Un intellettuale comunista contro la ‘ndrangheta.A Rosarno, storia di Valarioti ucciso 30 anni fa

Il Pci vinse le elezioni e le ‘ndrine sconfitte si vendicarono uccidendo il segretario della locale sezione, appena due giorni dopo il voto. Con lui, due passi indietro, c’era Peppino Lavorato, ancora oggi memoria storica della sinistra nella Piana di Gioia Tauro

LA SCHEDA 
Giuseppe Valarioti è nato a Rosarno il 14 febbraio 1950. Era un professore di lettere con la passione per l’archeologia. Giovane intellettuale, Peppe aveva partecipato alle lotte per il lavoro e s’era opposto alla speculazione edilizia. A poco più di 25 anni scelse la strada della politica attiva e l’impegno anti-‘ndrangheta. È stato consigliere comunale e segretario del Pci di Rosarno in un periodo di grandi tensioni sociali nel quale lo scontro con le cosche era durissimo. È stato assassinato nella notte tra il 10 e l’11 giugno del 1980, all’uscita di una cena dopo la vittoria alle elezioni. Aveva trent’anni. Il suo omicidio non ha colpevoli. I testi in queste pagine sono una parte del lavoro dell’associazione daSud onlus, impegnata a scavare nella memoria del Mezzogiorno, alla ricerca delle storie della “meglio gioventù”. Confluiranno in un libro di Danilo Chirico e Alessio Magro sulla storia di Valarioti che uscirà in primavera. Il materiale è stato raccolto grazie all’archivio Stopndrangheta.it.

LA STORIA 
Aveva trent’anni e trent’anni fa è stato ammazzato. Due colpi di lupara per soffocare la speranza. È stata la ‘ndrangheta a uccidere Giuseppe Valarioti, l’11 giugno del 1980. La vittoria del Pci alle elezioni era la sconfitta delle ‘ndrine. Ecco che i capobastone della Piana hanno alzato il tiro sul segretario della sezione comunista di Rosarno.

Se non siamo noi, chi lo fa? 

Di famiglia contadina, Peppe Valarioti è cresciuto tra i libri e il lavoro in campagna. Gli piaceva studiare, coltivare i suoi interessi culturali. Laureato in Lettere classiche a Messina, è rimasto presto folgorato dal fascino di Medma, l’antica Rosarno magnogreca. Gli scavi, gli scritti, le ricerche, il confronto intellettuale. Una grande passione, che presto passa in secondo piano. La Piana è terra di disoccupazione giovanile, di grandi speculazioni, di emigrazione, di ‘ndrangheta e affari sporchi. «Questo schifo è anche colpa nostra. E se non siamo noi a batterci chi lo fa?» diceva sempre agli amici. Ecco che Valarioti decide di scendere in campo, con il Pci. Peppe riesce a parlare ai giovani, in un paio di anni prenderà in mano il partito e lo rinnoverà con grande energia.

La rivincita 

La tornata elettorale dell’8 e 9 giugno 1980 è decisiva. Nel 79 il Pci ha perso alle amministrative, a vantaggio del Psi, che governerà con la Dc. «Estorsione mafiosa del voto» la chiama Peppino Lavorato, padre politico di Valarioti e icona dell’antimafia sulla Piana. Le cosche hanno imposto i loro candidati. La strategia del Pci muta: attaccare i capi e parlare alle famiglie dei giovani. Perché per loro una speranza c’è ancora. Sfondano i comunisti a quelle elezioni del 1980 per il rinnovo dei consigli regionale e provinciale. Sfondano nonostante la ‘ndrangheta metta in campo tutto quello che ha. Addirittura, fuori dai seggi si vede don Peppe Pesce in persona, in permesso dal soggiorno obbligato – prolungato ad arte per settimane – per la morte della madre.

L’ultimo giorno 

Nel primo pomeriggio del 10 giugno, Lavorato è ancora in pigiama quando accoglie Valarioti. Un caffè, poi subito a lavoro. I primi risultati si conoscono verso le 4. È un successo: Lavorato è riconfermato consigliere provinciale, Fausto Bubba andrà in consiglio regionale. In sezione l’euforia è alle stelle. Di fronte c’è la sede del Psi, i volti sono scuri. Sembra restare fuori (ce la farà con i resti) il candidato del Psi Mario Battaglini. Una soddisfazione in più. Spontaneamente un gruppone di 40 comunisti parte per un corteo spontaneo verso il quartiere Corea – un nomignolo dispregiativo – che è riserva di voti del Pci ma anche il feudo della famiglia Pesce. Urla, canti, pugni chiusi, poi a pochi passi dalla casa del don ‘ndranghetista, Lavorato e Bubba intimano l’alt, per evitare le provocazioni. Qualche frizione è inevitabile, esplode un battibecco con una donna del casato rosarnese: «Arrivano i porci». Nessuno ci fa caso, in quel momento. La festa continua. E arriva l’idea della cena: «Compagni ce la meritiamo» dice Valarioti. Qualcuno ascolta attento i discorsi dei comunisti, appoggiato alle pareti del bar di fronte.

