Incontro con Davide Enia

È il drammaturgo e attore palermitano Davide Enia il terzo protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.

 

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Se parla del mix di tradizioni presenti in Sicilia ti illustra la ricetta dell’arancina. Se gli chiedi un riferimento per far ripartire il cammino interrotto del Sud lui pensa al Palermo calcio. Non capisci subito dove voglia arrivare, ma alla fine il senso del suo ragionamento ti sembra l’unico possibile.
È piacevolmente spiazzante parlare con Davide Enia, 36enne attore e drammaturgo palermitano. Ti dice della cucina e del calcio – le sue passioni – e ti sta raccontando un mondo intero. Non solo. Quando parla dà fino in fondo l’idea di essere sincero: quando racconta di sé, del suo lavoro, della sua città. Forse è per questa sua irritualità che le sue opere, nate a Palermo e «pensate in palermitano», sono state capaci di parlare a mezzo mondo e tradotte in sette lingue. Enia ha grandi meriti artistici. Tra questi, sicuramente, quello di avere reso contemporaneo il linguaggio del racconto, del cuntu. È stato una delle modalità che ha scelto per praticare il sud (ci abita, ci lavora, ne subisce le influenze, lo racconta) confrontandosi con il mondo. Glielo fai notare, e lui si schermisce: «Parliamoci chiaro: quello era un teatro che si poteva fare con due soldi. E io ogni mese dovevo pagare l’affitto », rileva.
Un percorso originale, che merita di essere raccontato. Lui si presta in una pausa di lavoro. Sta scrivendo un romanzo. «Nessuno vive di teatro in Italia. Il teatro è morto e mi hanno fatto un’offerta interessante: ero disoccupato e l’ho accettata. Questo non sposta di una virgola la dignità di quello che faccio, la passione, l’importanza». Unica concessione sul romanzo insieme al fatto che uscirà nel 2011. Poi si torna a parlare di meridione. Per smontare pezzo dopo pezzo tutti i luoghi comuni. A partire dallo stesso concetto di sud: «È un’espressione geografica schiava della logica cartografica con cui guardiamo le cose», osserva deciso. E proprio partendo «da questo assunto sbagliato che abbiamo legittimato logiche discriminatorie e creato barriere inesistenti». Se poi il riferimento è al sud come «luogo letterario» va anche peggio: «Ha fatto danni incredibili: è frutto della vigliaccheria di chi si rifiuta di confrontarsi con gli altri», è «il sintomo dell’incapacità politica», ha creato le condizioni per «abbandonarsi al fatalismo». O magari ha fatto credere, come si usa dire banalizzando, che «in Sicilia si potrebbe vivere solo di turismo: una bugia incredibile». Basti pensare «all’assenza di infrastrutture» o alle eccellenze artistiche e del territorio «completamente abbandonate». E allora la conclusione non può che essere una: «Smitizzazione questo luogo» partendo dal fatto che «se vuoi capire il sud devi andare a vedere cos’è il nord». Non è un concetto scontato quello del confronto: «Troppo pochi siciliani» lo cercano. È sufficiente pensare «ai produttori di vini: quanti sono quelli che vanno all’estero? – sottolinea – È pavidità mascherata dalla convinzione sbagliata di essere i migliori». Probabilmente è per questa sintesi perversa di ragioni che vale il detto “cu niesce, riniesce”, «interpretazione dialettale del “nemo propheta in patria”».

Ce l’ha fatta invece Davide Enia. Scegliendo Palermo «perché è la mia città, perché avevo i miei affetti – racconta – perché è accogliente». Perché racconta un mondo che sta dentro le cose che Enia scrive e porta in scena. E poi c’è il dialetto («il mio primo linguaggio»), che tiene insieme «ritmi, gesti, silenzi, smorfie, mezze parole», che è «l’urgenza che perde il barocco», che ha «la grande fortuna di fare ridere».
Eppure questa Palermo così «struggente e lancinante», oggi «non è più un posto bello in cui vivere». Pertanto confessa: «Sto ripensando molto al mio stare qui – spiega – non ho vocazioni alla perdita di tempo. Non si cambia il mondo, bisogna fare bene il proprio lavoro». Non è tristezza, è che non ne può più. A fare le cose difficili in fondo c’era già abituato Davide. «C’è uno svantaggio innanzitutto economico per chi fa l’attore a Palermo», sostiene, e poi c’è il deficit di stare lontano da Roma e dai luoghi “politici” del teatro. Tuttavia fino a poco tempo fa, Enia non aveva dubbi: a Palermo stava accadendo qualcosa e lui ne era protagonista. Rivendica infatti con grande orgoglio che, «senza nessun aiuto istituzionale qui sono nate due realtà che si sono imposte in campo internazionale. Non era mai successo». Il riferimento, oltre che a se stesso, è a Emma Dante, straordinaria autrice e regista. «Avevamo talento e abbiamo deciso di puntarci tutto», dice. Un gesto di coraggio senza paracadute («non avevamo una lira») e «l’ostinazione e la presunzione di considerare il tuo lavoro valido ed esportabile». È questo uno dei frutti più autentici di una generazione particolare, quella di chi ha attraversato gli anni 80, «in cui c’era un’ammazzatina al giorno», e quella che ha sentito con le proprie orecchie le bombe degli anni 90. «In una totale assenza di senso – dice – abbiamo costruito un forte contenuto di senso». Non si è trattato di casi isolati: dagli attori cinematografici, ai musicisti palermitani che per tre anni consecutivi hanno vinto Arezzo Wave. «C’è stata una grande esplosione dei talenti, l’ultimo colpo di coda: non so quando ricapiterà». Nel frattempo questa situazione favorevole, e forse irripetibile, di creatività, fermento e passione ha subito una devastante battuta d’arresto. Che secondo Davide Enia ha un nome e un cognome: Diego Cammarata, sindaco da quasi dieci anni della città di Palermo, uomo di Silvio Berlusconi. L’attacco di Enia è pesante e lucido. «Dall’arrivo della giunta Cammarata, otto anni fa, c’è stata l’ostentazione dell’incapacità, dell’ignoranza, del menefreghismo». Chi amministra non ha «nessuna idea di futuro, ignora la realtà, crea un’immagine di un luogo inesistente come salvagente per la propria mediocrità».
Anche il poco di positivo rimasto «è stato letteralmente sbranato a carne cruda, abbassando in maniera preoccupante l’asticella della decenza». Il risultato è che «oggi il palermitano si “accolla” tutto». Non fa sconti, Enia. Affonda i colpi: «La città è una fogna e nessuno ha l’onestà di ammettere come stanno le cose o di assumersi le responsabilità». E invece le responsabilità sono chiare: «Chi ha guidato la città in questi anni? Chi ha sbagliato tutte le scelte sul traffico e i rifiuti?». Cammarata è il responsabile primo, ma l’attore palermitano non dimentica che «questa amministrazione è stata votata da più della metà dei miei concittadini» e che «non mi pare di vedere nessuna indignazione o sacrosanta rabbia rispetto allo stupro continuato della nostra città. Qui c’è rassegnazione tacita». E nessuna indulgenza. Insomma, «stiamo andando a rotoli».

