precisa di trasformarlo in un luogo in cui tutto va in malora. Nella periferia dell’impero». Una realtà «che fa male, ma che è così». Che va spiegata, «raccontata», dice. E il riferimento non può che essere al fortunatissimo libro di Pino Aprile, “Terroni”.
Non tutto dipende dagli altri, però. Anche i meridionali, i calabresi devono fare la propria parte. Da questo punto di vista Giuseppe Gagliardi introduce una punta di ottimismo attraverso un elemento generazionale: «C’è un dato interessante in Calabria nell’ultimo periodo: un dato anagrafico. Ha preso il potere un gruppo di quarantenni, finalmente una generazione che sa cos’è una email, Skype o un motore di ricerca». Gagliardi si riferisce al nuovo presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti (classe ’66) e ai suoi più stretti collaboratori (peraltro da lui indicati, la vicepresidente Antonella Stasi, anche lei del ’66, l’assessore al Bilancio Giacomo Mancini che ha 37 anni). Una cosa significativa, per il regista cosentino, che naturalmente dovrà «essere supportata dai fatti sui quali dare il nostro giudizio politico».
È importante, fondamentale il ruolo della classe dirigente di un territorio, la capacità di cogliere i cambiamenti, di capire i processi, di instaurare un rapporto chiaro e utile con i cittadini. Per spiegarlo il regista ricorre a un’esperienza personale: Saracinema. È un festival cinematografico pensato e organizzato da Gagliardi per Saracena, un incantevole borgo (a rischio abbandono) che sta in provincia di Cosenza, a metà strada tra il Pollino e il mar Tirreno. È il 2006 quando nasce questa esperienza, che ha almeno due importanti caratteristiche: la prima è che il cinema sta dentro il paese, lo attraversa, lo trasforma in una grande sala, in una grande casa di produzione, in una grande platea, in un luogo pieno di osterie, suoni e immagini. L’altra è che il festival offre a trenta giovani (calabresi e non) l’occasione di incontrare faccia a faccia registi, autori e produttori altrimenti difficili da incrociare. Un’idea affascinante e concreta. Una buona pratica, soprattutto per un territorio che ancora non ha un vero festival del cinema. «In tre anni Saracinema era cresciuto, era diventato una bella realtà – sottolinea – Poi ci siamo scontrati con la realtà, con la politica che ha deciso di non seguirlo più, di non sostenerlo. E dopo alcuni anni di grandi sacrifici siamo stati costretti a lasciare stare». Occasione mancata, l’ennesima per la Calabria. Una situazione paradigmatica per la regione in punta allo Stivale che probabilmente è alla base di uno degli elementi più tristi: «l’esodo continuo, da oltre 50 anni, di tutti i cervelli più interessanti della regione. Costretti ad andare via, e che trovano le loro occasioni migliori lontano da casa». Attacca Giuseppe Gagliardi: «È questo il risultato di un sistema fatto di assistenzialismo e clientelismo». E invece no, invece «i cittadini devono avere l’opportunità di realizzare i loro progetti. Se questo accade, possono succedere cose interessanti».

tatanka-0157Gagliardi è un calabrese che fa cinema, ma non fa cinema in Calabria. «Fino a oggi non è stato possibile realizzare un film, anche se mi piacerebbe molto», sottolinea. Così un regista che viene premiato al festival di Nanni Moretti con il Sacher d’argento (nel 2003 con il corto Peperoni), che riceve un premio al Torino Film Festival (con il documentario musicale Doichlanda, ancora nel 2003), che con il suo primo lungometraggio “La vera storia di Tony Vilar” partecipa a festival come quello di Roma (nel 2006) e il prestigiosissimo Tribeca di New York (nel 2007) alla fine si trova a constatare che «continua a valere il detto “nemo propheta in patria”», che il cinema per la Calabria è un poco più di un ufo. Eppure la storia di Tony Vilar, l’emigrante calabrese Antonio Ragusa partito nel 1952 alla volta dell’Argentina e diventano famoso in tutto il mondo con il brano “Quanto calienta el sol”, era un film «legato alla riscoperta di una certa calabresità, una certa italianità tra Buenos Aires e New York». Anche questo progetto «non ha mai avuto un sostegno reale», commenta.
Quello che non si capisce in Calabria, secondo Gagliardi, è che anche «la cultura è un’industria»: il prodotto artistico e culturale «va inteso come qualcosa da mettere a disposizione per fare crescere il territorio». Altre regioni lo hanno capito: «In tutti i posti è difficile fare il cinema, ma alcune cose interessanti altrove cominciano a muoversi», dalla Puglia fino alla Basilicata.