La cena 

Al ristorante La Pergola, sulla strada per Nicotera, è tutto pronto per accogliere i vincitori. Si mangia tanto e si innaffia tutto col vino buono. Si sprecano gli evviva e le storie divertenti. «Compagni abbiamo vinto», enfatizza Peppino Lavorato alzando il suo bicchiere. Poco dopo la mezzanotte pagano il conto. Valarioti esce dal ristorante per primo, due passi indietro c’è Lavorato. Peppe non fa in tempo ad aprire lo sportello, due fucilate cariche di vendetta lo investono in pieno. Sanguina e si lamenta la speranza della Piana. «Aiuto cumpagni, mi spararu». Quel sangue caldo Lavorato ce l’ha ancora sulle mani, sulla faccia, sui vestiti. Lo ha tenuto stretto durante il viaggio disperato verso l’ospedale di Rosarno. Ma non c’era più nulla da fare. Resta quell’ultimo sguardo che è una promessa, «non ci fermeremo».

La campagna elettorale del 1980 

In quel 1980 i manifesti del Pci non li strappavano né li coprivano. Li capovolgevano. Non è la stessa cosa, affatto. Vuol dire: ti colpisco quando voglio. Ma i comunisti quella campagna la vivono da protagonisti. Due, tre, quattro, cinque comizi volanti ogni sera. Fa nomi e cognomi Peppino Lavorato. La tensione sale, la situazione precipita. I mafiosi non stanno a guardare. E in una notte di fuoco mandano in fumo l’auto di Lavorato e provano a incendiare la sezione comunista. «Se qualcuno pensa di intimidirci si sbaglia di grosso, i comunisti non si piegheranno mai». Peppe Valarioti lo dice con aria seria, aprendo quel 25 maggio il comizio in piazza dopo quell’affronto. Quello stesso giorno arriva in paese tutta la ‘ndrangheta della Piana: è morta la madre di don Peppe Pesce.

Il Pci sotto tiro 

La forza morale del Pci è immensa. E risiede in un semplice principio: mai cedere alla ‘ndrangheta, mai tollerare la corruzione. Un principio praticato con determinazione, in quegli anni. Come tutte le grandi organizzazioni, spesso qualcosa sfugge. Ma l’intransigenza si manifesta nel colpire le mele marce: chi sbaglia non ha una seconda possibilità. Un’intransigenza che costa cara: come in Sicilia, anche in Calabria è il Pci a pagare un tributo di sangue nella lotta alla mafia. A Cittanova i giovani del Pci s’erano fatti carico del rinnovamento dopo l’omicidio del loro compagno Ciccio Vinci nel ’76, a Gioiosa il sindaco Ciccio Modafferi insieme a tanti altri aveva difeso il paese e la memoria di Rocco Gatto, mugnaio assassinato per le sue denunce nel ’77. Poi una nuova offensiva: l’omicidio di Valarioti e quello dell’assessore di Cetraro, in provincia di Cosenza, Giannino Losardo appena 10 giorni dopo. C’è un vero e proprio accerchiamento, partono anche le campagne di denigrazione («La morte di Valarioti? Questione di donne»). I funerali di Valarioti e Losardo sono grandi momenti di democrazia. A Cetraro arriva anche Enrico Berlinguer e annuncia che il partito non si sottrae alla battaglia.

Il comizio di Ingrao 

È passato un mese dalla morte di Peppe. A Rosarno gli hanno già dedicato una piazza. È la sua piazza ed è già stracolma di gente quando arriva Pietro Ingrao. Sul palco un vecchio stanco aspetta il partigiano dei comunisti. È Pasquale Gatto, il padre di Rocco, giunto da Gioiosa per onorare la memoria di quell’altra vittima dell’anti-‘ndrangheta. Tra la folla ci sono anche gli amici di Ciccio Vinci. L’emozione è alle stelle. Le storie della meglio gioventù calabrese si incrociano. E incrociano le delegazioni del Pci giunte da tutt’Italia. Sullo sfondo del palco giganteggia una litografia che raffigura Valarioti e riporta la sua frase epitaffio: «I comunisti non si piegheranno mai».
Il concetto di Ingrao è semplice: se hanno colpito noi possono colpire chiunque. La campana suona per tutti. Ma con una certezza: «Ci hanno ammazzato anche Antonio Gramsci! Ma noi siamo rispuntati più forti». Un lungo, commosso applauso. Il cammino dei rosarnesi riprende lungo le strade d’Italia, attraverso le feste dell’Unità che accolgono le parole commosse di Peppino Lavorato e sostengono una campagna di raccolta fondi. Rosarno deve avere una nuova Casa del popolo, e l’avrà. Intitolata a Valarioti.

Il presidio della libertà 

Quando cala la tensione, i comunisti restano pochi, ma tengono aperta la sezione. Ogni giorno, per anni. Per dire che il Pci non è morto. Peppino, Rafele Cunsolo che è il nuovo segretario, Ninì, Peppe, gli altri sono lì a fare quadrato mentre in paese la gente ha paura e li evita come appestati. Da Roma arriva la chiamata: Peppino Lavorato diventa deputato. Gli anni volano e, dopo un mandato passato a battagliare a Montecitorio per la sua terra, torna a Rosarno. La nuova legge per l’elezione diretta dei sindaci è l’occasione giusta. Si candida, i rosarnesi lo premiamo per due volte consecutive. È una stagione di cambiamenti, in un contesto maledettamente difficile. E’ tempo di beni confiscati e manifestazioni, di minacce e proiettili contro il Comune, della costituzione di parte civile di un comune contro le cosche in un processo civile (primo caso in Italia). È la stagione dell’accoglienza dei migranti, che ormai arrivano a centinaia sulla Piana. Una stagione troppo breve. Ma un seme, quello della “Calabria contro”, che viene da lontano e che bisogna coltivare con passione e grande attenzione.

