Che farà l’Udc? Cinque certezze e 5 domande

Le elezioni si vincono al centro. E’ attorno a questo mantra che discute in maniera ossessiva il Partito democratico: meglio allearsi con l’Udc e lavorare al Monti bis oppure aprire alla sinistra di Nichi Vendola e, magari, Tonino Di Pietro? Su questo discutono i dirigenti nazionali misurandosi su formule e alchimie che poco o nulla hanno a che fare con il consenso popolare. Sulla rottura di questa discussione sta provando a rafforzare la sua leadership Pier Luigi Bersani, su una forte caratterizzazione di centrosinistra e con il baricentro fondato sul contatto con i cittadini aveva costruito la sua candidatura al Campidoglio Nicola Zingaretti, capace di parlare ai moderati senza però cedere sui principi.

L’IMPROVVISA EMERGENZA LAZIO ha cambiato le carte in tavola. Una volta spostate alcune pedine nella scacchiera, è infatti del tutto naturale che si riaprano discorsi che sembravano ormai archiviati. E questo anche perché a Roma e nel Lazio conta forse più che altrove il peso del mondo cattolico e delle gerarchie vaticane. Così tra Campidoglio e Regione torna centrale la discussione su che cosa farà l’Udc, su dove troveranno la loro collocazione i centristi, i moderati, i cattolici. Uno scenario che avrà naturalmente ripercussioni anche a livello nazionale dove Bersani e Casini continuano a darsele di santa ragione.

IN QUESTE ORE CONVULSE, nelle quali il quadro si complica, almeno cinque cose sono chiare (anche se non tutte hanno lo stesso segno) e possono servire a leggere le prossime mosse dei partiti, dei candidati, degli schieramenti. La prima è che il perimetro dell’alleanza a cui faceva riferimento la candidatura di Nicola Zingaretti a sindaco era formato da quattro partiti: Pd, Sel, Idv e Psi. C’era l’ambizione di aprire a esperienze civiche e ai moderati, c’erano spinte da parte di alcuni democratici all’apertura all’Udc ma il baricentro era chiaro. La seconda è che l’Udc nazionale punta a decidere la sua collocazione un minuto dopo il voto, quello regionale – sulla spinta del vicepresidente uscente della giunta Luciano Ciocchetti – è nel centrodestra, mentre a livello comunale (soprattutto tra quelli che stanno all’opposizione di Alemanno) in molti guardano a sinistra. La terza è che il Messaggero, giornale vicinissimo a Casini, ha scelto (per ora) di sostenere Gianni Alemanno e di contrastare Nicola Zingaretti. La quarta è che le gerarchie cattoliche sono state decisive nella fine dell’esperienza Polverini. La quinta è che la candidatura (probabile) del cattolicissimo Andrea Riccardi scuoterà gli equilibri della politica romana.

IN QUESTO QUADRO CONFUSO e suscettibile di repentini cambiamenti (come dimostrano le ultime ore), per capire il destino dell’Udc bisogna rispondere essenzialmente a cinque domande. La prima: la chiesa cattolica decidendo la fine del governo di Renata Polverini che prospettiva politica ha dato all’impegno dei cattolici in politica nel Lazio e a Roma. La seconda: Nicola Zingaretti nella costruzione dell’alleanza regionale che lo sosterrà (la sua candidatura dovrebbe passare dalle primarie di coalizione) ha intenzione di ripartire dallo stesso perimetro politico che lo voleva sindaco? La terza: quando il segretario regionale del Pd Enrico Gasbarra (da sempre favorevole a costruire una coalizione con i casiniani) dice durante la direzione regionale “Vi chiedo mandato per proporre alla coalizione di opposizione di poter mettere a disposizione” la risorsa Zingaretti “che puo’ guidare il nuovo percorso di cambiamento” si riferisce all’opposizione di Renata Polverini (e quindi non all’Udc) o all’opposizione di Gianni Alemanno (e quindi anche all’Udc)? La quarta: quanto la definizione della candidatura di Andrea Riccardi passa dalle gerarchie cattoliche e quanto dal governo Monti? La quinta: le primarie saranno ancora lo strumento per scegliere il candidato a sindaco del centrosinistra?

E’ SCIOGLIENDO QUESTI NODI (per nulla semplici) che si capirà dove andranno l’Udc e i pezzi della chiesa che non guardano direttamente al Pd. È sciogliendo questi nodi che il centrosinistra costruirà il suo futuro (e il rapporto con la sua gente), dal Comune alla Regione. Fino a Palazzo Chigi.