tatanka-6489La verità è che «dove una cosa funziona, per riflesso funzionano anche le altre», chiarisce. E spiega: «Se in Salento funziona il turismo, anche il resto va bene. Ora – aggiunge – spero che in Calabria la nuova film commission faccia delle cose buone e utili al cinema e al territorio». È un problema di scelte politiche e imprenditoriali, «è un problema di spazi, di luoghi, di opportunità dove poter esprimere e fare crescere le creatività». Se ci fossero gli spazi, insiste, «centinaia di ragazzi avrebbero la possibilità di fare il cinema. Ci dovrebbe essere un supporto concreto, almeno nella diffusione».
Probabilmente è proprio per questa serie di ragioni che la Calabria «è raccontata poco e male – aggiunge il regista – mi pare che sia l’unica regione, insieme al Molise, che non ha nessun tipo di letteratura scritta, visiva o cantata. Forse è dovuto anche al fatto che in Calabria c’è una sorta di esterofilia che non riesce ad apprezzare quello che ha». Ma c’è di più, e ritorna il ruolo della classe dirigente: «Ogni anno ci sono 25mila premi organizzati a beneficio dei calabresi nel mondo o robe di questo tipo, che servono a organizzare serate per politici e vescovi e a nient’altro», attacca. Nessuna programmazione, nessuna idea. «Invece – rimarca – con gli stessi soldi si potrebbero fare cose molto concrete per far crescere professionalità artistiche e culturali». Ecco perché «purtroppo non c’è uno scrittore di riferimento che non sia defunto, non c’è un cinema preciso, non c’è una band». Un esempio? «Peppe Voltarelli ha vinto il premio Tenco come miglior album in dialetto. Chi lo sa in Calabria? chi vuole valorizzare questa esperienza?».

tatanka-9152È anche per questo che Gagliardi ha deciso di girare il suo nuovo film in Campania, a partire da un racconto scritto da Roberto Saviano. Il film si intitola “Tatanka scatenato”, racconta – senza stereotipi – una storia di un riscatto di un gruppo di giovani di Marcianise, in provincia di Caserta. Un gruppo di giovani uniti dal sangue e dal sudore del pugilato, che hanno nel vicecampione olimpico Clemente Russo il loro rappresentante più famoso. «È stata un’esperienza molto forte, interessante – racconta Gagliardi – Un film , girato tra la Campania e Berlino che ha un tono neorealista, girato con molte parti in dialetto, con buona parte degli attori presi dalla strada. È stato interessante conoscere e sviscerare le dinamiche sociali del Sud». L’uscita in sala è prevista per marzo, con 200 copie. Un ottimo numero. «Siamo molto contenti perché sono numeri significativi rispetto a quello che accade in questo momento nel cinema italiano». Una grande opportunità. «Abbiamo fatto una proiezione privata con Roberto Saviano: il film gli è molto piaciuto, spero che ci dia una mano a promuoverlo». L’occasione di fare il salto di qualità, magari in attesa di fare un film in Calabria «perché bisogna parlare di quello che si sa». Nel frattempo, con determinazione, continuare il proprio percorso. Da calabrese che fa cinema: «La cosa bella è che il bagaglio culturale, di ironia, di apertura sono cose che ti porti dietro. Sempre, che puoi esprimerlo nelle tue cose». Dovunque tu sia.

Liberiamo tutti insieme strade e piazze di Rosarno

Non era un mistero per nessuno, da almeno dieci anni. E faceva comodo a tutti: ai cittadini e agli imprenditori, alla politica nazionale e locale, agli ispettori e alle asl. Per questo solo oggi l’Italia scopre Rosarno. Perché a (quasi) nessuno interessava scoprirla prima. E quando qualcuno ha deciso di rompere il silenzio e ne ha cominciato a parlare e scrivere, quando alle cacce all’uomo si sono contrapposte le iniziative di solidarietà invece di esplodere il caso Rosarno come una vicenda nazionale è partita un’operazione sistematica di “silenziamento”. Che è finita soltanto grazie ai neri. Che nel 2008 hanno denunciato i loro aggressori in un territorio pieno di paura e omertà, che nel 2010 si sono ribellati alle provocazioni e agli spari.