Il processo 

Due sono le piste battute al processo Valarioti, in parte sovrapposte: quella della Cooperativa Rinascita (il consorzio di agrumicoltori guidato dal Pci) e quella della campagna elettorale dell’80. Nel mirino la cosca Pesce, a partire dal patriarca don Peppino. Valarioti, già nel gennaio dell’80, aveva contestato la gestione della coop (guidata dal cugino Antonio), imponendo una verifica sul meccanismo dei contributi pubblici. Secondo l’accusa (il pm Giuseppe Tuccio), la cosca Pesce imponeva bollette di pesatura gonfiate ed era riuscita a infiltrare la Rinascita. Ma è la tesissima campagna elettorale dell’80 a creare le premesse del primo omicidio politico-mafioso in Calabria. Valarioti continuava a sfidare le cosche. E la sua linea aveva vinto, e convinto. Serviva un segnale forte. Eclatante. Lo aspettano all’uscita dal ristorante quella notte dell’11 giugno, dopo la cena di festeggiamento per la vittoria alle elezioni, quando era insieme agli altri dirigenti del Pci. Colpirne uno per educarli tutti.
Pesce è stato assolto per insufficienza di prove dalla Corte d’assise di Palmi il 17 luglio 1982. Poi il silenzio. Fino al colpo di scena del dicembre del 1983, quando a parlare è Pino Scriva. Il “re delle evasioni”, famigerato ‘ndranghetista di San Ferdinando, è il primo grande (e non unico) pentito della ‘ndrangheta. Secondo Scriva, dietro l’omicidio Valarioti ci sarebbe la decisione della cupola della Piana. Le rivelazioni di Scriva hanno portato ad ergastoli e centinaia di anni di carcere. Eppure l’inchiesta-bis sull’omicidio Valarioti nel 1987 si è conclusa con un buco nell’acqua. Nel 1990, la Corte d’assise d’appello lascia il delitto avvolto nel mistero.

Un paese imploso 

Come nella Tebe di Laio, Giocasta ed Edipo, il sangue versato è una maledizione che si abbatte sull’intera comunità. L’unica soluzione è esiliare i colpevoli. Ma ciò a Rosarno non è avvenuto, non ancora. È una metafora che spiega l’origine di quella Rosarno che tutti abbiamo visto nelle immagini della “caccia al negro”. Il paese del grande movimento contadino del dopoguerra ridotto al silenzio, nelle mani della ‘ndrangheta. Che il delitto del dirigente comunista, ancora impunito, sia all’origine di questa implosione? Quel che è certo è che questo Paese non ha saputo garantire giustizia neppure a un giovane e trasparente eroe dell’anti-ndrangheta come Peppe Valarioti. È da qui che bisogna ripartire. Con la memoria e l’impegno.

(scritto con Alessio Magro, pubblicato su Il manifesto)

Giuseppe Gagliardi, regista che racconta Tatanka

Il regista calabrese Giuseppe Gagliardi ha un film in uscita “Tatanka scatenato”, ispirato a un racconto di Roberto Saviano. È lui il sesto protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.

 