Zingaretti alla Regione e Riccardi al Campidoglio. Il risiko nel Pd e il rischio rottura a sinistra al Comune

Il presidente della Provincia viene spinto verso la poltrona della Polverini lasciando la sua corsa per il Campidoglio al ministro della Cooperazione. Un quadro complesso che diventa probabile se alla Regione si voterà a dicembre. Cambiano gli equilibri, il centrosinistra si sposta verso l’ala moderata e a sinistra si va verso la rottura che porterebbe alla candidatura a sindaco dell’assessore provinciale Massimiliano Smeriglio. Oggi la direzione regionale del Pd e sabato l’assemblea nazionale con Bersani. Dentro questo arco di tempo si gioca una partita che riguarda i romani e i cittadini del Lazio. Ma che ha anche importanti risvolti nazionali. E Alemanno: “Non mi dimetto, hanno paura di me”

A Nicola Zingaretti viene chiesto il sacrificio di mollare l’ormai avviatissima corsa al Campidoglio per candidarsi a presidente della Regione, al ministro Andrea Riccardi che non ne vuole sapere di fare il governatore viene proposta l’opzione sindaco. Su questo schema si lavora dentro un pezzo significativo del Pd per comporre il quadro in vista delle elezioni comunali e regionali (tenendo l’occhio puntato sugli assetti del governo nazionale).

ZINGARETTI – A poche ore da una delicatissima direzione regionale del democratici, la situazione è molto complessa (c’è da decidere anche su eventuali ricandidature dei consiglieri regionali uscenti) e soltanto Nicola Zingaretti potrebbe sciogliere alcuni dei moltissimi nodi. La candidatura del presidente della Provincia, infatti, è il nome che potrebbe ridimensionare le ambizioni dei tantissimi che in queste ore ambiscono al posto di Renata Polverini e soprattutto è il nome che potrebbe trovare una quadra per portare il centrosinistra alla vittoria. Un’ipotesi “che si può valutare” soltanto se la data del voto è quella di dicembre. Una data che lo stesso Zingaretti ha invocato negli ultimi giorni (quando la sua candidatura non era ancora in campo, per la verità) di fronte allo sfascio del centrodestra. Se si vota presto, si ragiona in queste ore a Palazzo Valentini, e a “Nicola chiedono, cosa che non hanno ancora fatto, di risolvere un’emergenza” una sua candidatura potrebbe essere presa in considerazione, certamente “sarà valutata seriamente”.

LA DATA DELLE ELEZIONI – Naturalmente la data delle elezioni non è nella disponibilità del presidente della Provincia e neanche del Partito democratico che – ZIngaretti o no – continua a spingere per “fare presto”. La scelta sta invece nelle mani di Renata Polverini e del ministro dell’Interno Cancellieri. Sarà su questo binario che verrà presa la decisione. E c’è da giurare che la governatrice premerà per una data che sia la più congeniale possibile per il suo futuro politico (che sarà nazionale ma non si capisce bene ancora dentro quale quadro e dentro quali equilibri). E la Cancellieri nella scelta finale dovrà tenere conto sia delle esigenze di bilancio (l’election day consente un consistente risparmio economico) sia delle esigenze politiche dei vari schieramenti in campo.

IL COMUNE – In questo quadro entra in gioco anche il ministro della Cooperazione Andrea Riccardi. Da giorni il centrosinistra cerca di coinvolgerlo per candidarlo alla poltrona di governatore del Lazio. Lui in tutte le salse ha fatto sapere di non essere interessato: pare non abbia nessuna intenzione di occuparsi della patata bollente sanità. Ma nel Pd e nel mondo della chiesa che guarda al centrosinistra non hanno perso le speranza e allora è partita l’offensiva che potrebbe portare il leader della comunità di Sant’Egidio verso una candidatura al Campidoglio. Una ipotesi che Riccardi – con atteggiamento da politico navigato – invece non ha mai smentito categoricamente. E una ipotesi che si rende possibile se, e solo se, Nicola Zingaretti metterà da parte il lavoro compiuto negli ultimi quattro anni (da sempre praticamente lavora per diventare sindaco) e si tufferà a capofitto verso la Regione.