A Rosarno è successo qualcosa di straordinario, nel senso di fuori dall’ordinario, nel senso di grave come non mai. Allo sfruttamento dei lavoratori e all’emergenza umanitaria, allo scaricabarile della politica e all’omertà dei controllori, al razzismo di tanti cittadini e all’indifferenza di tanti altri, si sono aggiunti comportamenti da Mississipi burning e la deportazione di una razza in stile Shoah. Non era mai accaduto, quali che siano le cause e le giustificazioni. E non bisogna sottovalutarlo. E’ accaduto a Rosarno e in questo contesto la ‘ndrangheta ha avuto un ruolo centrale che chi sottovaluta o derubrica a componente secondaria nulla capisce delle cose calabresi o in malafede fornisce una analisi sbagliata dei fatti. In questo senso, la sedicente manifestazione dei cittadini è solo una ulteriore conferma dell’assenza delle più elementari libertà.
Le arance insanguinate di Rosarno che, dopo piazza Navona, iniziano a circolare per le strade e le piazze italiane sono il simbolo di tutto questo. Sono il sale su una ferita che s’è aperta a Rosarno e che riguarda tutti. Riguarda anche Maroni, che finge di non capire. Una ferita che potremo rimarginare soltanto quando tutti, nessuno escluso – a partire dai cittadini di Rosarno e calabresi, dal movimento antirazzista a quello antimafia, dalle forze politiche e sindacali, dalla chiesa a tutti i cittadini – ci faremo carico di restituire la verità su quello che accade da anni a Rosarno, sulle denunce che sono state fatte e ignorate per anni. Sulle battaglie per i diritti e sulla negazione delle libertà. Senza indulgenza e senza giustificazionismi di maniera. Solo con una nuova consapevolezza e ristabilendo la verità si può cominciare a ragionare insieme su come ripartire, su come restituire agibilità democratica e diritti su un territorio abbandonato e che, pure, ha una tradizione gloriosa di lotte popolari, per la democrazia, contro le cosche. Questo dossier di Stopndrangheta raccoglie notizie, filmati, foto, esperienze che partono dal 2006 e arrivano fino a oggi. Come al solito, è certamente parziale, è a disposizione di tutti e a tutti chiede un contributo. Avrà anche una versione cartacea. Serve solo come punto di partenza per capire un po’ di più e più a fondo cosa accade in questo nostro Paese. E magari a ricordare, come sostiene l’ex sindaco di Rosarno Peppino Lavorato, che a macchiare l’immagine di Rosarno non sono i media (pure spesso colpevoli perché poco curiosi), ma le cosche della ‘ndrangheta. E che nessuno può accettare l’idea che esiste un pezzo di territorio off limits e non attraversabile. Le strade e le piazze di Rosarno sono territorio libero in un Paese libero. O no? A questa domanda bisognerebbe darsi una risposta sincera. Uscendo da ipocrisie, indifferenze, logiche di appartenenza e pregiudizi ideologici.

(dossier Arance insanguinate)

Contro il razzismo uno striscione per cento piazze

Lo striscione antimafia negato a Rosarno ricompare a Roma. Con la stessa scritta: «Speriamo un giorno di poter dire un giorno… c’era una volta la mafia». Lo porteremo, come associazione daSud, oggi pomeriggio alle 16,30 in piazza Santi Apostoli quando, con le associazioni antirazziste e le comunità migranti romane, manifesteremo davanti alla prefettura (lo stesso accadrà contemporaneamente a Caserta, Avellino, Padova, Reggio Calabria e in molte altre città), per tenere alta l’attenzione sui fatti di Rosarno e rivendicare politiche di accoglienza per i migranti che vivono in Italia denunciando, come si legge nell’appello diffuso in questi giorni, «troppa (in)tolleranza e nessun diritto».

Lo porteremo in piazza oggi lo striscione e nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, perché ricordi a tutti, nella sua essenza, cosa davvero è successo a Rosarno: sui principi, sulla verità non possiamo concedere spazio alle mediazioni.
Ha ragione l’ex sindaco di Rosarno Peppino Lavorato quando dice che «la rappresaglia e la cacciata dei migranti neri hanno aperto una ferita profonda e dolorosissima». Tuttavia lo stesso Lavorato invita tutti a uscire dalle ambiguità: la ferita si rimargina solo quando «diremo pubblicamente che non sono i media a macchiare l’immagine di Rosarno, ma a macchiarla ed insanguinarla continuamente sono le cosche della ‘ndrangheta».

Se così è, tutti dobbiamo farci carico di restituire la verità su quello che accade da anni a Rosarno, sulle denunce che sono state fatte e ignorate. Sulle battaglie per i diritti e sulla negazione delle libertà. Un contributo in questo senso vogliamo darlo in maniera concreta: il 23 gennaio pubblicheremo il dossier speciale «Arance insanguinate» di Stopndrangheta.it, il primo archivio multimediale sulla criminalità organizzata in Calabria. Partiremo da lontano, per provare a capire cosa accade oggi nei tanti ghetti del nostro Paese.