INTHEBRONX«Il Sud è il luogo che se tutto funzionasse sarebbe un paradiso». Alla domanda su cos’è oggi il Sud, non esita neppure un attimo. Aggiunge un attimo dopo: «Il problema è il fatto che non funziona quasi nulla». Giuseppe Gagliardi ha 33 anni, è un regista e sceneggiatore calabrese. Che vive altrove, come molti suoi coetanei, come molti che hanno deciso di fare cinema («in Calabria sarebbe impossibile», precisa).
«Potenzialmente – sottolinea – al Sud ci potrebbe essere tutto». E invece «da 150 anni questo pezzo d’Italia è rimasto schiacciato da dinamiche politiche inquietanti: nel processo di unificazione c’è stata la volontà storica di ridurlo così, la volontà precisa di trasformarlo in un luogo in cui tutto va in malora. Nella periferia dell’impero». Una realtà «che fa male, ma che è così». Che va spiegata, «raccontata», dice. E il riferimento non può che essere al fortunatissimo libro di Pino Aprile, “Terroni”.
Non tutto dipende dagli altri, però. Anche i meridionali, i calabresi devono fare la propria parte. Da questo punto di vista Giuseppe Gagliardi introduce una punta di ottimismo attraverso un elemento generazionale: «C’è un dato interessante in Calabria nell’ultimo periodo: un dato anagrafico. Ha preso il potere un gruppo di quarantenni, finalmente una generazione che sa cos’è una email, Skype o un motore di ricerca». Gagliardi si riferisce al nuovo presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti (classe ’66) e ai suoi più stretti collaboratori (peraltro da lui indicati, la vicepresidente Antonella Stasi, anche lei del ’66, l’assessore al Bilancio Giacomo Mancini che ha 37 anni). Una cosa significativa, per il regista cosentino, che naturalmente dovrà «essere supportata dai fatti sui quali dare il nostro giudizio politico».
È importante, fondamentale il ruolo della classe dirigente di un territorio, la capacità di cogliere i cambiamenti, di capire i processi, di instaurare un rapporto chiaro e utile con i cittadini. Per spiegarlo il regista ricorre a un’esperienza personale: Saracinema. È un festival cinematografico pensato e organizzato da Gagliardi per Saracena, un incantevole borgo (a rischio abbandono) che sta in provincia di Cosenza, a metà strada tra il Pollino e il mar Tirreno. È il 2006 quando nasce questa esperienza, che ha almeno due importanti caratteristiche: la prima è che il cinema sta dentro il paese, lo attraversa, lo trasforma in una grande sala, in una grande casa di produzione, in una grande platea, in un luogo pieno di osterie, suoni e immagini. L’altra è che il festival offre a trenta giovani (calabresi e non) l’occasione di incontrare faccia a faccia registi, autori e produttori altrimenti difficili da incrociare. Un’idea affascinante e concreta. Una buona pratica, soprattutto per un territorio che ancora non ha un vero festival del cinema. «In tre anni Saracinema era cresciuto, era diventato una bella realtà – sottolinea – Poi ci siamo scontrati con la realtà, con la politica che ha deciso di non seguirlo più, di non sostenerlo. E dopo alcuni anni di grandi sacrifici siamo stati costretti a lasciare stare». Occasione mancata, l’ennesima per la Calabria. Una situazione paradigmatica per la regione in punta allo Stivale che probabilmente è alla base di uno degli elementi più tristi: «l’esodo continuo, da oltre 50 anni, di tutti i cervelli più interessanti della regione. Costretti ad andare via, e che trovano le loro occasioni migliori lontano da casa». Attacca Giuseppe Gagliardi: «È questo il risultato di un sistema fatto di assistenzialismo e clientelismo». E invece no, invece «i cittadini devono avere l’opportunità di realizzare i loro progetti. Se questo accade, possono succedere cose interessanti».

tatanka-0157Gagliardi è un calabrese che fa cinema, ma non fa cinema in Calabria. «Fino a oggi non è stato possibile realizzare un film, anche se mi piacerebbe molto», sottolinea. Così un regista che viene premiato al festival di Nanni Moretti con il Sacher d’argento (nel 2003 con il corto Peperoni), che riceve un premio al Torino Film Festival (con il documentario musicale Doichlanda, ancora nel 2003), che con il suo primo lungometraggio “La vera storia di Tony Vilar” partecipa a festival come quello di Roma (nel 2006) e il prestigiosissimo Tribeca di New York (nel 2007) alla fine si trova a constatare che «continua a valere il detto “nemo propheta in patria”», che il cinema per la Calabria è un poco più di un ufo. Eppure la storia di Tony Vilar, l’emigrante calabrese Antonio Ragusa partito nel 1952 alla volta dell’Argentina e diventano famoso in tutto il mondo con il brano “Quanto calienta el sol”, era un film «legato alla riscoperta di una certa calabresità, una certa italianità tra Buenos Aires e New York». Anche questo progetto «non ha mai avuto un sostegno reale», commenta.
Quello che non si capisce in Calabria, secondo Gagliardi, è che anche «la cultura è un’industria»: il prodotto artistico e culturale «va inteso come qualcosa da mettere a disposizione per fare crescere il territorio». Altre regioni lo hanno capito: «In tutti i posti è difficile fare il cinema, ma alcune cose interessanti altrove cominciano a muoversi», dalla Puglia fino alla Basilicata.

tatanka-6489La verità è che «dove una cosa funziona, per riflesso funzionano anche le altre», chiarisce. E spiega: «Se in Salento funziona il turismo, anche il resto va bene. Ora – aggiunge – spero che in Calabria la nuova film commission faccia delle cose buone e utili al cinema e al territorio». È un problema di scelte politiche e imprenditoriali, «è un problema di spazi, di luoghi, di opportunità dove poter esprimere e fare crescere le creatività». Se ci fossero gli spazi, insiste, «centinaia di ragazzi avrebbero la possibilità di fare il cinema. Ci dovrebbe essere un supporto concreto, almeno nella diffusione».
Probabilmente è proprio per questa serie di ragioni che la Calabria «è raccontata poco e male – aggiunge il regista – mi pare che sia l’unica regione, insieme al Molise, che non ha nessun tipo di letteratura scritta, visiva o cantata. Forse è dovuto anche al fatto che in Calabria c’è una sorta di esterofilia che non riesce ad apprezzare quello che ha». Ma c’è di più, e ritorna il ruolo della classe dirigente: «Ogni anno ci sono 25mila premi organizzati a beneficio dei calabresi nel mondo o robe di questo tipo, che servono a organizzare serate per politici e vescovi e a nient’altro», attacca. Nessuna programmazione, nessuna idea. «Invece – rimarca – con gli stessi soldi si potrebbero fare cose molto concrete per far crescere professionalità artistiche e culturali». Ecco perché «purtroppo non c’è uno scrittore di riferimento che non sia defunto, non c’è un cinema preciso, non c’è una band». Un esempio? «Peppe Voltarelli ha vinto il premio Tenco come miglior album in dialetto. Chi lo sa in Calabria? chi vuole valorizzare questa esperienza?».