Tuttavia ci sono passioni e stimoli da cui ripartire. Ne è convinto Davide Enia: «Il Palermo gioca il più bel calcio d’Italia, restituisce un’idea di bellezza e tiene vivo un fortissimo orgoglio anche da parte di chi se n’è andato». E poi c’è l’eccellenza della gastronomia «che dovrebbe essere più consapevole. Non riesco a credere che non esiste nulla a tutela di cibo, vini, tradizione, cibo di strada». Non si capacita del fatto che «la politica sia così miope rispetto a tutto questo». La Sicilia «è un piccolo continente, raccoglie tremila anni di tradizioni». Si ferma un attimo. Poi riprende, con una grazia sorprendente: «Un cibo popolare può racchiudere storie e tradizioni di migliaia di anni. L’arancina tiene dentro di sé il riso dell’Asia, lo zafferano dell’Afghanistan, il pomodoro dell’America, il ragù della Francia, la panatura del Maghreb». C’è un mondo dentro l’arancina, che la Sicilia però può perdere. Se non recupera il senso di essere isola, il rapporto con il mare, la consapevolezza di stare al centro del Mediterraneo, l’apertura agli stranieri. Ecco la Sicilia secondo Enia. Allora da dove ripartire? Lui ci pensa un attimo: «Da Ciccio il Sultano, al Duomo di Ragusa Ibla, e da Pino Cuttaia a “La Madia” di Licata», risponde sicuro. Spiega: «Mangiando in questi due ristoranti si può conoscere davvero l’eccellenza e l’enorme potenzialità del nostro territorio, imparando da chi in silenzio compie una grande opera culturale». Per dopo pranzo, «un bicchiere di Vecchio Samperi, di Marco di Bartoli, cioè il marsala come dovrebbe essere». Ovvero i sensi come fondamento dell’identità meridionale.
Pubblicato su Terra il 12 dicembre 2010

Incontro con Dario De Luca

L’attore e autore teatrale calabrese Dario De Luca, fondatore con Saverio La Ruina della prestigiosa compagnia Scena verticale, è il secondo protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.
dario de luca

Ci sono alcune cose che già pensarle diventa un’impresa. Cose su cui nessuno scommetterebbe un centesimo. Una di queste cose è quella di decidere di fare teatro in Calabria. Nuovo teatro e ricerca, di organizzare un festival. E invece a volte può accadere: che fai nascere una compagnia e che diventi subito riconoscibile, che la tua poetica sia in grado di raccontare un territorio oscuro e inedito come la Calabria, che un dialetto sconosciuto e complicato diventi lingua teatrale, che organizzi una rassegna che diventa ambita e apprezzata. È accaduto in Calabria, a due attori e autori. Si chiamano Dario De Luca e Saverio La Ruina e 18 anni fa hanno fondato Scena verticale (alla compagnia, come organizzatore, qualche anno dopo s’è aggiunto Settimio Pisano). Una storia che va raccontata. Per “Creatività meridiane”, il viaggio del Domenicale di Terra attraverso idee, pratiche e memorie per costruire una nuova identità meridionale, lo fa Dario De Luca. Che parte dall’inizio: Scena verticale «nasce per un’urgenza come tutte le cose che facciamo – spiega Dario – nasce dall’esigenza che avevamo di fare teatro in Calabria. Il nostro percorso creativo e la nostra poetica nascono da un’utopia lavorare nella periferia dell’impero, investire sui nostri luoghi invece che a Roma, nella Romagna felix o a Milano». Dario e Saverio si conosco lavorando a un progetto teatrale che chiude dopo un solo anno. Si conosco e si riconoscono, capiscono che è l’ora di mettersi in gioco nonostante il momento sfavorevole. Racconta: «Tutti ci dicevano che non era il caso», ricorda. In Calabria le strutture erano chiuse o annaspavano, a Roma «era stato appena soppresso il ministero». Non si scoraggiano Dario e Saverio, sentono «l’urgenza» (un termine che ricorre spesso durante la conversazione) di fare, presuntuosamente pensano che «in un territorio vergine come la Calabria si poteva creare una comunità teatrale». E si buttano nella mischia. Per prima cosa si mettono a fare «tanto teatro ragazzi perché è una palestra formidabile visto che a quel tempo c’era molto poco spazio per esibirsi, c’erano pochi teatri, pochi organizzatori, poche stagioni». Ma c’è anche un’altra ragione: «Pensavamo di creare il pubblico del futuro».

