Giorgio Bocca: i miei viaggi in Calabria sulle tracce di Valarioti

Racconta Giorgio Bocca che la prima cosa che diceva appena arrivato in un nuovo giornale era «partiamo», facciamo un viaggio al sud. «Era per la mia curiosità», dice. Aveva capito «che lì c’era una miniera di notizie». La curiosità, appunto. La cosa che più di ogni altra fa grande un giornalista.

Di reportage al Sud Giorgio Bocca è un vero esperto. «Ne avrò fatti venti di viaggi al Sud», dice. Tutti i giornali («a parte la Gazzetta del Popolo», precisa) lo hanno «mandato giù, sin dagli anni Cinquanta: all’Europeo uno dei primi servizi era su un giovanotto che aveva rapito una ragazza per sposarla. Veniva fuori – sottolinea – questo strano mondo in cui vigevano regole di un gioco barbaro». Da allora ha sempre continuato a fare il suo lavoro di giornalista «ponendomi la stessa domanda: perché quando in Italia si fa un passo avanti, qui se ne fanno due indietro?». Non ha una risposta, neppure oggi. È sincero invece il suo “stupore” dovuto al fatto che «nel corso degli anni non c’è mai stata una vera differenza». Nessun miglioramento vero, «forse per alcune cose è sempre peggio». Un atto d’accusa pesante.

Tra le tante inchieste sul Sud, una viene spesso ricordata. Per la capacità di guardare nelle cose, perché è figlia di un viaggio lungo e pieno di storie incredibili, per l’analisi spietata e cruda dei fatti. Perché è finita in un fortunatissimo libro del 1992 “L’inferno – Profondo Sud, male oscuro”.

Scrive Bocca: «Visto dall’alto l’inferno degli italiani è bellissimo». E dice già molte cose, nel profondo. Nel capitolo dedicato alla Calabria (“Aspra Calabria”) racconta della Locride e dei sequestri di persona (e gli viene in mente il Vietnam), di Corrado Alvaro e San Luca, di medici legali e sbirri, di ‘ndranghetisti e avvocati. Racconta del suo incontro con il senatore poeta Emilio Argiroffi e delle imprese del ras della Dc di Taurianova Ciccio Mazzetta, della cosca Piromalli e del sequestro di Paul Getty jr, del giudice Cordova e dell’omicidio dell’ex presidente delle Ferrovie dello Stato Vico Ligato («era un ladro»), delle leggende e dei segni della Magna Grecia, dello storico Gaetano Cingari («era molto bravo, ricordo una sera a cena a casa sua che si vedeva il mare», dice) e di Giacomo Mancini («un politico che mi piaceva perché era un uomo coraggioso e deciso, nella politica contava», osserva). Racconta anche di Rosarno, della morte di Peppe Valarioti e della battaglia di Peppino Lavorato.
Dell’inferno del Sud, della Calabria, Bocca ascolta i suoni e respira gli odori, attraversa le viscere. E non può non chiedersi ancora oggi, a distanza di quasi vent’anni, «per quale peccato originale, per quali orgogli, per quale maledizione della storia, per quale fatalità geografica noi italiani del nord e del sud non riusciamo a fare di questo Paese un paese unito?».