Siamo convinti che solo con una nuova consapevolezza e ristabilendo la verità si può ricominciare, valorizzando e difendendo il lavoro fatto dalle associazioni in questi anni, mettendo spalle al muro la politica e le istituzioni incapaci e colpevoli, recuperando la tradizione rosarnese e dell’intera Piana di Gioia Tauro fatta di straordinarie lotte popolari, per la democrazia, contro le cosche.
Su questo crinale si gioca la partita più complessiva dei migranti, in Calabria e nel Mezzogiorno, da Rosarno a Castelvolturno. Anche di questo occorre discutere nelle assemblee e negli appuntamenti del movimento e della politica, a partire dall’assemblea nazionale del 24 gennaio a Roma.

Da qui dobbiamo partire per rilanciare una mobilitazione nazionale, larga ed efficace, per dire no al razzismo e allo sfruttamento dei migranti. E per contrastare le mafie. Ragionando di una grande manifestazione nazionale in Calabria, da fare – come dice Lavorato – tutti insieme dietro lo striscione negato. Che diventa per una volta simbolo di libertà.

(pubblicato su “Il manifesto”)

Ulderico Pesce e i nuovi briganti

È l’attore e autore teatrale lucano Ulderico Pesce il quarto protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.

 

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Ha lavorato con Giorgio Albertazzi e Carmelo Bene, Luca Ronconi e Gabriele Lavia. Ne va fiero. Poi ha scelto la sua strada, quella che gli aveva indicato suo nonno che di che di mestiere faceva l’arrotino e che raccontava con un talento naturale le cose del passato. Storie vere, difficili, che lo riempivano. Quando è partito per Roma per studiare, alle pareti della sua stanza nel quartiere San Lorenzo ha appeso la foto di suo nonno. Come monito, forse. Come modello, ispirazione. È per questo che ha scelto di stare sul palcoscenico per raccontare la realtà. Di lavoratori sfruttati, di operai senza diritti, di cittadini che si ammalano. La realtà del nostro Paese, del nostro Mezzogiorno.
Ulderico Pesce è nato e vive in Basilicata. È un uomo di teatro – autore, attore e regista – che, per dirla con il grande critico del Corsera Franco Cordelli, recita come se stesse «seduto a un tavolo con ciascun spettatore». Uno che quando gli parli ti guarda negli occhi, racconta, si infervora, spiega e maledice. E non ha peli sulla lingua, nella vita come negli spettacoli. Così quando gli chiedi di partecipare al ragionamento del Domenicale di Terra sulle nuove creatività e identità meridionali, lui accetta volentieri. E dice subito: «Parlo anche da semplice cittadino». E dice subito: «Il Sud oggi è esattamente come quello di fine Ottocento: nulla è cambiato nel rapporto tra territorio, cittadini e Stato». Il paragone suona forte, ma l’attore lucano aggiunge subito: «Eravamo colonizzati dai Savoia nel 1861 e lo siamo oggi. Allora – sottolinea – lo Stato approfittò delle risorse energetiche, agricole e naturalistiche del nostro Sud lasciando la popolazione e interi pezzi di territorio sprovvisti di Stato, di quell’elemento terzo capace di assicurare giustizia e dignità, equità e diritti ai cittadini. Oggi non è diverso: lo Stato non c’è». Non si ferma qui il ragionamento di Ulderico Pesce. «Ho vissuto tutto questo sulla mia pelle – racconta – sono felice di avere una madre che è stata una bracciante agricola, ma mia madre avrebbe voluto studiare e non ha potuto. Questa è l’impronta di un’ingiustizia che hanno vissuto in tanti nel nostro territorio – insiste – e che la politica, che ha reso legale l’illegalità, non fa nulla per cambiare. Vale per la destra e per la sinistra in egual misura». Torna all’idea dello sfruttamento del Nord nei confronti del Sud, dell’abbandono dello Stato. E fa due esempi («mi piace parlare di cose concrete», dice). Il primo riguarda il Ponte sullo Stretto: «Noi meridionali non ne sentiamo il bisogno, non lo vogliamo, la nostra stessa cultura è contraria – sostiene – eppure il nostro ambiente e territorio vengono sacrificati per regalare un grosso affare a una grande impresa del Nord». E poi la Basilicata: «Bossi parla sempre di federalismo – dice – e allora parliamone con i fatti. Il nostro territorio ospita tre grandi multinazionali: l’Eni in Val d’Agri, dove estrae il 60% del fabbisogno nazionale di petrolio, la Coca Cola nel Volture, dove usa la nostra acqua, e la Fiat a Melfi». Bene, secondo Pesce, sono «tre grandi realtà che colonizzano il territorio e lo deturpano lasciando la fame alla Basilicata». Tanto che ogni anno a causa dell’emigrazione è come se sparisse «un paese di 15mila abitanti». E i lavoratori continuano a restare «senza diritti»: «Alla Fiat – attacca – ancora oggi non c’è il medico dopo le 18, come avviene in tutte le fabbriche d’Europa» e infatti «lo scorso aprile un operaio è morto per un semplice principio di infarto». Un prezzo che la Basilicata paga, senza avere nulla in cambio: «Queste tre grandi aziende le tasse le pagano altrove: parliamo di questo quando parliamo di federalismo fiscale».