Il ragionamento, apparentemente strano, ha un suo fondamento: «Quando usciamo dal cinema, dopo aver visto un film, tutti ci sentiamo giustamente in diritto di commentarlo, di dire la nostra. Ne abbiamo l’abitudine, l’abbiamo acquisita da piccoli». Bene, secondo Dario, bisogna fare lo stesso con il teatro: «Bisognerebbe creare il teatro dell’obbligo, creare la curiosità e l’abitudine, evitare che ci si trovi a dire che il teatro è noioso, che non si capisce, non si conosce. Se vedi uno spettacolo da ragazzo ti sembra più normale andare a teatro da grande».
Va avanti così per alcuni anni. Fino al 1996, quando c’è un nuovo inizio per Scena verticale: Dario e Saverio iniziano «a ragionare su un percorso e un progetto autonomo». È l’anno del primo spettacolo “scritto, diretto e interpretato” da De Luca e La Ruina. Si intitola “La stanza della memoria” contiene dentro di sé i germi della poetica, dei temi, dei linguaggi di Scena verticale. È l’inizio «del nostro percorso artistico vero e proprio: comincia il racconto della Calabria delle mille contraddizioni che viviamo giornalmente, di una terra straordinaria che ti dà e ti toglie». Lo spettacolo, «affettivo e ironico», racconta di un mondo contadino che è andato perduto e che è stato sostituito dal nulla. E poi in questo spettacolo c’è per la prima volta la trasformazione del «nostro dialetto in lingua teatrale». È la svolta. Che si consolida con la presenza dello spettacolo De-Viados a Teatri 90 e che esplode con il progetto ambizioso della trilogia calabro-scespiriana «che racconta di vuoti esistenziali, della incompiutezza di noi calabresi, della tristezza che abbiamo negli occhi, della nostra incapacità di prenderci cura del bene comune». Vanno in scena “Hardore di Otello”, “Amleto ovvero Cara mammina” e “Kitsch Hamlet”, spettacoli apprezzati dal pubblico e dai critici. Dopo aver visto un loro spettacolo al festival di Sant’Arcangelo di Romagna, Goffredo Fofi «attesta l’importanza della nostra compagnia come esperienza di un teatro che viene pensato come pensiero meridiano», ricorda con orgoglio Dario.
Poi la compagnia porta in scena due straordinari spettacoli di Saverio La Ruina: “Dissonorata” e “La Borto”. «Raccontano di una comunità femminile umiliata e offesa, raccontano cose del nostro villaggio che diventano grido di dolore universale delle donne». Per “Dissonorata” La Ruina si aggiudica due premi Ubu (il più importante premio del teatro italiano) nelle categorie “Migliore attore” e “Nuovo testo italiano”. Per “La Borto” oggi è nella terzina finalista insieme a due mostri sacri come Alessandro Gassman e Fabrizio Gifuni.
A Scena verticale va anche dato il merito di aver portato in scena la ‘ndrangheta. È uno spettacolo scritto e diretto da Dario questa volta: si intitola “U Tingiutu. Un Aiace di Calabria”. «Sentivo l’esigenza – spiega – di avviare una riflessione su questo tema, di cominciare a parlare di ‘ndrangheta sul palcoscenico di un teatro. È una ferita ancora aperta – chiarisce – non è facile entrare in questa cosa, scegliere il modo. Il lutto non è stato ancora elaborato, si ripete, si reitera. Non abbiamo la distanza giusta per parlarne con lucidità, forse per questo mi sono fatto aiutare dal mito greco» che infatti attraversa tutto il bellissimo spettacolo.
È un percorso pieno di curve eppure molto coerente quello della compagnia calabrese, il percorso di chi ha deciso di restare in Calabria e tuttavia non s’è mai chiuso nelle proprie certezze: «Ci siamo sempre posti il problema del confronto con le realtà nazionali», dice Dario. Anche per questo forse sono riusciti a vincere la loro scommessa. La prima. Eppure quando chiedi a Dario De Luca quando è il momento in cui hanno pensato di avercela fatta, lui risponde secco: «Ancora non l’abbiamo detto». Poi aggiunge: «Certo oggi ci sentiamo di far parte di più della comunità teatrale italiana, ma è tutto davvero fluttuante». In questo senso forse influisce non avere un proprio teatro. «Avere una casa – spiega – significa avere una riconoscibilità diversa. Ne è un esempio il Teatro Piccolo di Milano che riesce a essere se stesso anche dopo aver perso Paolo Giani e Giorgio Streheler. Avere un teatro significa far sì che rimanga qualcosa».