Di questo siamo andati a discutere con Giorgio Bocca quando abbiamo deciso di scrivere questo libro. La sua casa di Milano sta in centro, a due passi dal Cenacolo di Leonardo. Ci riceve nel suo studio, una stanza vissuta in maniera creativa, quasi fosse quella di un adolescente. Sta dietro la sua scrivania – enorme, piena di giornali – e risponde con calma e passione alle domande. Fa spesso riferimento al passato, alla memoria, alla storia. E il fatto che siamo in una stanza che ospita in maniera ordinata per argomento migliaia e migliaia di libri – neanche fosse una biblioteca pubblica – rende tutto più credibile e avvolgente. È una leggenda del giornalismo, ma accetta di parlare e di mettersi in discussione per un piccolo libro. Si schermisce subito, non si considera la persona più adatta a parlare del Sud. Spiega: «Sono un po’ prevenuto: mio nonno era un sergente savoiardo che dava la caccia ai briganti», ride fragorosamente. «Povero diavolo – aggiunge – non capiva cosa facevano». Poi il discorso di fa subito serio. Bocca riflette ad alta voce, cerca una soluzione. Parla del Sud, ma si riferisce all’Italia di oggi. Che non gli piace, come sa bene chi legge la sua rubrica settimanale sull’Espresso. Che considera in pericolo, che quasi gli fa paura.

Si chiede spesso, ammette, «il perché nel meridione d’Italia ci sono mali così radicati», perché dalle nostre parti ci sono problemi che non si trovano in zone simili alle nostre: «non li trovi né in Grecia, né in Spagna». Analizza: «Ogni volta che uno fa un’indagine trova i colpevoli: di solito si cerca una risposta politica, si parla del capitalismo, per esempio, magari della destra. Poi però a una riflessione un po’ più profonda emerge chiaramente che la risposta è insufficiente: non si riesce mai a trovare un riparo definitivo, la vera peculiarità dei guai del meridione». La stampa non affronta i temi fino in fondo perché «è difficile e pericoloso affrontarle. I corrispondenti locali sono tutti condizionati e hanno paura che gli sparino. La letteratura s’è occupata tantissimo del Sud, la questione meridionale è stata studiata molto, ma nessuno si è occupato di capire la ragione vera» di questo arretramento. In questa indeterminatezza, Giorgio Bocca ha una certezza: «La radice è storica. Ma non riesco a capire quale è, perché ci sia questa perseveranza nel male», perché in Italia «c’è il Sud peggiore del Mediterraneo». È una domanda alla quale neppure «i meridionalisti danno una risposta».

Va a ritroso nei secoli, esclude che le colpe possano essere addebitate al periodo della Magna Grecia – «il periodo aureo», lo definisce. «Ho visitato il museo di Reggio in uno dei rari periodi in cui era aperto. Certe cose erano davvero bellissime», aggiunge –  ha qualche dubbio sulla dominazione spagnola e rileva che «bisognerebbe studiare il periodo di occupazione degli arabi, che è stato importantissimo e secondo me ha avuto un effetto negativo».
Racconta di essere stato recentemente sulla costiera amalfitana e a Napoli: «L’immondizia lasciata per strada… è soltanto la camorra che vuole usare questa cosa per seppellire i rifiuti tossici o è anche la gente che se ne frega? È un mistero per me il perché questa città debba essere così autolesionista».

Giorgio Bocca ne parla, ma si capisce che in fondo non l’accetta. Merito della sua passione civile, colpa del fatto di essere stato un protagonista della Resistenza. «Tutto nasce dal fatto che avendo fatto la guerra partigiana mi ero illuso che la Resistenza e  l’antifascismo fossero capaci di rigenerare l’Italia, di farla diventare un paese civile». La guerra partigiana, racconta, «è stato un periodo meraviglioso. Si aveva l’impressione che finalmente gli italiani fossero cambiati. In un periodo di grandi difficoltà – insiste – trovavi la gente che rischiava la vita per aiutarti. Arrivavi a casa dei contadini e ti ospitavano anche se c’era il cartello tedesco che li minacciava di bruciare loro la casa. La Resistenza è stata possibile  – chiarisce – perché lo Stato sociale permetteva che ci fosse. Da noi le fabbriche, gli industriali, tutti collaboravano con la Resistenza. Ci davano soldi, divise, scarpe. Anche la Chiesa: i vescovi erano filofascisti,  ma i parroci di campagna erano tutti partigiani». E invece oggi gli italiani «sono tornati peggio di prima. Mi sono accorto di una triste verità facendo il mio mestiere: nonostante il sacrificio di operai, sindacalisti e contadini, che sono stati molto coraggiosi, in Italia prevale sempre il peggio». E insiste: «Capisco che i giovani oggi facciano dei giornali coraggiosi o trasmissioni tv di denuncia, ma uno come me è ormai rassegnato al peggio. Forse bisogna rendersi conto che gli uomini sono fatti così, che sono brutte bestie». Tutte le volte «che lo dico me ne pento. La rassegnazione è sbagliata, mi dico che cambierà. Ma dopo cinquant’anni è sempre la stessa storia». Insiste, rincara la dose: «Non c’è niente da fare». Solo il caso, «che nella storia gioca un ruolo importantissimo, ci tirerà fuori da questa situazione. Casualmente come siamo entrati in questo vortice negativo per caso ne usciremo in qualche modo».