tatanka-9152È anche per questo che Gagliardi ha deciso di girare il suo nuovo film in Campania, a partire da un racconto scritto da Roberto Saviano. Il film si intitola “Tatanka scatenato”, racconta – senza stereotipi – una storia di un riscatto di un gruppo di giovani di Marcianise, in provincia di Caserta. Un gruppo di giovani uniti dal sangue e dal sudore del pugilato, che hanno nel vicecampione olimpico Clemente Russo il loro rappresentante più famoso. «È stata un’esperienza molto forte, interessante – racconta Gagliardi – Un film , girato tra la Campania e Berlino che ha un tono neorealista, girato con molte parti in dialetto, con buona parte degli attori presi dalla strada. È stato interessante conoscere e sviscerare le dinamiche sociali del Sud». L’uscita in sala è prevista per marzo, con 200 copie. Un ottimo numero. «Siamo molto contenti perché sono numeri significativi rispetto a quello che accade in questo momento nel cinema italiano». Una grande opportunità. «Abbiamo fatto una proiezione privata con Roberto Saviano: il film gli è molto piaciuto, spero che ci dia una mano a promuoverlo». L’occasione di fare il salto di qualità, magari in attesa di fare un film in Calabria «perché bisogna parlare di quello che si sa». Nel frattempo, con determinazione, continuare il proprio percorso. Da calabrese che fa cinema: «La cosa bella è che il bagaglio culturale, di ironia, di apertura sono cose che ti porti dietro. Sempre, che puoi esprimerlo nelle tue cose». Dovunque tu sia.

Ulderico Pesce e i nuovi briganti

È l’attore e autore teatrale lucano Ulderico Pesce il quarto protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.

 

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Ha lavorato con Giorgio Albertazzi e Carmelo Bene, Luca Ronconi e Gabriele Lavia. Ne va fiero. Poi ha scelto la sua strada, quella che gli aveva indicato suo nonno che di che di mestiere faceva l’arrotino e che raccontava con un talento naturale le cose del passato. Storie vere, difficili, che lo riempivano. Quando è partito per Roma per studiare, alle pareti della sua stanza nel quartiere San Lorenzo ha appeso la foto di suo nonno. Come monito, forse. Come modello, ispirazione. È per questo che ha scelto di stare sul palcoscenico per raccontare la realtà. Di lavoratori sfruttati, di operai senza diritti, di cittadini che si ammalano. La realtà del nostro Paese, del nostro Mezzogiorno.
Ulderico Pesce è nato e vive in Basilicata. È un uomo di teatro – autore, attore e regista – che, per dirla con il grande critico del Corsera Franco Cordelli, recita come se stesse «seduto a un tavolo con ciascun spettatore». Uno che quando gli parli ti guarda negli occhi, racconta, si infervora, spiega e maledice. E non ha peli sulla lingua, nella vita come negli spettacoli. Così quando gli chiedi di partecipare al ragionamento del Domenicale di Terra sulle nuove creatività e identità meridionali, lui accetta volentieri. E dice subito: «Parlo anche da semplice cittadino». E dice subito: «Il Sud oggi è esattamente come quello di fine Ottocento: nulla è cambiato nel rapporto tra territorio, cittadini e Stato». Il paragone suona forte, ma l’attore lucano aggiunge subito: «Eravamo colonizzati dai Savoia nel 1861 e lo siamo oggi. Allora – sottolinea – lo Stato approfittò delle risorse energetiche, agricole e naturalistiche del nostro Sud lasciando la popolazione e interi pezzi di territorio sprovvisti di Stato, di quell’elemento terzo capace di assicurare giustizia e dignità, equità e diritti ai cittadini. Oggi non è diverso: lo Stato non c’è». Non si ferma qui il ragionamento di Ulderico Pesce. «Ho vissuto tutto questo sulla mia pelle – racconta – sono felice di avere una madre che è stata una bracciante agricola, ma mia madre avrebbe voluto studiare e non ha potuto. Questa è l’impronta di un’ingiustizia che hanno vissuto in tanti nel nostro territorio – insiste – e che la politica, che ha reso legale l’illegalità, non fa nulla per cambiare. Vale per la destra e per la sinistra in egual misura». Torna all’idea dello sfruttamento del Nord nei confronti del Sud, dell’abbandono dello Stato. E fa due esempi («mi piace parlare di cose concrete», dice). Il primo riguarda il Ponte sullo Stretto: «Noi meridionali non ne sentiamo il bisogno, non lo vogliamo, la nostra stessa cultura è contraria – sostiene – eppure il nostro ambiente e territorio vengono sacrificati per regalare un grosso affare a una grande impresa del Nord». E poi la Basilicata: «Bossi parla sempre di federalismo – dice – e allora parliamone con i fatti. Il nostro territorio ospita tre grandi multinazionali: l’Eni in Val d’Agri, dove estrae il 60% del fabbisogno nazionale di petrolio, la Coca Cola nel Volture, dove usa la nostra acqua, e la Fiat a Melfi». Bene, secondo Pesce, sono «tre grandi realtà che colonizzano il territorio e lo deturpano lasciando la fame alla Basilicata». Tanto che ogni anno a causa dell’emigrazione è come se sparisse «un paese di 15mila abitanti». E i lavoratori continuano a restare «senza diritti»: «Alla Fiat – attacca – ancora oggi non c’è il medico dopo le 18, come avviene in tutte le fabbriche d’Europa» e infatti «lo scorso aprile un operaio è morto per un semplice principio di infarto». Un prezzo che la Basilicata paga, senza avere nulla in cambio: «Queste tre grandi aziende le tasse le pagano altrove: parliamo di questo quando parliamo di federalismo fiscale».