Forse è anche per questo che Scena verticale non produce solo spettacoli, ma ha deciso nel 1999 di dare vita a un festival. A Castrovillari, provincia di Cosenza, anche questo provincia dell’impero teatrale. «Partecipammo al bando dell’Eti, l’Ente teatrale italiano – ricorda De Luca – proponendo l’ipotesi di un festival del nuovo teatro al sud con l’intento ambizioso di farlo diventare un polo del teatro contemporaneo italiano». È un bando importante. Alla fine vince Scena verticale insieme a due mostri sacri come Gabriele Vacis e Leo De Bernardinis. Un’occasione imperdibile. Primavera dei teatri diventa subito un appuntamento importante. «Siamo diventati una realtà riconosciuta e riconoscibile e dopo 11 edizioni possiamo dire di avere assicurato la continuità: non era per nulla scontato in Calabria», dove gli enti locali sono impegnati a sostenere decine di generiche e spesso inutili sagre paesane. «Ma la cosa di cui siamo molto orgogliosi – sottolinea Dario – è di essere stati una sorta di avamposto: siamo arrivati prima di molti altri con molti spettacoli, molti attori, molte compagnie, abbiamo ospitato cose che solo dopo sono diventate importanti. È successo con Emma Dante, con Ascanio Celestini, persino con alcuni spettacoli di Fabrizio Gifuni».
Un’altra scommessa vinta in questo Sud pieno di contraddizioni. «A volte penso che siamo ancora al Regno delle Due Sicilie, nonostante la tanto sbandierata unità d’Italia, nonostante i 150 che stiamo per festeggiare – polemizza – È una situazione complessa: troppo spesso ci sentiamo sudditi non veri cittadini dell’Italia». Una considerazione amara. Che vale per tutto il Sud anche se di Sud ne esistono molti: «Siamo diversi e abbiamo problematiche differenti», ma c’è una cosa che «ci lega: la sofferenza», non ha dubbi Dario. «È per questo che ci riconosciamo sempre e comunque. È atavica, l’abbiamo nei segni del viso, nel nostro agire ostinato», dice. Anche per la sofferenza ci sono reazioni differenti: «A volte diventa piagnisteo, richiesta d’aiuto servile». E invece no. Invece «esiste anche un Sud che prova a raccontarsi e che con dignità e orgoglio prova a essere protagonista del proprio agire». Un nuovo inizio per il nostro Paese con alcuni punti di riferimento: innanzitutto «le lezioni sulla Costituzione di Calamandrei». Poi i discorsi di Fausto Gullo, storico comunista calabrese della Costituente, «un politico lucido che aveva una grandissima forza e pulizia intellettuale». E propone anche di andarsi a rileggere il libro “Sull’identità meridionale” di Mario Alcaro, filosofo e docente dell’università della Calabria. Letture che devono servire a rimettere in campo «le passioni dei giovani. È per questo – insiste Dario – che non ho mai smesso di fare laboratori nelle scuole». Con che risultati è presto per dirlo. Di certo, sottolinea «se ci stai in una terra devi provare a impegnarti per renderla migliore. Altrimenti – dice – in posti come la Calabria non è neanche il caso di rimanere ed è meglio andare via». E invece «io penso che bisogna che al sud ci riprendiamo in mano nel nostre vite». Ognuno per la sua parte.

Pubblicato sul quotidiano “Terra” 5 dicembre 2010

Cacun, reportage per Terra

daSud con Rigas (la Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale) è a Cancun per il vertice Onu sui cambiamenti climatici (e i relativi controvertici). Ecco il mio reportage per Terra.
Sul sito reteambientalesociale.org gli aggiornamenti quotidiani e tutti gli articoli. La manifestazione del 7 dicembre è stata ripresa in tutto il mondo. Ecco la Bbc

rigas_resizeCANCUN – I giornali locali dicono che fa freddo. Alcuni lo strillano persino in prima pagina che quest’ondata durerà ancora per qualche giorno. A leggere i quotidiani di Cancun sembra di stare nel Nord Europa bloccato dalla neve. La realtà, naturalmente, è che le “rigide” settimane del vertice mondiale Cop 16 sul clima prevedono solo poche nubi e qualche raffica di vento. Sarà per questo presunto maltempo che i governi di tutto il mondo in arrivo in Messico non riescono a cogliere l’urgenza di trovare un accordo che arresti il riscaldamento globale?
Ironia a parte, è sufficiente che ministri e capi di governo alzino gli occhi al cielo o respirino un po’ più profondamente per cogliere il livello impressionante di smog nell’aria e capire che siamo ben oltre il livello di guardia.

Cancun è probabilmente la città più adatta dal punto di vista delle infrastrutturale a ospitare il Cop16 con centinaia di delegazioni provenienti da ogni parte del mondo, tuttavia è anche quella che – forse meglio di altre – esprime appieno le mille contraddizioni messicane e, in fondo, può essere portata a paradigma di un sistema economico e sociale da cambiare. A livello mondiale, e dalle fondamenta. Appena qualche decennio fa, infatti, Cancun, nello stato di Quintana Roo, era un tranquillissimo centro di pescatori che avevano trovato la loro dimensione in una zona quasi disabitata formata da una duna a forma di sette a due passi dai Caraibi. Un villaggio della penisola dello Yucatan, famosa in tutto il mondo per gli straordinari insediamenti Maya che (a Tulum o a Chiche-itza) resistono imponenti fino ai giorni nostri.
Poco più di trent’anni fa, la svolta repentina: il governo messicano per allentare la pressione su Acapulco decide di fare Cancun in una zona ad alta densità turistica. Bastano pochi anni e l’intera area con le paludi, le spiagge bianche e una vegetazione mozzafiato che si specchia sulla bellissima Isla Mujeres, diventa una città (con più di mezzo milione di abitanti) e si trasforma in una delle capitali mondiali del turismo, meta privilegiata di migliaia di ricconi soprattutto statunitensi e canadesi.