È lo stato d’animo di un uomo che ha combattuto per la libertà e che oggi avverte che l’Italia sta tornando indietro. Bocca non vuole sottrarsi alle analisi invocando un facile pessimismo, piuttosto partendo dal Sud e dai suoi problemi vuole parlare di come sta oggi l’Italia. Pronuncia una frase che, pur nella sua semplicità, fa male come poche: «È triste venire al sud. È costante l’umiliazione degli onesti». Un pugno nello stomaco. Parla degli intellettuali meridionale che vivono una condizione «molto difficile», ma osserva che in fondo a causa di Berlusconi «stiamo sperimentando che anche al nord viviamo tutti in una società autoritaria e arretrata». Berlusconi è riuscito a «mettere in condizioni umilianti le persone. In questo senso le differenze tra nord e sud sono diminuite. La borghesia del nord bada solo ai soldi e ai furti: la mancanza di etica è comune a tutto il Paese». Ha giudizi tranchant sulla politica: Casini? «Fa ridere, è l’erede democristiano peggiore». La Lega? «È una conferma che gli italiani sono antidemocratici e arretrati». Aggiunge lui che per primo scoprì in Italia il fenomeno di Bossi e delle camicie verdi: «È un periodo in cui il razzismo è forte. Siamo al fascismo puro. Quando ho scelto il titolo della mia rubrica sull’Espresso, l’Antitaliano – racconta – avevo capito che gli italiani avevano una voglia matta di tornare al fascismo. Purtroppo non imparano mai». Insiste, fino allo sfinimento: «La libertà l’abbiamo consegnata a Berlusconi. Anche la Resistenza, anche il Risorgimento». Si infervora: «Berlusconi è peggio del fascismo. Il fascismo è stato un movimento della piccola e media borghesia contro l’alta borghesia liberale. Mussolini era una persona intelligente. Qua siamo al qualunquismo più schifoso. C’è stata una marcia indietro». Spiega:  «Penso che arriveremo presto anche allo squadrismo e alla minacce fisiche. Adesso stanno facendo campagna per abolire le voci contrarie in televisione. Un giorno o l’altro verranno a casa mia a cercare di picchiarmi. Come ha fatto il fascismo. Prendi un po’ di persone influenti e le ammazzi e cala il silenzio. Fino a qualche tempo fa – osserva Bocca come un fiume in piena – se mi avessero chiesto se era possibile il ritorno al fascismo avrei detto no. Adesso comincio ad avere paura». Ammette di aver paura anche per il suo giornale, la Repubblica: «Anche i liberali sono passati al fascismo, se De Benedetti viene messo alle corde che succede?», si domanda. Quel che è certo, secondo Bocca, è che già adesso ci sono «enormi condizionamenti della democrazia».