UNA SCELTA CHE CAMBIA GLI EQUILIBRI – La coppia Zingaretti alla Regione e Riccardi al Comune non è senza conseguenze politiche, naturalmente. Riccardi – all’interno di un quadro complesso che guarda al mondo della chiesa cattolica e al governo di Mario Monti – è un nome che rimette in discussione gli equilibri. A tutti i livelli. Cosa farà l’Udc, seppure reduce dall’esperienza nel governo Polverini? E se dovesse sostenere l’ipotesi di centrosinistra (ma più spostata al centro rispetto a Zingaretti) al Campidoglio sarebbe poi più complicato per Casini spiegare per quale ragione non costruisce un asse di ferro anche sulla Regione e soprattutto a livello nazionale (nonostante il botta e risposta di ieri con Bersani). In pratica lo schema su cui lavora sin dal primo giorno Massimo D’Alema, un pezzo dei veltroniani, e tutta l’area di Fioroni ed Enrico Letta. In queste ore, se non dovesse accettare Riccardi, anche per il Comune si fanno i nomi di Roberto Morassut e Giovanna Melandri (entrambi veltroniani).

LA ROTTURA A SINISTRA – Un quadro che cambia le relazioni anche a sinistra. La candidatura di Nicola Zingaretti al Comune è servita in questi anni a costruire un quadro di centrosinistra chiaro (e in fondo anomalo e in discontinuità rispetto al quadro nazionale sempre più nebuloso) e appena una settimana fa i segretari romani di Pd, Sel, Idv e Psi avevano annunciato in pompa magna la definizione del quadro dell’alleanza. Non solo: ancora stamattina i dirigenti romani del centrosinistra lavoravano alla definizione delle primarie convocate per il 26 gennaio. Se davvero Zingaretti andrà alla Regione diventa probabile una rottura con l’ala sinistra della coalizione sul Campidoglio. “Non staremo mai in un alleanza con il ministro Riccardi candidato sindaco. Questo significherebbe la riproposizione del ‘montismo’ a Roma, una prospettiva politica che Sel non può accettare. IN questo caso, dunque, presenteremo un candidato nostro”, dice il dirigente di Sel Gianluca Peciola. E subito prende quota la candidatura a sindaco dell’assessore provinciale al Lavoro Massimiliano Smeriglio, uomo forte di Sel, che è tra i maggiori sostenitori dell’ipotesi Zingaretti. E che potrebbe raccogliere con sé larga parte della coalizione di partiti e soggetti sociali che stavano dentro la cosiddetta “coalizione Acea” che s’era battuta (vincendo) contro la privatizzazione dell’acqua in città.

L’INCOGNITA ALEMANNO – In questo quadro complesso, un ruolo centrale lo gioca – seppure indirettamente – il sindaco Gianni Alemanno. Che ha grandi difficoltà ad approvare il bilancio e che vorrebbe l’election day tra Comune e Regione. Così in queste ore prende quota (e viene smentita senza troppa convinzione) l’ipotesi che Alemanno scelga di dimettersi e di favorire le elezioni anticipate anche al Comune. Una valutazione tutta politica e di coalizione (quale?). Da cui però dipende in parte anche il destino del centrosinistra. “Dopo il mercoledì delle ceneri stanno inventando il mercoledì delle mie dimissioni – dice il sindaco Alemanno – ribadisco che non è vero, e che i rappresentanti del centrosinistra e tutte le persone che cercano di smontare la mia candidatura hanno solo paura. La mia impressione sincera è che quasi si teme che io arrivi fino in fondo e quindi si fa di tutto per scongiurare la mia candidatura”. “In caso di election day anticipato, le emergenze diverrebbero due: regione e comune. A quel punto, Zingaretti potrebbe continuare la sua corsa al Campidoglio e si riaprirebbe la partita Regione. Le prossime ore sono decisive. “Entro venerdì” si dovrebbe capire il destino di Zingaretti e del centrosinistra. Anche perché sabato c’è l’assemblea nazionale del Pd. E tutte le tessere del mosaico dovranno trovare posto. O per il centrosinistra, che finora aveva ipotecato la doppietta di vittorie, saranno guai.

