Le mafie ci uniscono

Subito una precisazione, necessaria: in questo ragionamento non c’è nessuna grottesca tentazione scissionista o nostalgia neoborbonica. Non c’è nessuna voglia di agitare la retorica tricolore – nazionalista o praticata in sella a un cavallo bianco – nessun ammiccamento ai festeggiamenti di un Paese ingessato. Questo è il ragionamento collettivo – aperto, di certo parziale – di chi pensa che, in occasione del 150° anniversario dell’Unità del Paese, bisogna parlare dell’Italia vera, di quella che esiste e resiste. Da qui (tutti i materiali sono da domani su dasud.it) nasce la campagna “Le mafie ci uniscono”, uniscono nord e sud, le nostre identità. Parla con molti linguaggi all’Italia, alla politica, ai movimenti. Per dire che fingere che le mafie non ci siano, non serve. Chiede la partecipazione di tanti, per riempire noi gli spazi che altrimenti finiscono nelle mani sporche degli altri. Per costruire, finalmente, ragioni profonde per stare insieme, le basi di un Paese fondato sui diritti e le libertà. Un paese antimafie, senza mafie.

Per farlo, occorre partire da quello che siamo. Senza sconti, consapevoli che la nostra identità di italiani oggi è debole, sfocata, frutto di un processo storico che ha lasciato ferite mai rimarginate a cui s’è aggiunto un trentennio di neoliberismo che ha stracciato i diritti. Oggi siamo un’Italia rotta, avvilita, guasta. Siamo un Paese precario, senza un’idea di sé, che umilia le differenze, costringe le libertà, offende la cultura, si nutre delle sue contraddizioni, un Paese in cui crescono vertiginosamente le disuguaglianze tra le fasce sociali, tra nord e sud. E siamo il Paese delle mafie: sin dal 1861, quando hanno iniziato la marcia inarrestabile che le ha portate ad essere presenti in tutte le regioni e a diventare soggetti glocal, capaci di unire dominio territoriale e affari mondiali. Così oggi le mafie non sono più un’emergenza meridionale, ma un elemento strutturale, seppure patologico, della modernità, del sistema economico e di potere del XXI secolo. Le mafie controllano il Paese non solo per la forza militare. Ma perché fanno politica ed economia, hanno una sconfinata liquidità e condizionano il mercato del lavoro, stanno nella massoneria e collaborano con i servizi segreti, infiltrano le istituzioni e ci trattano, inquinano le università. Per dirla in altri termini, stannonel potere, hanno e gestiscono consenso, contengono il concetto di borghesia mafiosa. Se così non fosse, semplicemente non sarebbero mafia.

Se vogliamo attraversare degnamente il 17 marzo, quindi, dobbiamo fare i conti con tutto questo, ragionare in chiaroscuro dell’esercizio del potere, del modello economico e della crisi, portare le mafie e l’antimafia al centro della discussione nella politica e nei movimenti sociali. E se vogliamo davvero ragionare di memoria, è bene ripartire da chi si è battuto per la libertà, per i diritti sociali e civili oggi in pericolo, dalle vittime innocenti delle mafie. Di questa Italia vogliamo parlare, e di quella capace di accogliere lo straniero, rispettare le differenze di genere, mettersi in discussione. Non è semplice, certo. Serve un ribaltamento culturale, ripensare il modo di concepire mafia e antimafia, nord e sud. Bisogna eliminare il termine legalità e ragionare di giustizia, uscire dall’emergenza e puntare sulle logiche di sistema, rigettare l’idea degli eroi e promuovere pratiche comuni, sbugiardare le amnesie e le ambiguità di Stato che stanno a destra e sinistra. E ancora, comprendere che antimafia significa difendere il territorio dalle speculazioni, affermare il diritto ai servizi pubblici, pretendere una buona informazione, combattere la precarietà sociale e generazionale, sfuggire dal ricatto occupazionale, contrastare i fatti di Rosarno. Non capirlo, significa negare l’essenza e l’esistenza stessa delle cosche, sostenere che con i clan si deve convivere, o considerare pezzi d’Italia persi per sempre. Significa usare gli schemi di chi ha fallito.

Attorno a noi abbiamo una crisi epocale gestita da una classe dirigente delegittimata dai fatti. Bisogna rispondere con l’impegno collettivo e la partecipazione, allargando il fronte delle alleanze, della battaglia politica. Così declineremo anche lo sciopero generale. Con la rivendicazione di diritti, di un’identità. Chi si tira fuori, si sottrae alla responsabilità di pensare al futuro. Questa è la battaglia antimafie. Che si vince, se ciascuno fa la sua parte. Con rigore e curiosità. Senza indulgenze, equivoci, compromessi sui principi, senza predicare una cosa a Roma per rinnegarla in Calabria. Vale per tutti, fino in fondo.

(pubblicato su “Il manifesto” del 15 marzo 2011)

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