TERRA ulderico pesceLa risposta a tutto questo sta nel brigantaggio, dice Ulderico Pesce. «Sono fiero di essere nato in Basilicata, il posto in cui il fenomeno è stato più forte», rivendica. «La risposta sta in una nuova forma di brigantaggio – sottolinea – quello dei movimenti che qui al Sud sono vivi e difendono il territorio e chiedono diritti. Movimenti che devono essere autonomi dalla politica – insiste – ma che devono organizzarsi e darsi una forma per cambiarla, contaminarla», per entrarci insomma con le proprie parole d’ordine. «I movimenti sui territori devono diventare forza politica – rimarca l’attore lucano – senza leaderismi, ma senza perdere altro tempo prezioso: in questo Paese la gente perbene sta all’opposizione e deve potersi esprimere». I riferimenti vanno trovati nella letteratura e nella poesia. Rocco Scotellaro, innanzitutto. «Un poeta contadino – lo ricorda Ulderico Pesce che sul suo lavoro e della poetessa Amelia Rosselli ha anche costruito uno splendido spettacolo “Contadini del Sud” – un sindaco, un occupatore delle terre. Diciamo che è stato un politico con un’impostazione poetica e un poeta con una coscienza politica: un vero punto di riferimento». E poi Corrado Alvaro, «il Pirandello delle novelle dei primi del secolo di Ciaula scopre la luna», il poeta suicida Franco Costabile «che amo molto e che ho sentito citare ai ragazzi del movimento ambientalista di Amantea». Prova a tenere insieme tutto questo mondo Ulderico Pesce con il suo lavoro, nella scrittura e nella scena. Lo spiega in maniera appassionata: «Ho scelto di fare questo teatro per due ragioni: una artistica e una psicologica». La prima «riguarda i miei studi». Un giorno al teatro Ateneo della Sapienza a Roma Ulderico Pesce incontra Anatoli Vassilev che lo porta a Mosca. Si ferma lì più di tre anni a studiare e praticare «un teatro semplice, povero, strutturato sulla verità e sulla necessità delle emozioni», a lavorare sul Metodo Stanislavskij «secondo il quale un attore deve essere sempre vero, credibile. Tutto il contrario della tradizione artificiosa del teatro italiano». Così tra il teatro italiano «e mio nonno che faceva l’arrotino, ho scelto mio nonno e i suoi racconti. Prima li ho portati in giro in Basilicata – racconta – poi ho capito che interessavano anche a Roma o a Milano». Così ha trovato il suo linguaggio Ulderico Pesce. Poi la ragione psicologica: l’ingiustizia di vivere al sud, «rabbia e la voglia di riscatto che mi sentivo dentro». E poco importa se stare al Sud e fare il suo lavoro è più difficile: «Ho fatto le cose per istinto e non per calcolo – dice – So bene che è molto più complicato, che ci sono poche strutture in mano sempre alle stesse persone». Eppure, rimarca, «sono felice di essere radicato al sud, di fare qui i miei laboratori e avere qui il mio archivio». Insomma, «al sud c’è più humus per il mio lavoro, più anima, più materia emotiva per la scrittura – confessa Pesce – e poi qui il mio lavoro ha più senso». Si spiega così: «Al nord non si può salire sugli alberi perché ti prendono per matto. Io qui appena posso ci salgo, e mi sento parte di questo mondo». Eccola l’anima del Sud, «la forma mentale di essere Sud», secondo Ulderico Pesce. E allora «io voglio rendere un po’ più Sud anche il Centro e il Nord».
Articolo pubblicato su Terra, 9 gennaio 2011

BOX

È il novembre del 1878 quando Giovanni Passannante, giovane cuoco della Basilicata, vende la propria giacca per otto soldi per comprare un coltello. Vuole uccidere il Re d’Italia, Umberto I. Non ci riesce, gli procura solo qualche graffio. Viene però condannato a morte, poi graziato e spedito in una cella del carcere dell’isola d’Elba che sta sotto il livello del mare: qui si ammala e inizia persino a mangiare i suoi escrementi. Viene poi mandato a finire i suoi giorni in un manicomio criminale. Muore nel 1910. Gli viene negata la sepoltura e il suo cranio viene esposto nel Museo Criminologico di Roma.
Da allora Passannante finisce nel dimenticatoio, fino a quando Ulderico Pesce non si mette in testa di avviare battersi per dargli una degna sepoltura. Vince: nel 2007 i resti di Giovanni Passannante vengono portati e sepolti a Salvia di Lucania, il suo paese d’origine. Un paese che nel frattempo ha cambiato nome e ancora oggi si chiama “Savoia di Lucania”.
Questa incredibile storia Ulderico Pesce l’ha raccontata in un fortunatissimo spettacolo (che ha girato importanti festival in tutto il mondo) dal titolo “L’innaffiatore del cervello di Passannante: l’anarchivo che cercò di uccidere Umberto I di Savoia”. E oggi è diventata un film, “Passannante”, per la regia di Sergio Colabona, nel quale insieme a Ulderico Pesce recitano il cantante dei Tetes de Bois Andrea Satta, Bebo Storti, Roberto Citran e molti altri artisti. Il film è stato selezionato per il Bari International Film e Tv Festival diretto da Ettore Scola e Felice Laudadio (22 – 29 gennaio) che sarà presentato domani (10 gennaio) alla Casa del cinema di Roma.