 

Elezioni, quote di genere e di generazione

Siamo nel Paese che discute della candidatura a premier del 76enne Silvio Berlusconi e del possibile governo bis di un signore, Mario Monti, che a marzo compirà 70 anni, in cui per i giornali è una notizia (sic!) la decisione di non ricandidarsi dell’ultraottantenne presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Siamo nel Paese in cui Giorgio La Malfa è deputato dal 1972 e in cui la trasmissione tv più nuova la conduce Pippo Baudo (classe 1936). Siamo nel Paese in cui un dibattito viene percepito come credibile solo se lo lanciano personaggi come Eugenio Scalfari (classe 1924) e il festival della politica come serio solo se parla Emanuele Macaluso (89 anni). Siamo nel Paese in cui Assunta Almirante (87 anni) è sui giornali tutte le settimane e Giorgio Albertazzi, a un passo dal compiere 90 anni, partecipa (vincendoli) ai bandi pubblici per la gestione di festival teatrali.

Storie di personaggi che (quasi tutti) hanno dato molto. E che adesso, se davvero hanno a cuore il destino dell’Italia, devono mettersi a disposizione del cambiamento. Davvero, e cioè mettendosi da parte. Un fatto che presupporrebbe lungimiranza e intelligenza di una classe dirigente che, complessivamente, è delegittimata dai fatti. Un fatto che presupporrebbe nello stesso tempo grinta e capacità di protagonismo da parte dei più giovani.

Dopo la crisi deprimente che ha travolto la giunta e il consiglio regionale del Lazio, dopo l’assalto rozzo di Beppe Grillo e furbissimo di Matteo Renzi, è partita una discussione – ancora parziale, soprattutto ipocrita – sulla necessità di cambiare il Paese rinnovando la classe dirigente. Le contestuali elezioni per il Campidoglio, per la Regione e per il Parlamento offrono una straordinaria occasione. Che, come cittadini, non possiamo sprecare.

Per questo i giovani romani e laziali devono ritrovare la speranza, lanciare la sfida e imporsi sulla scena pubblica. Contemporaneamente, però, i partiti si impegnino a fare la propria parte. Praticando la discontinuità, non enunciandola. Intervenendo in maniera decisa sulla questione di genere e su quella generazionale.

Ecco allora due proposte, semplici semplici, rivolte ai partiti (anche per le Politiche), ai candidati a sindaco – in primo luogo Gianni Alemanno e Nicola Zingaretti – e agli aspiranti governatori (che speriamo davvero siano scelti con le primarie). Due impegni che potrebbero essere assunti già in campagna elettorale. Nella compilazione delle liste si tenga conto di una quota di genere (per il 50%) e di una quota di generazione (ci sia una metà di candidati under 40). Gli stessi criteri siano adottati per la scelta degli assessori. Non si tratta naturalmente di avere una particolare passione per le quote (anzi!), né di cedere al banale ed estetico giovanilismo, quanto piuttosto di raccogliere il meglio delle sfide che vengono dalla società, dalle persone in carne e ossa (magari non quelle cresciute con il mito di Corneliu Codreanu). Piccoli gesti, per grandi cambiamenti. O la politica resterà travolta da se stessa. Per sempre.

“Provincia, la sede unica è strategica” Ecco il Piano della giunta Zingaretti

Antonio-Rosati_fullTra pochi giorni scade il bando per scegliere il soggetto che dovrà vendere 12 immobili dell’ente e acquistare la torre dell’Eur che ospiterà tutti gli uffici della Provincia. Parla l’assessore al Bilancio Antonio Rosati. Valutazioni, costi, tempi e i rischi dell’operazione finita nel mirino di giornali, costruttori e centrodestra. “Risparmieremo 5 milioni di euro all’anno”. Sull’inchiesta della Corte dei conti: “Siamo sereni”

“Sì, l’operazione è stata decisa dalla giunta Gasbarra”. Inizia così questa conversazione nella stanza dell’assessore provinciale al Bilancio Antonio Rosati, l’uomo che per conto della giunta di Nicola Zingaretti ha in mano la partita delicata dell’acquisto della nuova sede unica della Provincia. Una vicenda che è stata al centro di violente polemiche giornalistiche e politiche e su cui sta indagando la Corte dei conti. Così a poco più di dieci giorni dalla scadenza (alle 12 dell’1 ottobre) del bando per l’individuazione della Società (Sgr) che dovrà gestire la vendita del patrimonio della Provincia e l’acquisto della nuova sede dell’Eur, vale la pena fare il punto. Per capire di che tipo di operazione si tratta e come la Provincia di Roma risponde alle critiche che le sono piovute addosso. “L’operazione è stata decisa dalla giunta Gasbarra”, ripete. Ma aggiunge: “Ma io c’ero già, ero assessore al Bilancio anche allora”, come a dire che non c’è nessuna intenzione né di rinnegare né di scaricare eventuali responsabilità sul passato. E precisa però: “Era il 2005 ed era un’era geologica diversa”, oggi cioè le condizioni economiche e di finanza pubblica sono diverse. Eppure la Provincia ha deciso di andare avanti. Rosati spiega perché. E parte da lontano.