TERRA ulderico pesceLa risposta a tutto questo sta nel brigantaggio, dice Ulderico Pesce. «Sono fiero di essere nato in Basilicata, il posto in cui il fenomeno è stato più forte», rivendica. «La risposta sta in una nuova forma di brigantaggio – sottolinea – quello dei movimenti che qui al Sud sono vivi e difendono il territorio e chiedono diritti. Movimenti che devono essere autonomi dalla politica – insiste – ma che devono organizzarsi e darsi una forma per cambiarla, contaminarla», per entrarci insomma con le proprie parole d’ordine. «I movimenti sui territori devono diventare forza politica – rimarca l’attore lucano – senza leaderismi, ma senza perdere altro tempo prezioso: in questo Paese la gente perbene sta all’opposizione e deve potersi esprimere». I riferimenti vanno trovati nella letteratura e nella poesia. Rocco Scotellaro, innanzitutto. «Un poeta contadino – lo ricorda Ulderico Pesce che sul suo lavoro e della poetessa Amelia Rosselli ha anche costruito uno splendido spettacolo “Contadini del Sud” – un sindaco, un occupatore delle terre. Diciamo che è stato un politico con un’impostazione poetica e un poeta con una coscienza politica: un vero punto di riferimento». E poi Corrado Alvaro, «il Pirandello delle novelle dei primi del secolo di Ciaula scopre la luna», il poeta suicida Franco Costabile «che amo molto e che ho sentito citare ai ragazzi del movimento ambientalista di Amantea». Prova a tenere insieme tutto questo mondo Ulderico Pesce con il suo lavoro, nella scrittura e nella scena. Lo spiega in maniera appassionata: «Ho scelto di fare questo teatro per due ragioni: una artistica e una psicologica». La prima «riguarda i miei studi». Un giorno al teatro Ateneo della Sapienza a Roma Ulderico Pesce incontra Anatoli Vassilev che lo porta a Mosca. Si ferma lì più di tre anni a studiare e praticare «un teatro semplice, povero, strutturato sulla verità e sulla necessità delle emozioni», a lavorare sul Metodo Stanislavskij «secondo il quale un attore deve essere sempre vero, credibile. Tutto il contrario della tradizione artificiosa del teatro italiano». Così tra il teatro italiano «e mio nonno che faceva l’arrotino, ho scelto mio nonno e i suoi racconti. Prima li ho portati in giro in Basilicata – racconta – poi ho capito che interessavano anche a Roma o a Milano». Così ha trovato il suo linguaggio Ulderico Pesce. Poi la ragione psicologica: l’ingiustizia di vivere al sud, «rabbia e la voglia di riscatto che mi sentivo dentro». E poco importa se stare al Sud e fare il suo lavoro è più difficile: «Ho fatto le cose per istinto e non per calcolo – dice – So bene che è molto più complicato, che ci sono poche strutture in mano sempre alle stesse persone». Eppure, rimarca, «sono felice di essere radicato al sud, di fare qui i miei laboratori e avere qui il mio archivio». Insomma, «al sud c’è più humus per il mio lavoro, più anima, più materia emotiva per la scrittura – confessa Pesce – e poi qui il mio lavoro ha più senso». Si spiega così: «Al nord non si può salire sugli alberi perché ti prendono per matto. Io qui appena posso ci salgo, e mi sento parte di questo mondo». Eccola l’anima del Sud, «la forma mentale di essere Sud», secondo Ulderico Pesce. E allora «io voglio rendere un po’ più Sud anche il Centro e il Nord».
Articolo pubblicato su Terra, 9 gennaio 2011