Un ragionamento che lo fa tornare indietro negli anni, quando «facevamo del buon giornalismo». Un atto di accusa, forse, alla politica e alla società di oggi. «Abbiamo fatto un buon giornalismo perché avevamo alle spalle il movimento operaio e i comunisti. Il Pci che è stato ad alcuni considerato, e a ragione, stalinista. Però quando arrivavo in una città, andavo alla sede del Pci e mi raccontavano cosa succedeva nell’economia. E se venivo attaccato dai fascisti, la sinistra mi difendeva. Il sindacato contadino e operaio funzionava bene ma è stato fatto fuori. Adesso c’è la sensazione di essere completamente indifeso. Quello che diceva il generale Dalla Chiesa: quando sei isolato ti possono anche far fuori. Quando hai l’opinione pubblica alla spalle ti protegge, altrimenti.. E se eliminano alcuni dirigenti della sinistra, l’unanimismo diventa un regime». Di qui la necessità di guardare indietro, di ripensare al passato: «Tutto quello che dico è memoria».

Parla anche di mafia, fuori dagli schemi: «Con il tempo mi sono fatto la convinzione che le mafie sono parte costituente della politica italiana, perché credo che ci sia la necessità che esistano. Organizzano in senso negativo questa anarchia italiana, il consenso, la voglia di anarchia, la disciplinano». Parole pesanti. E ancora: «Il mio governo è mafioso, non puoi chiedere al governo di fare una politica antimafia se è d’accordo con la mafia. Michele Greco – sottolinea – aveva una tenuta di caccia in cui andava a sparare fagiani anche il colonnello dei carabinieri. La moglie di Totò Riina ha partorito tre volte nell’ospedale di Palermo e il primario sapeva benissimo dove stava. Le mafie fanno parte costituente dello Stato italiano. Se non si capisce questo…».
Se parli con Giorgio Bocca approfitti e ti fai raccontare qualcosa della sua carriera di giornalista: «La mia carriera di giornalista? Se non c’è il caso che ti aiuta… Ero in un giornale monarchico, facevo una vita da cani e avevo un direttore di estrema destra». Poi il caso. «A dirigere l’Europeo a Milano arriva un certo Michele Serra: mi manda a chiamare e la mia vita cambia». E si ritrova a lavorare con Cederna, Fallaci, Trevisani: «Era pieno di gente in gamba». Il giornale a cui è più legato «è stato Il Giorno perché lì avevo alle spalle, un periodo molto privilegiato, l’Eni e quindi una disponibilità di soldi enorme: facevamo un giornale bellissimo, siamo stati i primi a fare i colori, le sezioni per i bambini e la moda». Poi è stato il tempo di Repubblica «che è stato un giornale con un grande direttore come Scalfari: uno che sapeva dirigere bene l’orchestra». Non è stato direttore Bocca. «No», dice. E svela un piccolo e divertente retroscena: «Un giorno durante la Resistenza comandai un’azione: dopo una lunghissima marcia per arrivare su un presidio tedesco, facemmo un’imboscata, poi tornai nella valle. Credevo che avrei avuto l’approvazione dei miei comandanti e invece la sera a cena li sentii parlare – io ero nella stanza accanto –  e dicevano: quello stronzo di Bocca ha sbagliato tutto!». Ride di gusto: «Allora ho detto basta, ho capito che comandare non fa per me».

Avrebbe «voglia di fare un altro viaggio al Sud, ma alla mia età viaggiare diventa impossibile, nella vecchiaia ci sono limiti fisici con cui fare i conti». Spiega: «In quel viaggio in Calabria sull’Aspromonte ho camminato per delle ore e poi… avevo più coraggio. Quando si è giovani si crede di essere immortali. Oggi dei servizi così non sarei in grado di farli». Poi la lezione: «Il giornalismo? Guardare e raccontare. Se uno non è un cretino, la verità la vede subito. Non è difficile capire quello che succede. Si capisce benissimo dove comanda la mafia, dove i politici rubano». Di questo ci sarebbe bisogno.

(intervista realizzata nell’autunno 2009 e pubblicata su “Il caso Valarioti, giugno 2010)

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