Lo capisci subito, appena scendi dall’aereo, dove ti trovi. Ad accogliere i turisti c’è un clima di festa che si materializza sotto forma di un gruppo di suonatori messicani con tanto di poncho, baffo e sombrero. Appena fuori dallo scalo, è un’invasione di taxi (migliaia girano tutta la città per pochi spicci) e pullman pronti a servire al meglio singoli o intere comitive. Percorrendo i pochi chilometri che separano l’aeroporto dalla città entri subito nel clima del vertice. La città è completamente militarizzata: ci sono decine di posti di blocco, controlli, rallentamenti. E la polizia federale si mostra fiera solcando le strade a bordo di suv Ford che sul retro trasportano cinque uomini in divisa blu armati di mitra rivolti in maniera inutilmente imprudente verso le auto o i pedoni. Quasi inutile precisare quanto sia presidiata la cosiddetta zona rossa, l’area del vertice ufficiale dei governi che – piccola curiosità – si scorge da lontano grazie a una pala eolica (la stessa del vertice di Copenaghen?) che gira a vuoto da giorni e vuole rappresentare il simbolo del cambiamento. Ci sono poi altre cinque zone – tutte lontane tra loro – che Cancun ha destinato al vertice. C’è Cancunmesse, l’area della fiera ufficiale, e Villa climatica, attrezzata dal governo per fare la faccia pulita e dimostrare al mondo il proprio impegno per l’ambiente (assolutamente deficitario per tutta la società civile messicana). Ci sono poi le aree riservate ai tre (!?) controvertici (una novità la divisione, dovuta alle scelte del movimento del Paese ospitante): il Klimaforum delle ong a Puerto Moleros, Dialogo climatico che ha allestito il villaggio a due passi dal palasport della scherma e via Campesina che sta al centro sportivo Canek. Spazi che non comunicano ma che potrebbero trovare nella manifestazione convocata per domani (7 dicembre) un punto di contatto. Per le strade, come sempre in questi giorni, anche Rigas, la Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale, tra i protagonisti del controvertice.

Ma se si dovesse indicare la zona di Cancun più interessata dal vertice, forse paradossalmente, si dovrebbe indicare la zona hotelera: una striscia di terra stretta e lunga una manciata di chilometri – che sta in mezzo al mare di Cancun e collegata alla terra ferma da due ponti – su cui sembrano poggiati come giganteschi mattoncini della Lego ben 93 (novantatre!) hotel di lusso alti anche venti piani, casinò (ce n’è anche uno immenso, inaugurato poche ore fa, con fuori in bella mostra il coniglietto di Playboy), discoteche e ristoranti. Costruzioni imponenti che hanno alle spalle l’acqua della laguna con gli approdi per i motoscafi e davanti l’oceano Atlantico. Un unicum impressionante che ha modificato l’ecosistema, l’orizzonte, la stessa identità della città. È qui che alloggia la gran parte delle delegazioni ufficiali del vertice (davanti a ogni porta d’albergo è presente una pattuglia della polizia) ed è qui che lavora una parte davvero consistente della popolazione di Cancun impegnata come cuochi, camerieri, personale di hall, addetti alle pulizie. A questo proposito, i giornali sottolineano che il vertice ha salvato una stagione invernale che rischiava di essere fallimentare dal punto di vista delle presenze (e quindi dell’economia locale). Per la gente comune, l’unica possibilità di respirare la stessa aria dei ricchi.
Mano a mano che dalla zona hotelera ci si sposta verso l’interno, questa città priva di un centro storico diventa la zona residenziale della classe media. Fuori dal centro due diverse realtà: andando verso sud, si trovano decine di resort d’elite, parchi dei divertimenti e campi da golf. Andando invece verso l’interno, verso le sterminate periferie, ci sono i quartieri della stragrande maggioranza della popolazione locale che vive in abitazioni che somigliano più a capanne che a case. È in questa dicotomia che si mostrano tutti i paradossi, la sproporzione tra ricchezza e povertà del sistema economico e sociale messicano (e, in fondo, anche mondiale). Secondo una ricerca pubblicata nel 2006, il Messico – un solo dato può essere significativo in questo senso – è la seconda nazione al mondo, dietro gli Usa, per numero di obesi (il 24% della popolazione). Un dato eloquente sulla situazione generale, che diventa ancora più eclatante se accompagnato da alcune considerazioni. La prima riguarda il sistema sociale: per le strade di Cancun – tra minuscoli carretti di venditori ambulanti di cibo, Coca cola e bevande Nestlé, curiosi infopoint e minimarket – si vede una moltitudine di giganteschi centri estetici, palestre, farmacie e parafarmacie. Solo contarli produce un certo effetto di straniamento. La seconda è esemplificativa di un sistema economico alla deriva: il Messico, per le conseguenze nefaste sull’economia del Nafta (l’accordo di libero scambio firmato nel ‘94 con Usa e Canada), è oggi primo produttore al mondo di mais e, pure, è costretto a importare il 33% del suo fabbisogno.
Su questa problematica situazione strutturale, a Cancun proprio in questi giorni è caduta la tegola dell’allarme rifiuti. E interi pezzi di città somigliano molto alla peggiore Napoli. Molte zone periferiche e persino alcune mete turistiche (il visitatissimo mercato 28) sono letteralmente invase dalla spazzatura e circondate da discariche a cielo aperto. Un colpo ben assestato all’immagine patinata costruita sul lusso degli hotel sottolineato anche da alcuni giornali locali che polemicamente invitano a fare un giro virtuale per Cancun godendosi i cumuli di rifiuti anche attraverso Google Earth. Per questo è alta la tensione contro la società – la Domos Tierra – che ha avuto in concessione (per 37 milioni di pesos messicani) la raccolta dei rifiuti e che mostra tutte le sue insufficienze. Ma è solo una delle tessere del puzzle della precarietà di Cancun, di Quintano Roo e dell’intero Messico. Basti prendere a prestito le parole di Mario Herrera Moro, presidente dell’ordine dei geologi del Messico. Intervenendo al forum Cento proposte concrete per il cambiamento climatico, Herrera ha sottolineato la fragilità del territorio dello Yucatan, denunciato la presenza di discariche abusive e parlato di un sistema fognario al collasso e di corsi d’acqua contaminati. Un quadro ambientale pericoloso che determina un altissimo rischio di esplosioni – superficiali o sotterrane – di gas metano (già avvenute in alcuni villaggi attorno a Cancun) e che mettono a rischio la salute di centinaia di migliaia di persone. Gli ha fatto eco Jose Luis Luege Tamargo, direttore generale della commissione nazionale dell’Acqua: nonostante lo Yucatan sia la regione mondiale con più abbondanza di acqua, ha spiegato, gli abitanti rischiano di non averne più a disposizione. Almeno di quella buona. I veleni delle fabbriche e dei rifiuti accatastati nelle discariche abusive stanno contaminando in maniera irreparabile le falde acquifere e i corsi d’acqua. Con le conseguenze immaginabili per chiunque. È questo il Messico che ospita il Cop 16. Di questo sistema che precipita – qui e altrove – dovrebbero occuparsi i governi del mondo. Per capirlo, è sufficiente guardarsi attorno. Anche nella luccicante Cancun.