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È il novembre del 1878 quando Giovanni Passannante, giovane cuoco della Basilicata, vende la propria giacca per otto soldi per comprare un coltello. Vuole uccidere il Re d’Italia, Umberto I. Non ci riesce, gli procura solo qualche graffio. Viene però condannato a morte, poi graziato e spedito in una cella del carcere dell’isola d’Elba che sta sotto il livello del mare: qui si ammala e inizia persino a mangiare i suoi escrementi. Viene poi mandato a finire i suoi giorni in un manicomio criminale. Muore nel 1910. Gli viene negata la sepoltura e il suo cranio viene esposto nel Museo Criminologico di Roma.
Da allora Passannante finisce nel dimenticatoio, fino a quando Ulderico Pesce non si mette in testa di avviare battersi per dargli una degna sepoltura. Vince: nel 2007 i resti di Giovanni Passannante vengono portati e sepolti a Salvia di Lucania, il suo paese d’origine. Un paese che nel frattempo ha cambiato nome e ancora oggi si chiama “Savoia di Lucania”.
Questa incredibile storia Ulderico Pesce l’ha raccontata in un fortunatissimo spettacolo (che ha girato importanti festival in tutto il mondo) dal titolo “L’innaffiatore del cervello di Passannante: l’anarchivo che cercò di uccidere Umberto I di Savoia”. E oggi è diventata un film, “Passannante”, per la regia di Sergio Colabona, nel quale insieme a Ulderico Pesce recitano il cantante dei Tetes de Bois Andrea Satta, Bebo Storti, Roberto Citran e molti altri artisti. Il film è stato selezionato per il Bari International Film e Tv Festival diretto da Ettore Scola e Felice Laudadio (22 – 29 gennaio) che sarà presentato domani (10 gennaio) alla Casa del cinema di Roma.

 

Bomba a Reggio, Regionali e Ponte

La ‘ndrangheta è in difficoltà, sente addosso tutto il peso dell’attività della magistratura reggina. E reagisce. Non in maniera disordinata e avventata, come qualcuno vorrebbe far credere. Ma in maniera ragionata. Le cosche reggine alzano il livello dello scontro – a costo di pagarne le conseguenze in termini di esposizione mediatica – perché pensano di poter raggiungere dei risultati. Spetta a tutti, nessuno escluso, impedire che questo accada.

L’attentato di Reggio è certamente un attacco diretto alla magistratura reggina che sta colpendo in maniera sistematica gli uomini e i patrimoni delle cosche: catture di latitanti, sequestri e confische di beni (in tutta Italia), inchieste su droga e appalti. E probabilmente non è un caso che l’obiettivo sia la procura generale, uno dei centri nevralgici dell’intero sistema: dalle mani del procuratore generale Salvatore Di Landro e dei suoi sostituti passano i provvedimenti per le confische e arriveranno importantissimi processi (dall’omicidio Fortugno al porto di Gioia Tauro).
A tutti i magistrati reggini che lavorano con passione, serietà e impegno vanno pertanto la nostra solidarietà e il nostro sostegno. Non rituali.

Una sfida a tutti
La bomba alla Procura generale di Reggio Calabria è contro i magistrati, ma colpisce tutti. E’ una bomba contro la democrazia. Si sente, seppure ancora lontano, l’eco delle bombe di Cosa nostra che cercava (e a volte trovava) sponde nello Stato, qualcuno avverte l’eco delle trame eversive di questo Paese che hanno trovato in Calabria e nella ‘ndrangheta significativi punti di riferimento.
Soprattutto si percepisce un clima strano, pericoloso, al quale siamo già stati abituati (il pensiero corre alla bomba inesplosa al Comune di Reggio Calabria, nel 2004). Purtroppo. E forse è significativo che la bomba sia stata piazzata in un momento cruciale per i destini della Calabria: a poche settimane dalle elezioni regionali, a poche settimane dall’apertura dei cantieri del Ponte sullo Stretto.

Nel 2005.
Facciamo un passo indietro. Una campagna elettorale molto tesa quella di cinque anni fa, preceduta da un lungo anno di veleni ed ulteriori tensioni. Dall’agguato all’allora assessore del centrodestra Saverio Zavettieri, il clima diventa pesante. Una campagna elettorale lunghissima, tanto che l’attuale governatore Agazio Loiero annuncia la sua discesa in campo nella primavera del 2004. Tanti mesi di preparazione, forse troppi. Si respira aria da scontro all’ultimo sangue, si intuiscono movimenti sotterranei e attriti nell’universo della ‘ndrangheta.
È in quel clima che nasce nell’estate del 2005 l’idea di daSud, un laboratorio culturale, un punto di vista per recuperare la memoria della nostra Calabria e interpretare il presente. Volevamo capire cosa stesse succedendo, ci aspettavamo che accadesse qualcosa. Era nell’aria. L’omicidio di Franco Fortugno arriva prestissimo. Un terremoto. Un big bang. Quella tragedia ha prodotto un effetto positivo: di ‘ndrangheta oggi si parla. Solo dal 16 ottobre del 2005 la ‘ndrangheta è l’organizzazione criminale più potente d’Europa. Libri, reportage, inchieste, documentari, il livello di attenzione è certamente cresciuto.