SENZA PROGRAMMAZIONE – “Nel corso degli anni non c’era stata nessuna programmazione a proposito della collocazione degli uffici – sottolinea – frutto del fatto che le deleghe assegnate alla Provincia sono cresciute poco per volta”. Il risultato è stato che “ci troviamo sedi, in affitto o di proprietà, sparse per tutta la città. Abbiamo pensato allora che sarebbe stato meglio avere un’unica grande sede prevalente”. Che significa che restano soltanto Palazzo Valentini per la presidenza e il consiglio provinciale e Palazzo Incontro.

LA SCELTA DEL LUOGO – Così la Provincia, “anticipando un processo di spending reviuw ha fatto la verifica e il riordino del patrimonio”, e ha fatto un bando europeo “per cercare una zona dove realizzare 48/50mila metri quadri di uffici con parcheggi in una zona relativamente centrale”. L’advisor di questa operazione era Risorse (oggi Risorse per Roma) “di cui eravamo soci: la legge ci permetteva di fare un affidamento in house”. La scelta è caduta su un complesso di proprietà di Parsitalia (che poi ha “trasferito” l’operazione al fondo immobiliare Upside, gestito da Bnp Paribas) che si trova all’Eur nella zona di Castellaccio. Certo non al centro. “Eppure non è affatto una zona abbandonata – si difende Rosati – ma lo stesso luogo del ministero della Sanità, del palazzo della Mobilità di Atac, di molte importanti aziende: una zona di città consolidata”. Un problema, quello del luogo, che ha visto anche le proteste dei sindacati: “L’intera procedura è stata spiegata e condivisa – precisa – 1800-1900 lavoratori miglioreranno le loro condizioni”. Quanto ai trasporti “naturalmente ci saranno le navette dalla stazione della metro”.

DALL’AFFITTO ALL’ACQUISTO – La prima ipotesi prevedeva di “prendere il palazzo in affitto a circa 17/18 milioni di euro per 18 anni”. Il contratto prevede però anche l’opzione dell’acquisto. La cifra per gli uffici, racconta Rosati, è “di circa 4500 euro più iva al metro quadro in una zona da 8000 euro per abitazioni di lusso”. Alla fine il costo sarà di circa 220 milioni di euro più iva (circa 263 milioni). Una somma che non convince affatto i critici dell’operazione: “In quel momento – replica – la cifra era assolutamente vantaggiosa, oggi possiamo dire che siamo in linea con il mercato. Non voglio rispondere sul fatto che il valore è sbagliato: tutti hanno capito che si tratta di un’argomentazione pretestuosa”. Ma non è questo l’importante per Rosati, quanto “i vantaggi che introduciamo dal punto di vista energetico e dello smaltimento dei rifiuti”. E non solo: “La struttura ha una mensa, un asilo nido, 950 posti auto (alcuni dei quali possono essere anche messi a frutto) e un auditorium modulare da 50 a 600 posti”. In più, sottolinea l’assessore, “voglio precisare che stiamo parlando di luoghi assolutamente idonei per il lavoro”. Tutto questo ha anche un vantaggio economico: “A regime, nel rapporto tra manutenzione ed energia, abbiamo calcolato un risparmio di 5 milioni di euro all’anno. E non si possono quantificare il valore del tempo risparmiato per le riunioni e il migliore coordinamento del lavoro”.

L’ERA ZINGARETTI – Riprendiamo il racconto delle procedure. “Intanto la torre veniva costruita” e si arriva alla giunta Zingaretti che conferma, nell’ottobre del 2010, l’intera strategia che – nel frattempo – prevedeva l’acquisto della torre. E’ quindi il momento di elaborare un piano economico-finanziario “che aveva tre gambe: una parte dei soldi l’avremmo trovata con un mutuo e quindi con una rateizzazione a tassi molto bassi” visto che la Provincia è ritenuta “un’Amministrazione virtuosa che ha abbattuto il debito di 300 milioni e ha avuto il massimo” come rating da parte di Standard & Poor’s. La seconda gamba, invece, “era rappresentata dall’avanzo di amministrazione, la terza era data dalla vendita di una parte di patrimonio”. E’ in quest’ottica che la Provincia ha razionalizzato i suoi immobili che, come sostiene la perizia di Abaco-Gabetti, “hanno un valore di circa 245 milioni di euro e che sono in condizione di essere venduti”. E si tratta di un patrimonio “di grande pregio” come l’immobile che ospita la caserma dei carabinieri di piazza del Popolo, i palazzi di via dei Prefetti, di viale Trastevere, di via delle Tre Cannelle o quello dentro Villa Pamphilj”.