 

Cancun e il controvertice triplo

CANCUN – L’immagine più chiara la fornisce, forse involontariamente, Christina Figueres, la responsabile dell’Onu sui cambiamenti climatici. È il suo pianto a spiegare in maniera eloquente lo stato dell’arte al vertice Cop 16 di Cancun durante il quale i governi di 194 Paesi de mondo sono riuniti per affrontare la crisi ecologica e il riscaldamento del Pianeta. Figueres parla con i giovani che sono venuti al vertice messicano da tutto il mondo e a un certo punto scoppia in lacrime. Dice: «Non importa quale sarà l’accordo – commenta riferendosi all’intesa che potrà uscire dal vertice – perché è comunque pateticamente insufficiente». Introduce anche un elemento di umanità, raccontando di avere due figli di 21 e 22 anni, rivelando il suo sogno di farli vivere in un mondo migliore. Poi si asciuga gli occhi, spiega ai ragazzi che sarà la prossima settimana quella decisiva e chiarisce che non si dà per vinta, che si spenderà fino in fondo per cercare di convincere i governi della necessità di un impegno vincolante per il clima e a salvaguardia della Terra. Non ci crede Christina Figueres e in fondo non ci crede nessuno alla possibilità di un’intesa vera. Sono troppi i segnali negativi: dal fallimento della Cop 15 di Copenaghen alle deludenti attività preparatorie delle riunioni internazionali di Bonn (in Germania) e Tianjin (in Cina). Una situazione sempre più preoccupante, che riguarda tutti e che tutti pensano di risolvere semplicemente non affrontandola come se la crisi ecologica ed economica non fosse già realtà, non fosse già il frutto amaro di un sistema mondiale al collasso.
E stanno arrivando in migliaia a Cancun, da tutte le parti del mondo, a ricordare ai potenti del Pianeta che il sistema mondiale è ormai vicino al collasso, che è necessaria un’assunzione di responsabilità da parte di tutti. In queste ore sono già iniziate le prime proteste: un miniblitz di Greenpeace Messico ha sollevato il caso della zona di Quintana Roo, dell’aggressione delle attività petrolifere e turistiche, gli agricoltori hanno già lanciato l’allarme «ecocidio» a proposito del cementificio costruito nella zona dio Veracruz mentre alcuni movimenti di Cancun sono stati ieri mattina a protestare davanti al municipio. Sono solo le prime avvisaglie. Infatti il movimento ambientalista mondiale è arrivato in forze a Cancun e non mancherà di farsi sentire.

È diviso in tre tronconi, però, il movimento. Per tre controvertici con tre programmi e tre diverse attività (che probabilmente potrebbero trovare qualche punto di contatto in occasione della manifestazione convocata per il 7 dicembre per le strade di Cancun). Il primo dei controvertici è quello dei movimenti dei contadini e delle vittime ambientali che fanno capo a Via Campesina. Nel villaggio allestito nello stadio della città sono arrivate tre carovane – organizzate da Via Campesina e dell’Assemblea nazionale delle vittime ambientali (un’organizzazione che raccoglie centinaia di vertente ambientali messicane) – partite il 27 novembre e che hanno attraversato i luoghi simbolo del Messico convogliando i movimenti studenteschi e dei lavoratori. La prima carovana è partita da San Luis Potosì per denunciare la presenza di una miniera a cielo aperto che dovrebbe fare la ricchezza del territorio e invece, naturalmente, è un concentrato di veleno per il terreno e le falde acquifere. La seconda carovana è quella di Salto, luogo altamente contaminato per la presenza di un gigantesco polo industriale e di una discarica di ben 71 ettari che non rispetta nessuna norma di sicurezza. Alle carovane di via Campesina ha partecipato anche una delegazione italiana di Rigas (Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale, che raccoglie oltre 60 organizzazioni da nord a sud). Via Campesina ha organizzato anche mobilitazioni dei movimenti di agricoltori in ogni parte del mondo «per creare migliaia di Cancun», mentre altre due carovane autonome sono partite in segno di solidarietà da Oaxaca e dal Chiapas. Il secondo troncone del movimento è quello di Dialogo climatico (che si riunisce in un villaggio allestito a due passi dal palasport della scherma), una realtà composta da centinaia di associazioni e comitati di base provenienti da ogni parte del mondo, che ha a cuore le sorti del Pianeta e che organizza un fitto programma di confronti e dibattiti sulla crisi ecologica mondiale provando anche a declinarla nelle realtà nazionali e locali. Il 5 dicembre uno dei panel principali – promosso da Rigas – è dedicato all’Italia e alla crisi (che naturalmente non è soltanto quella politico-parlamentare di questi giorni) del nostro Paese nell’era di Berlusconi. Significative rappresentanze italiane sono presenti anche nel terzo troncone del movimento ambientalista che dà vita al controvertice Klimaforum che ha trovato la sua sede nella zona di Puetro Morelos. Ci sono le delegazioni di numerose associazioni e ong tra cui Legambiente, Wwf e Greenpeace che s’è già fatta notare per la presenza della sua nave e perché il 29 novembre in apertura del forum ha lanciato un gigantesto pallone aerostatico nei cieli dell’antica città Maya Chichenitza con la scritta inequivocabile “Rescue the Climate”.
In questo clima si svolgono i lavori della Cop 16. Con il cuore e la mente che sta dentro i controvertici e l’economia che guida le scelte dei governi. Che sono a Cancun, ma che già puntano al Cop17 del prossimo anno a Johannesburg. A meno che le lacrime di Christina Figueres non facciano il miracolo.
4 dicembre 2010
Pubblicato sul quotidiano Terra