 

La tragedia del Ponte

VILLA SAN GIOVANNI – Stava parlando del suo territorio, con l’amore e la passione di sempre. In mattinata era già intervenuto, quando il corteo doveva ancora partire. All’arrivo ha sentito il dovere di riparlare, per rivolgersi ai giovani. Franco Nisticò è morto ieri sul palco della manifestazione No Ponte, a Villa San Giovanni. Un attacco cardiaco. Erano da poco passate le 15. Inutile il tentativo dei compagni di rianimarlo, inutile la richiesta di un’ambulanza: non c’era. Inutile la corsa in ospedale («su un mezzo della polizia non equipaggiato adeguatamente», spiega un medico) a Reggio Calabria. L’attore Ulderico Pesce era a due passi da lui, aveva appena aperto la maratona (subito annullata) degli artisti contro il Ponte. Racconta: «È gravissimo: eravamo circondati dalle forze dell’ordine, c’erano elicotteri, camionette, una motovedetta e non c’era uno schifo di ambulanza – attacca ancora scosso – vogliono spendere 6 miliardi di euro per un’opera in un territorio dove si può morire per un calo di pressione. Ho visto quell’uomo cadere con i miei occhi, l’ho coperto con il mio giubbino blu. Sembrava il “Cristo del Mantegna”: suscitava disperazione e pietà e se ne stava lì a morire senza Stato, leggi e regole». È stato Pesce a placare la rabbia dei manifestanti inferociti per il ritardo dei soccorsi: «I ragazzi se la sono presa con i poliziotti e capisco la loro esasperazione – sottolinea – ma non c’entravano niente, il primo soccorso l’ha fatto proprio un poliziotto».