IL CAMBIO DI STRATEGIA – La giunta Zingaretti però ha dovuto cambiare ben presto i suoi piani. Come spiega lo stesso assessore al Bilancio: “La legge di stabilità ci ha cambiato le carte in tavola: non potevamo più fare mutui, non potevamo più usare l’avanzo di bilancio”. E non si poteva certo trascurare una questione che diventava sempre di maggiore attualità: ci sarebbe stato ancora l’ente Provincia? Un dibattito che ha poi portato all’abolizione delle province e alla nascita della città metropolitana. “In questa situazione ci è venuta in soccorso la Spending review – spiega Rosati – che chiarisce come fare un uso più forte del patrimonio”. Quanto invece all’abolizione della Provincia “la risposta è molto semplice: tutti i patrimoni si trasferiscono all’area metropolitana e quindi la torre dell’Eur sarà la sede dell’area metropolitana”. Forse, cambiate le carte in tavola, si poteva anche evitare di fare l’acquisto. Rosati non è d’accordo: “C’era un contratto che diceva di comprare. E c’era un possibile risarcimento danni”. Rispetto alla quantificazione del danno eventuale, Rosati si limita a dire che “in questi casi c’è il codice civile e si può arrivare persino all’intera somma”: Poi aggiunge che “su questo tema abbiamo anche sollecitato la Corte dei conti”. I giudici contabili “con estrema prudenza ci hanno detto: attenzione, c’è un contratto e va onorato”. Forse, aggiunge Rosati mostrando orgoglioso la sentenza, “sono stati convinti anche dal fatto che la sezione regionale della Corte dei conti, chiuso il monitoraggio sui nostri conti, ha affermato che siamo un’amministrazione all’avanguardia”. C’era anche una componente di natura personale in questa valutazione: “Sì, il rischio di una causa era anche per i singoli amministratori. A questo punto mi faccia ringraziare i colleghi per la fiducia”. E precisa: “Insieme ci siamo detti che stavamo facendo un’opera di modernizzazione politica e abbiamo deciso di andare avanti”.

L’INDIVIDUAZIONE DELLA SGR – Di qui la decisione di individuare la Società di gestione del risparmio (Sgr) per “prendersi cura” del patrimonio immobiliare dell’ente e per acquistare la nuova sede. E di qui, probabilmente, l’aumento degli attacchi all’indirizzo della giunta Zingaretti: “Critiche legittime, certo. Ma provenienti da un grande giornale legato al gruppo Caltagirone – sottolinea – Su questo voglio solo sottolinare che in Italia è possibile che coincidano le proprietà dei giornali con le grandi potenze economiche”. Il riferimento, naturalmente, è allo storico quotidiano della città, il Messaggero, “che vedo – sottolinea con malizia – che in questi giorni sta elogiando il tentativo del Comune di organizzare anche lui una Sgr”. Spiega: “Abbiamo fatto un Bando europeo per la Sgr che dovrà gestire il fondo immobiliare”, dentro il quale staranno i 12 immobili destinati alla vendita, che è “al 100% della Provincia e che avrà il compito di trovare sul mercato i circa 250 milioni di euro necessari per comprare la torre”. Il tutto dovrà avvenire in tempi “congrui”, cioè entro tre anni. Aggiunge Rosati: “Forti del patrimonio immobiliare – sottolinea – si rivolgeranno al sistema bancario per trovare i soldi per l’acquisto” della torre. L’indebitamento con le banche si affronterà “con l’affitto pagato al fondo” per gli immobili.