Winspeare: Siamo una bella nave allo sbando

Con il regista pugliese Edoardo Winspeare parte “Creatività meridiane”, un ciclo di incontri con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. È il tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.
Il ciclo di incontri “Creatività meridiane” è fatto per il quotidiano ecologista Terra.

Edoardo Winspeare è un regista meridionale e un personaggio anomalo per i canoni del Sud per molte ragioni. Innanzitutto, la più banale: il cognome che porta, segno di una storia del tutto particolare. Winspeare è nato in Austria, originario di una famiglia nobile e cattolica dello Yorkshire che si trasferisce nel regno di Napoli in seguito a una guerra di religione. Cresce nel Salento. Poi decide di studiare cinema e si trasferisce a Firenze, quindi a New York, poi ancora a Monaco di Baviera. Alla fine di un lunghissimo giro per il mondo decide di tornare in Salento e di vivere a Corsano, in provincia di Lecce.

Ci sono anche altre ragioni che fanno di  Edoardo Winspeare un artista sui generis. La prima riguarda i suoi film. Si tratta di opere – da “Pizzicata” a “Sangue vivo”, da “Il miracolo” a “I galantuomini” – che hanno girato con successo i festival di mezzo mondo, ma soprattutto hanno la capacità di raccontare, da dentro, l’anima più vera un pezzo prezioso del nostro Mezzogiorno, il tacco dello Stivale, il Salento. Poi perché a Winspeare girare film sembra non bastare. È un ottimo musicista e una decina d’anni fa ha fondato e animato la band Zoe e ha deciso di fare il produttore (è socio con Gustavo Caputo di Saietta Film) scegliendo di continuare a vivere in Puglia. Una scelta in parte antieconomica «visto che il cuore del cinema sta a Roma o al limite a Milano» e che gli costa il prezzo, confessa, «di  fare e produrre sicuramente meno film, di fare molta più fatica a trovare i soldi».
C’è poi la sua scelta – per nulla scontata – di mettersi in gioco. Come animatore culturale e come promotore di un percorso di rivendicazione di diritti che ha avuto il suo culmine cinque o sei anni fa, quando Edoardo Winspeare lancia la sua battaglia ambientalista per difendere il territorio dal cemento selvaggio. Lancia un’idea e un progetto apparentemente strampalato: comprare ecomostri, per abbatterli. La sua eresia, forse addirittura la sua pazzia, diventa l’associazione Coppula tisa, dal nome della lucertola salentina. Quella di Winspeare è una provocazione, concreta e intellettuale, che molto ha da dire sull’idea di Sud che dovremmo avere. Sono anni in cui vengono a galla centinaia di brutture illegali in ogni parte d’Italia e in cui la politica e le amministrazioni – come oggi, per la verità – sono sorde di fronte al richiamo, alla necessità, del bello. Il regista salentino chiama a raccolta la società civile, i cittadini, parte una colletta che corre come un treno e nel giro di pochi mesi un ecomostro di Tricase viene acquistato, abbattuto e il terreno viene restituito ai cittadini: «Oggi lì c’è il parco della cittadinanza attiva». Un piccolo grande risultato, senza neppure un euro degli enti pubblici, che serve da monito per la politica, che può rappresentare un modello per costruire un’altra identità nel territorio pugliese martoriato dall’abusivismo, come tutto quello meridionale («l’unica industria che funziona al sud è quella dell’edilizia», commenta amaro Winspeare).
Un regista e un intellettuale anomalo, fuori dagli schemi, molto meridionale e molto cittadino del mondo. Un buon punto di partenza per un viaggio – Creatività meridiane – che il domenicale di Terra vuole condurre in giro per il Sud alla scoperta di memorie, idee e pratiche per ragionare attorno a una nuova e originale identità meridionale. Winspeare è molto contento di partecipare a questo ragionamento. «Dobbiamo parlare di Sud? È l’unica cosa che so», esordisce divertito.