Franco Nisticò coordinava il comitato di lotta per i problemi del Basso Jonio catanzarese, era stato candidato a sindaco di Badolato, un paese simbolo, divenuto famoso per avere spalancato le porte al popolo kurdo. La sua è una morte assurda, «sulla quale – chiedono i manifestanti ancora increduli – bisogna fare chiarezza: ognuno deve assumersi le sue responsabilità». Una tragedia, che rende ancora più demenziale l’idea del Ponte.
Fino a quel momento era stata «una festa nonostante le difficoltà», secondo Peppe Marra della Rete No Ponte. Un modo per ribadire il No al Ponte e chiedere opere utili, «a partire – gli fa eco Maurizio Marzolla del No Ponte – dalla messa in sicurezza del territorio». Non era scontato, per il maltempo e per una sorta di campagna di criminalizzazione del corteo con tanto di evocazione strumentale dei black bloc. Non è successo nulla, eppure la partecipazione dei villesi è stata scarsa e i commercianti hanno tenuto le saracinesche abbassate. Una festa in un deserto, che neppure la presenza degli ultimi tre sindaci – Cosimo Calabrò, Rocco Cassone e Giancarlo Melito – ha evitato. «È stata una scelta del commissario prefettizio quella di avvisare i cittadini – spiega Melito – forse è stata caricata un po’ troppo». Tant’è.
All’imbocco della discesa che porta al lungomare gli ultimi dubbi s’erano dissolti: il movimento No Ponte c’è. Ci sono associazioni e partiti, studenti e precari della scuola, anche la chiesa valdese. Dissotterra subito l’ascia di guerra il segretario dei Verdi Angelo Bonelli. Prima attacca Di Pietro («se da ministro non si fosse opposto allo scioglimento della Stretto di Messina spa oggi non saremmo qui», dice), poi affonda i colpi contro Altero Matteoli: «L’inizio dei lavori della variante ferroviaria di Cannitello è solo un trucco per dire che non si torna indietro: non è così, faremo una vertenza legale».
Quella che il governo considera «la prima pietra del Ponte» sarà posata il 23 dicembre. Doveva arrivare anche Berlusconi ma lo show, dopo i fatti di Milano, è rinviato. Inizieranno comunque i lavori. Spiega Nuccio Barillà, del direttivo nazionale di Legambiente: «Berlusconi vuole riproporre una pratica che da queste parti è tristemente nota», dice. Il riferimento è al 1975, quando Giulio Andreotti a Gioia Tauro pose la prima pietra di un altro grande inganno: il quinto centro siderurgico. «I calabresi andarono a Roma a restituire quella prima pietra – sottolinea Barillà – Noi faremo lo stesso e chiederemo la restituzione delle risorse sperperate». Ormai, conclude, «è chiaro che l’alternativa non è più tra sì e no al Ponte – sottolinea – ma tra due idee inconciliabili di sviluppo». I cittadini calabresi, spiega il segretario della Cgil reggina Francesco Alì, «hanno bisogno di uscire dall’isolamento: bisogna concludere i lavori dell’A3, rendere sicura la Statale 106 e competitivo l’aeroporto dello Stretto, potenziare il trasporto pubblico locale, sostenere i pendolari dello Stretto». Via via sfilano le associazioni (dai comitati di Giampilieri a quelli contro i veleni a Crotone, dal comitato Natale de Grazia di Amantea al reggino Gruppozero), ci sono i centri sociali e l’onda anomala di Cosenza, i sindacati dei marittimi e l’Arci. La denuncia antimafia è di Magnolia (in piazza con le tute bianche del Ris e la scritta “Stretto di Messina scena del crimine”) e dell’associazione Rita Atria, della “20 luglio” di Palermo e di daSud, di Mario Congiusta, padre di Gianluca, ucciso dalla ‘ndrangheta. Risuona la musica proposta dai Pirati dello Stretto, sfila anche il Popolo viola («il ponte amplifica i problemi economici e sociali a livello locale»), si vedono anche Marco Ferrando e le bandiere di Sinistra e Libertà, gli ex parlamentari e sindaci coraggio Mommo Tripodi e Peppino Lavorato, i Cobas e Sinistra euromediterranea. Giorgio Cremaschi (Fiom Cgil) spiega che «il ponte è solo una fonte di speculazione», mentre il Wwf (c’è anche l’ex senatrice Anna Donati) denuncia con Raniero Maggini il rischio «che, come tra gli anni 60 e 90, il Paese sia devastato da tronconi di grandi opere incompiute». C’è un corposo spezzone della Federazione della sinistra. Avverte il segretario regionale del Prc Nino De Gaetano: «Per opporci al Ponte siamo pronti anche a compiere gesti eclatanti». Sfilano, per la prima volta in via ufficiale, anche le istituzioni locali. C’è la Provincia di Reggio Calabria con l’assessore Michele Tripodi: «Le nostre scelte strategiche non prevedono il Ponte». E aggiunge: «Dividendo i 6 miliardi di euro per 2 milioni di calabresi – sottolinea – avremmo tre milioni di euro per ogni mille abitanti: tutti i problemi dei comuni sarebbero risolti». La Regione Calabria (uscita di recente dalla Stretto di Messina spa e pronta a ricorrere al Tar contro la variante di Cannitello) è ben rappresentata. Spiega Silvio Greco, assessore all’Ambiente: «Trovo amorale fare campagne pubblicitarie sulle spalle dei calabresi e sperperare così i soldi pubblici». Già che si trova, Greco spiega che «finché ci siamo noi» il governo non potrà fare la «centrale a carbone di Saline». Demetrio Naccari, Pd e assessore ai Trasporti, spiega che «questa opera del faraone serve solo a mantenere nominalmente al 40% i fondi Fas impiegati per il Sud. Alla fine scopriremo che si tratta di appena il 10». Commenta Michelangelo Tripodi, Pdci e assessore all’Urbanistica: «Nonostante il tentativo di creare un clima di paura e di isolare la manifestazione – spiega – è stato un successo che ci dà fiducia per continuare la battaglia per un’idea di sviluppo diversa». Che passa anche dai servizi per i cittadini, che possono salvare la vita ai cittadini.

(pubblicato su Il Manifesto)

Artisticamente contro

C’era Peppino Mazzotta a raccontare di un paese della Campania dove non è poi così assurdo che sia nato Sandokan e Dario De Luca “U tingiutu” a portarti dentro il covo dei sequestratori in Aspromonte, Ernesto Orrico a parlare del mugnaio Rocco Gatto e di briganti. C’erano Maria Marino, Stefania Sardo e Alessandra Aulicino a sbatterti in faccia l’ostinato bisogno di vendetta di Peppina a nira verso gli assassini dei suoi due figli e c’era Valerio Strati che portava sul palco un processo di mafia scritto dal giornalista catanese Pippo Fava. C’era Massimo Barilla che raccontava di Salvatore Carnevale, ennesimo sindacalista siciliano ucciso da Cosa Nostra, e Gaetano Tramontana e Domenica Buda che passavano da Shakespeare alla tragedia di Rita Atria. C’erano storie di vita e di morte, di trasformazioni sociali e di diritti negati. C’era Nino Racco a mostrarti la differenza tra il ’68 a Praga e quello della sua Bubalina ed Elena Fazio a farti sentire il dolore della violenza domestica. C’era Rachele Ammendola a svelare la faccia scura della Calabria e c’erano Dario Natale, Maria Teresa Guzzo e Gianluca Vetromilo che ti facevano guardare in faccia la storia dei due netturbini Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte uccisi nel 1991 a Lamezia Terme. E c’erano le incursioni musicali di Peppe Voltarelli, cantante, attore, istrione. Artisti calabresi contro. Tutti insieme sullo stesso palco. Quello di Reggio Calabria della Lunga marcia della memoria dell’associazione daSud per una maratona di teatro e musica antimafia. Non era mai accaduto in Calabria, non così. Alla fine quando anche la balera di fronte ha ceduto, e mentre i suoni del valzer erano ormai solo uno stridulo ricordo, dal palcoscenico di Reggio Calabria si continuava a esercitare la memoria. Artisticamente.