I RISCHI – Resta da capire una doppia variabile: la prima è se non si presenterà nessuno alla scadenza del bando, la seconda è se i tre anni non saranno sufficienti alla Sgr per vendere i 12 immobili e quindi non si raggiungerà una cifra sufficiente all’acquisto. Rosati si dimostra fiducioso: “Ci sono molti fondi sovrani (cinesi e arabi soprattutto) interessati a un certo tipo di mattone. E, visto che si tratta di immobili unici, pensiamo persino di potere avere un piccolo delta per fare investimenti”. E precisa: “Abbiamo prorogato la scadenza del bando perché ci sono arrivate richieste di chiarimenti. I quesiti sono pubblici”. Un interesse che rende Rosati tranquillo: “Speriamo arrivino almeno due offerte”. Se invece non si dovesse presentare nessuno “ci rivolgeremmo alla Cassa depositi e prestiti, che ci ha dato in questa procedura preziosi aiuti, o faremmo la vendita al massimo realizzo”, dice Rosati. Quello che è sicuro, sin d’ora, è che la base del bando “è di 235 milioni, al di sotto dei quali non si può andare”. Si valuterà se è più conveniente vendere l’intero pacchetto o i singoli “pezzi”. E se proprio si dovesse chiudere a quella cifra, si aprirà una trattativa con la proprietà della torre e “sono sicuro che 235 milioni in mano un accordo si troverà”. Insomma, nessuna operazione è immune dal rischio. “Certo i rischi sono sempre – ammette – ma che dovremmo dire al governo Monti che ha sbagliato una previsione sul Pil che ci è costata 30 miliardi?”.

“UNA SCELTA GIUSTA” – Su tutta la vicenda è in corso un’indagine della Corte dei conti. Un dato che Rosati considera normale (“vista la campagna di stampa che è stata fatta”) e per nulla preoccupante: “Abbiamo fornito tutti gli elementi del caso. Diciamo che sarà un ulteriore elemento di garanzia ed efficienza”. Una storia lunga e contrastata, utilizzata nella polemica politica contro Nicola Zingaretti e la sua giunta, un’operazione complessa e rischiosa. Che merita un primo bilancio. Rifare oggi, alle condizioni di oggi, la stessa scelta? L’assessore ci pensa. Poi dice: “Prenderei anche oggi questa decisione, farei l’intera operazione confortato dalla Spending review. Se non l’avessimo avuta, certo avremmo dovuto aspettare. Ma ci è stata offerta una strada concreta per mettere il patrimonio a frutto e avviare un processo di cambiamento vero per la pubblica amministrazione”. E non solo: “Lasciamo in dote una torre straordinaria, che ancora vale un po’ di più del valore di mercato”. Con un rimpianto: “Il palazzo di Tre Cannelle non avrei voluto venderlo. E infatti nella prima ipotesi”, quella precedente al patto di stabilità, “non era in vendita”. L’intervista finisce. E l’operazione della Provincia progettata da Rosati – in attesa del vaglio della Corte dei conti – passerà il vero esame: la scadenza del bando. Rosati però riprende: “Vorrei aggiungere una cosa per me importante”. Prego. “Dopo venti anni di Berlusconismo, anche il centrosinistra deve farsi carico di uno scatto di orgoglio ulteriore e di comportamenti inattaccabili. E la nostra è stata una scelta trasparente, rigorosa e lineare. Voglio dirlo ai cittadini prima ancora che ai nostri elettori: non è vero che è tutto sporco, si può amministrare bene”. Che poi è anche l’auspicio di tutti i cittadini.

Elezioni, che succede nel Pd?

La domenica è di quelle particolari e la politica che conta, una volta tanto, è lontana da Roma: Pier Luigi Bersani parla a Reggio Emilia e delinea il prossimo governo di centrosinistra che supera l’agenda Monti, Pierferdinando Casini interviene a Chianciano e dice che “dopo Monti c’è Monti”. Posizioni antitetiche, e apparentemente inconciliabili. Il premier è invece a Cernobbio e (non creduto da molti) continua a sostenere che è la primavera 2013 l’orizzonte del governo tecnico. In questo quadro, e con l’attenzione di tutti rivolta fuori dalla Capitale, nel pomeriggio una dichiarazione scuote la politica romana. Una domanda messa nero su bianco su un comunicato stampa esplicita quello che in tanti nel centrosinistra, e nel mondo dei movimenti che al centrosinistra guardano, dicono sottovoce. A porla è il consigliere provincile di Sel, Gianluca Peciola, sostenitore della prima ora di Nicola Zingaretti come candidato a sindaco di Roma. “Che succede nel Pd?”, chiede Peciola. E si spiega: “Le dichiarazioni di Gasbarra e di Marroni aprono scenari inquietanti e sembrano segnalare singolari e innaturali aperture all’Udc. Non vorremmo che il profilo civico e l’indipendenza dalle segreterie del partito da parte del presidente Zingaretti avessero creato scompensi nel sistema decisionale delle nomenclature del Pd”. Che tradotto, significa: l’apparato del Pd sta abbandonando Zingaretti? E per rendere più chiaro il suo pensiero evoca la clamorosa scontitta di Rutelli contro Alemanno.