Si può partire da una definizione allora: «Siamo una bellissima nave senza nocchiero, una nave alla deriva», sentenzia. Poi aggiunge subito: «Oggi complessivamente il sud è peggiorato, ma visto che siamo a livelli così bassi non si può fare altro che risorgere. E mi pare che ci sono buoni segnali».
Dice: «Il Sud deve emanciparsi. Prima doveva farlo dai francesi o dagli spagnoli, adesso da ‘ndrangheta, cosa nostra, camorra e sacra corona». L’osservazione immediatamente successiva è che «ci sono politici del tutto irresponsabili. Io al loro posto sarei preoccupatissimo – insiste – invece vedo che non c’è nessuna ansia di fare cose buone e direi che si cammina troppo a braccetto con il malaffare». Per emanciparsi il Mezzogiorno, secondo il regista salentino, deve «prendere coscienza di quello che può dare, della sua storia, delle sue capacità economiche», deve cioè considerare che «siamo al Sud dell’Europa, ma siamo anche al centro del Mediterraneo». E lancia subito il suo primo obiettivo: «Recuperare Napoli», perché «se si recupera una grande città come Napoli ci sarà un effetto trascinamento che servirà a tutti».
Winspeare spiega a chiare lettere che non si tratta solo di un problema delle regioni meridionali, ma è una questione centrale che riguarda il Paese intero. «Noi abbiamo perso il nostro Sud – rimarca – ma anche l’Italia l’ha perso» e invece avrebbe dovuto «approfittarne». Approfittare della posizione strategica che il Mezzogiorno ha, della funzione di ponte che può avere «con l’Africa, i Balcani», con Napoli che «deve essere la nostra Costantinopoli». Paradossalmente invece non solo il Sud non rappresenta questo punto di riferimento, ma si allontana dall’Italia, si allontana persino da se stesso: «Al Sud nessuno conosce nessuno – spiega Winspeare – Per arrivare da Lecce a Reggio Calabria devo prendere tre o quattro treni, impiego 12 ore. Per arrivare a Torino o a Milano prendo un aereo e ci arrivo in un paio d’ore». Insiste nel suo ragionamento chiarendo che tra le diverse realtà del Sud «non c’è scambio commerciale e culturale, ci sono pochi intellettuali e la maggior parte di loro non vede l’ora di andare via, non ci sono mostre, eventi, una vera casa editrice». Un ragionamento che Winspeare fa «da pugliese e, quindi, da chi in questo momento sta messo meglio degli altri».

Non è un pessimista Winspeare, non si capirebbe altrimenti perché ha deciso di restare. E allora prova a fare una scala di priorità che possano essere alla base di una «rivolta positiva del Sud». Bisogna perciò «partire dalla cultura, dall’ambiente e dai giovani». Serve una «rivoluzione ambientale» che significa «cura del nostro straordinario territorio, della nostra cultura, del lavoro dell’uomo», bisogna insomma «valorizzare la bellezza». Indica anche dei punti di riferimento, «dei maestri a seconda degli orientamenti politici: Salvemini per i socialisti, don Tonino Bello per i cattolici, Borsellino per i conservatori». E pone l’accento anche su due periodi storici, da riprendere in mano per provare a ripartire: «Il Seicento dei calabresi con i suoi santi eretici e visionari» e, più recentemente, «gli anni Cinquanta in cui operavano personaggi come Ferruccio Parri o De Gasperi che… si comportavano bene». E ce ne sono anche degli altri punti di riferimento: «Gli eroi quotidiani, cioè le persone che fanno ogni giorno bene il proprio lavoro, quelli che, per dirla con Borges, stanno salvando il mondo». Certo nessuno, nemmeno il regista pugliese, vuole raccontare un mondo che non c’è. Si tratta di intervenire in quello che non funziona: nei trasporti, nella politica, nelle buone pratiche. Si tratta di «lamentarsi di meno e darsi da fare», di «liberarsi dal pregiudizio che riguarda i meridionali – come avviene per le donne, che sono costretti a essere i più bravi, i più brillanti, i più trasparenti» per farsi strada, di superare la «pigrizia intellettuale» degli italiani e l’abitudine dei media di privilegiare «le idee semplici e preconcette per comunicare». Il Mezzogiorno d’Italia è «complesso, frutto di cinquemila anni di civiltà, con molte cose da scoprire». Un discorso che riguarda un intero territorio. «Per me il Sud sta tutto insieme e penso che per il Sud oggi valga davvero la pena di combattere – dice – e lo dico a costo di sembrare nostalgico». E questo perché «è vero che il Sud si sta prostituendo al consumo, ma ancora conserva un senso di comunità, un’anima che non dobbiamo perdere sull’altare dei neoricchi consumisti». Ci sono delle isole nel nostro Mezzogiorno che «dobbiamo difendere dal rischio che la piovra le inglobi perché dire che tutto è mafia significa dire che niente lo è: e poi si ha il gioco dei clan». In questo ragionamento Winspeare fa una precisazione: «È vero che noi abbiamo la mafia – sottolinea – ma è anche vero che nel Mediterraneo siamo gli unici a non avere problemi etnici o di fanatismi: siamo accoglienti, ci sono episodi nella nostra storia di tolleranza, amicizia», dice riferendosi anche a quelle straordinarie storie dei pugliesi cha accolgono gli albanesi e i calabresi che aprono le porta ai curdi o ai palestinesi. Tutto questo, secondo Winspeare, «può rendere molto più facile avviare un percorso di cambiamento delle cose». Ecco perché gli viene fuori dal flusso del ragionamento la suggestione di fare del Sud «l’Arca della pace», della cultura, della cura del territorio, del rispetto per l’uomo. Eccolo il Sud di Winspeare: «Un posto da cui partire, certo. Ma anche un posto in cui arrivare». Con Napoli a fare da capitale.

(Pubblicato sul quotidiano Terra il 28 novebre 2010)