Oggi.
Oggi, come nel 2005, si avvertono movimenti e tensioni tra le organizzazioni criminali, che hanno perso per strada boss e capobastone, che devono trovare la forza di riorganizzarsi, che sono in difficoltà sotto i colpi della magistratura. E che, nonostante ciò, continuano a determinare i processi economici, politici e sociali di interi pezzi di territorio. Come nel 2005 la situazione è esplosiva. Il consiglio regionale uscente è stato scosso dall’attentato di Locri, si è trovato a dovere affrontare una situazione di emergenza. Il consiglio regionale che verrà ha una responsabilità in più: dopo la bomba di Reggio Calabria – ultimo anello di una serie di segnali preoccupanti e inquietanti – nessuno può fingere di non vedere e non capire.
Eppure questa consapevolezza sembra di pochi: la questione ‘ndrangheta è ai margini del dibattito politico (persino di Fortugno quasi nessuno parla più) e purtroppo le vuote parole di circostanza di queste ore non fanno altro che confermare lo smarrimento generale della classe dirigente e politica.

Alcune questioni in campo.
Al governo, che pure con i ministri Maroni e Alfano ha manifestato preoccupazione per quello che è avvenuto in punta allo Stivale, vorremmo segnalare che non sono sufficienti le missioni reggine a sostegno di chi sequestra e confisca i beni mafiosi se poi si votano provvedimenti che ne facilitano il ritorno nelle mani dei boss. Così come vorremmo sapere perché si fanno orecchie da mercante di fronte alle reiterate richieste dei magistrati di più uomini e risorse per combattere la guerra contro la ‘ndrangheta.
Ai dirigenti politici di questa regione chiediamo invece che la futura assemblea calabrese venga eletta con un voto chiaro e consapevole. Sarebbe un perseverare diabolico il ricorso al clientelismo, che gioco forza da noi si traduce in voto di scambio con la ‘ndrangheta. Dopo l’omicidio Fortugno, dopo la bomba alla procura generale non si può più dire di non sapere. Ecco perché chiediamo alla politica e ai partiti di fare una scelta di trasparenza, di indicare i criteri di scelta dei candidati, di usare le forbici dove occorre, di non tapparsi il naso e quindi costringere gli elettori a farlo. Di pronunciare parole chiare e non equivoche e di essere conseguenziali nelle azioni. Non è antipolitica: il nuovo spesso è peggio del vecchio, quello che chiediamo è assunzione di responsabilità e non demagogia. Perché l’errore più grave è pensare di poter governare la Calabria senza la partecipazione costante della gente. Lo si è fatto e lo si potrebbe fare ancora, ma ad un prezzo altissimo: la politica non è più credibile. La partecipazione c’è se la politica è credibile, e la politica sarà credibile solo se, oggi più che mai, saprà indicare con trasparenza e responsabilità le liste dei candidati alle prossime regionali. Quelle del dopo Fortugno, del dopo attacco ai magistrati.

Il Ponte.
Un’altra riflessione. In questo periodo pre-elettorale sembra passare sottotraccia la questione mafiosa legata ai lavori per il Ponte sullo Stretto. Ma non era stata proprio l’annuncio dell’avvio dei lavori una delle ragioni a fare scoppiare la seconda guerra di mafia nel 1985?
Il nuovo avvio dei lavori è stato annunciato il 23 dicembre scorso, i cantieri potrebbero effettivamente partire in piena campagna elettorale. Ancora poco è stato detto sul modo in cui la politica calabrese intende impedire alla ‘ndrangheta di fare quello che ha fatto in quasi tutti gli appalti pubblici degli ultimi 40 anni, e cioè infiltrarsi e speculare, così come è stato per i lavori di ammodernamento dell’A3 e della statale 106.
Come? Un quesito che rivolgiamo ai partiti del centrodestra che il Ponte lo vogliono, e a quelli del centrosinistra che ufficialmente si oppongono – e che si avviano, peraltro in maniera goffa, a partire dalle primarie del 17 gennaio, a scegliere il candidato governatore – alle associazioni e alle grandi organizzazioni, alla magistratura, al mondo della cultura, agli addetti ai lavori, e non certo per ultimi ai cittadini.