Il riferimento è all’appello lanciato dal segretario regionale del Pd Enrico Gasbarra a “uscire dagli schemi precostituiti” nella costruzione dell’alleanza da contrapporre a Gianni Alemanno (o a chi sarà il candidato del centrodestra) alle prossime comunali. Parole che trovano il consenso di Umberto Marroni, che negli ultimi giorni s’è attirato più di qualche veleno e sospetto per una cena con il sindaco in un ristorante del centro scoperta dal Corriere della Sera. Il capogruppo Pd va oltre e traccia con precisione lo schieramento: le “forze di centro e di sinistra che oggi a Roma sono all’opposizione”.

Punti di vista certo legittimi, ma che curiosamente cadono proprio nel giorno in cui Casini e Bersani sembrano imboccare strade diverse. Punti di vista, quelli di Gasbarra e Marroni, che altrettanto curiosamente non citano mai la candidatura a sindaco di Nicola Zingaretti. E non dire, a volte, vale più di pronunciare mille parole.

Di qui la reazione pubblica di Peciola e un vorticoso giro di telefonate nel centrosinistra: che sta succedendo? E qualcosa forse accade se un politico esperto come il vicepresidente Udc della Regione Ciocchetti non si accontenta dell’apertura democratica, ma addirittura chiede l’azzeramento delle candidature in campo. Magari per proporre proprio un candidato centrista.

E se nel centrosinistra c’è una certa agitazione, non traspare nessuna reazione particolare dagli uomini più vicini al presidente della Provincia. Nessuno si stupisce delle frizioni interne al Pd, ma soprattutto si guarda con attenzione a Reggio Emilia: il fatto che Bersani abbia spinto sulle primarie nazionali non fa altro che legittimare ancora di più le primarie per la corsa a sindaco di Roma. Proprio il percorso auspicato da Zingaretti e su cui il presidente della Provincia lavora da molti mesi, sicuro della sua sintonia con i romani, nonostante le candidature di Patrizia Prestipino e di Sandro Medici, nonostante gli attacchi che provengono da pezzi dell’Italia dei valori e la freddezza di certi ambienti dentro Sinistra e libertà.

Quale che sia lo stato d’animo di Zingaretti, resta il fatto che le dichiarazioni di Marroni e Gasbarra un peso ce l’hanno e che l’aria negli ambienti politici si fa pesante. Pertanto forse non è un caso se in serata entrambi decidano di mandare alla stampa un nuovo comunicato. Gasbarra rilancia il suo progetto di alleanza oltre il centrosinistra e auspica la nascita di una “piazza democratica” che deve avviare “al più presto un grande percorso di ascolto per coinvolgere, in un programma di governo, tutte le forze politiche moderate deluse dal Pdl e alternative alla destra”. Marroni spiega che “è necessaria un’ampia alleanza di forze sociali e politiche di fronte al fallimento della destra al governo, forze che hanno collaborato all’opposizione e i tanti delusi della gestione fallimentare Alemanno”. Nessuna vera novità politica rispetto a quanto dichiarato poche ore prima. Questa volta però, in entrambi i comunicati, si fa riferimento alla candidatura di Nicola Zingaretti. “Un punto fermo”, per entrambi. Ed entrambi, curiosamente, pur facendo riferimento a percorsi di confronto democratico, non usano mai la parola primarie. Si vedrà.

E se su Zingaretti le tensioni – almeno ufficialmente – sembrano scemate nel giro di qualche ora, resta un nodo da chiarire: il rapporto con l’Udc e i confini dell’alleanza che dovrà sfidare Alemanno. Le posizioni dentro il Pd – come si evince leggendo le dichiarazioni di Gasbarra e Miccoli – partono da due punti di vista differenti, per certi versi contrapposti. La partita, anche su questo, è tutta da giocare. Sempre che i grillini non facciano brutti scherzi o che la discussione non venga rinviata al ballottaggio.