Noi il Ponte non lo vogliamo.
Al quesito rispondiamo subito, per trasparenza e correttezza: sposiamo la scelta del movimento No Ponte. L’associazione daSud è scesa in piazza il 19 dicembre a Villa San Giovanni per tre motivi. Il Ponte non lo vogliamo perché non c’è spazio nella nostra idea di futuro per un’opera inutile e dannosa come il Ponte, perché pensiamo che sia la risposta sbagliata ai tantissimi giovani emigrati che fuggono dalla Calabria, quei tantissimi giovani che animano la nostra associazione un po’ ovunque nelle città della diaspora calabrese del Centro-Nord. E il Ponte non lo vogliamo perché crediamo che la società calabrese, e la politica che ne è lo specchio, non abbia sviluppato gli anticorpi necessari per evitare che, parafrasando una celebre frase, il Ponte unisca due cosche piuttosto che due coste. Qualcosa di simile è già successo al tempo del Quinto centro siderurgico: un megaimpianto calata dall’alto e di dubbia efficacia, appalti da record, poi il fallimento, le promesse disattese, i miliardi a finanziare la “cosa nuova” della ‘ndrangheta reggina e calabrese. Come abbiamo ricordato con un dossier speciale sull’archivio web Stopndrangheta.it (di cui siamo co-animatori), all’epoca venne in pompa magna Giulio Andreotti per la posa della prima pietra a Gioia Tauro (con tanto di caffè nell’hotel dei Piromalli). Quella prima pietra è poi tornata a Roma, con una manifestazione di protesta al seguito. Non vorremmo ripetere la scena, ed è purtroppo questa la nostra previsione. Non tocca a noi dare ricette e non lo facciamo, diciamo però che bisognerebbe trovare le risposte partendo dal basso, dai giovani che sono rimasti e da quelli che sono andati via ma continuano ad amare la nostra terra, dalle idee.

Ponte sullo Stretto, al centrodestra l’onere della prova.
Al centrodestra, che con il candidato governatore Giuseppe Scopelliti è pienamente in linea con la strategia delle grandi opere di Silvio Berlusconi, chiediamo di spiegare ai cittadini – ma nel dettaglio perché quei miliardi sono davvero tanti, una cosa mai vista – come si intenda vigilare, in una regione che da quanto emerge dalle inchieste giudiziarie appare assolutamente permeabile alle penetrazioni criminali. Scartata d’ufficio la lunardiana convivenza con la mafia, il Pdl ha l’onere della prova: dimostrare che è possibile evitare le infiltrazioni delle cosche. Un’assunzione di responsabilità da prendere prima del voto, con tutto quello che ne discende.

Ponte sullo Stretto, il centrosinistra e le primarie
Al centrosinistra le richieste sono molteplici. I partiti dell’area sono schierati ufficialmente contro la costruzione della megaopera. Ma alla manifestazione del 19 dicembre c’erano vuoti inspiegabili e incolmabili. Perché? Un quesito che è rivolto in primo luogo ai candidati che corrono per le primarie: è una scelta importante, e i cittadini devono scegliere conoscendo le posizioni dei partiti e dei candidati sulla questione del Ponte.
Un tema che riteniamo prioritario in questa campagna elettorale. Ecco perché chiediamo ai partiti del centrosinistra di essere conseguenti, coerenti, di esprimere con forza e costanza le proprie posizioni, di spiegare agli elettori in che modo intendano portare avanti l’opposizione al Ponte. Impegni precisi in campagna elettorale (a prescindere dalle alleanze future) e responsabilità dopo il voto.

Un appello generale.
Ma l’appello è generale: partiti, sindacati, associazionismo e terzo settore, movimento antimafia, società civile, singoli e comunità, vorremmo che la discussione sulla bomba a Reggio, le elezioni regionali e il Ponte fosse plurale e quanto mai varia. Vorremmo che ci fosse un dibattito su di noi, su una nuova identità meridionale. Molto c’è ancora da fare per esempio per recuperare la memoria della migliore Calabria che è stata, della meglio gioventù calabrese come amiamo definirla: una sfida che daSud percorre fino in fondo per colmare una lacuna storica della società calabrese, quella di dimenticare se stessa. Un percorso condiviso con diversi pezzi della realtà calabrese, come la Cgil, Libera, l’associazionismo, il mondo degli artisti e tanti ancora. Un percorso che altri portano avanti in parallelo, con grandi meriti.
Molto è cambiato, anche se gli effetti della nostra dimenticanza continuano a produrre enormi distorsioni. Capita ancora di leggere sulle cronache nazionali ricostruzioni miopi e fuorvianti della società calabrese, che non colgono quello che di buono c’è. E non aiutano. Come se l’anti-‘ndrangheta non fosse mai esistita prima dell’omicidio Fortugno. E invece la nostra terra ha una lunga tradizione di lotte antimafia, nella Locride e nella Piana di Gioia Tauro, tante e tante battaglie civili dal dopoguerra ad oggi. È da lì che bisogna ripartire. Una Calabria che ancora nessuno racconta. E non c’è più tempo.

(scritto con Alessio Magro, pubblicato su Il quotidiano della Calabria)