Porta di Roma, se il centro commerciale è la nuova piazza della capitale (Pagina99)

Essere Viktor Navorski si può. Certo, magari è impossibile diventare cittadino della Cracozia. È facile però vivere in un nonluogo e – proprio come il personaggio interpretato da Tom Hanks in “The Terminal” –  dopo uno smarrimento iniziale, trovare una dimensione, sentirsi persino appagato. Può succedere per esempio a Porta di Roma, la più grande galleria commerciale italiana, nata 10 anni fa nel punto in cui l’autostrada che viene da nord taglia il Grande raccordo anulare. Una gigantesca astronave da 150mila metri quadri nel quartiere Bufalotta con 250 negozi su due livelli, Ikea e Leroy Merlin. Un polo che ogni anno attrae 18 milioni di visitatori per lo shopping, una quantità impressionante di eventi o una passeggiata per stare in compagnia.

 Arrivano in tanti a Porta di Roma. Eppure non è facile: non c’è traccia della metro e avventurarsi con i bus – Google maps lo conferma – può significare perdersi. L’unica opzione è l’auto: prendere il Gra – lo svincolo sbocca “dentro” il centro – o attraversare il terzo municipio (oltre 200mila abitanti). Passare davanti ai grigi palazzoni di via di Val Melaina, perlustrare via delle Vigne Nuove. Scoprire piazzale Ennio Flaiano, con il “Flaiano centro acquisti”, la gloriosa galleria commerciale “rovinata” proprio dall’avvento di Porta di Roma, il centro sportivo Delle Vittorie e il degradato parcheggio, un tempo salotto di “Cinema Fuori”, la rassegna “adottata” da Ken Loach.

Percorrere infine via Giuseppe De Santis, strada di confine tra il vecchio quartiere malconcio e quello nuovo, con i palazzi eleganti e costosi. Un cambio di paesaggio repentino, che conduce dritto dentro Porta di Roma. La maestosa Galleria (la gestione immobiliare frutta a Klepierre 36 milioni l’anno) è la rappresentazione plastica di un sogno (tradito?) che viene da lontano. Addirittura dagli Anni 60, quando per quell’area si progetta (ma non si realizza) un polo logistico per le merci. Cambia lo scenario negli Anni 90: i proprietari dei terreni – i costruttori Toti e Parnasi – chiedono un cambio di destinazione d’uso delle aree. Un programma in linea con le idee dell’allora sindaco Francesco Rutelli. E con il progetto delle Centralità del successore Walter Veltroni: 18 “città nella città”, con il decentramento di servizi, uffici e funzioni. Bufalotta doveva essere una di queste: su un’area da 330 ettari, sarebbe nato un quartiere per 10mila persone, con aree verdi, strutture ricettive, commerciali e un centro direzionale. Le cose però vanno a rilento e presto la Centralità si riduce a un agglomerato di case e un centro commerciale. È il frutto avvelenato di un’ubriacatura politica (complici i cosiddetti “palazzinari”) che, senza un vera pianificazione, a cavallo tra gli Anni 90 e 2000 favorisce la nascita di oltre 40 centri commerciali, considerati (anche) strumenti per cambiare il volto delle periferie.

“Il nuovo polo – annuncia Veltroni inaugurando Porta di Roma nel luglio 2007 – rappresenta una grande ricchezza per il territorio. Soprattutto per 2000 giovani che qui lavoreranno”. A quell’epoca gli shopping center sembrano il futuro. E ancora oggi, nonostante i venti di crisi che soffiano dagli Usa e alcune chiusure in Italia, il settore resta solido con un fatturato (al netto d’iva) di 51 miliardi, un peso del 3,2% sul Pil e due miliardi di visitatori.

 Non paiono numeri a caso, arrivando un sabato mattina. Il parcheggio è già affollato e, a fatica, si trova un buco in quel gigantesco dedalo da 7000 posti. La galleria commerciale – luci sparate, insegne colorate, marmi lucidati – è come una città appena sveglia: facce assonnate si mescolano al nervosismo di chi va già “a mille”. Qualcuno osserva il cartello con l’elenco dei negozi. Ci rinuncia subito, si tuffa nella folla per la prima “vasca”. I corridoi sono già pieni, i negozi quasi tutti vuoti. C’è fila soltanto al bar e inizia a riempirsi il supermercato Auchan. Un po’ a sorpresa, c’è gente anche al cinema (14 sale), aperto da mattina a notte. All’uscita del primo spettacolo una bella coppia di nonni, per mano due bimbi. Lui ha visto “Silence”, lei “Oceania” con i nipoti. “Veniamo spesso: è pratico per il parcheggio e ci sono gli sconti”, dicono.

“La mattina vengono soprattutto anziani e disoccupati di zona, nel weekend anche i bambini”, racconta Luca, 32 anni, che ha rinunciato a un tempo indeterminato da Auchan (dove attaccava alle 4,30 del mattino) per un determinato al cinema (dove spesso stacca alle 3,30). Avrebbe voluto fare il grafico, ma fare la maschera in sala gli piace: “Questo non è solo un posto per il dopo shopping – spiega –  è anche e soprattutto il cinema del quartiere”. E dei lavoratori “che vengono in tanti”. Sì, perché la loro esistenza a volte rischia di esaurirsi lì dentro. Come spiega Marta, 29 anni, gli ultimi 7 passati a Porta di Roma, e la vita incredibilmente scandita da un contratto a tempo determinato da 20 ore a settimana (e 600 euro al mese, più straordinari). “Noi del cinema siamo fortunati: pagati meglio e con contratti migliori dei colleghi del supermercato o dei fast food: lì ci sono anche voucher e contratti con le agenzie interinali”.

Con un entusiasmo inusuale Marta rivela la sua giornata tipo: “Esco di casa alle 14 e arrivo alle 15, un’ora prima dell’orario di ingresso, per portare il caffè ai colleghi. Facciamo la pausa sigaretta per raccontarci la giornata”. Il problema è che “va sempre nello stesso modo”. Ma tu lo accetti: “Non farlo, significa perdere il lavoro: se non ci sei tu, ci sarà un altro”. Tanto vale cercare il bello di questa vita. “I colleghi, con la loro straordinaria umanità, sono la parte migliore”, ma la conseguenza è che “da qui non esci mai”, sentenzia. E diventi parte di una grande, eterogenea – e circoscritta – comunità.

Scoccate le 13, migliaia di romani si sono ormai riversati dentro Porta di Roma e i corridoi da spaziosi diventano improvvisamente angusti. I ristoranti sono presi d’assalto. Ce n’è per tutti i gusti: il Mc Donald’s, naturalmente. Ma anche la trattoria di pesce e la pizzeria, la bisteccheria e il self service, la piadineria e il bar che fa panini ma prepara anche il sushi, il locale arabo e il bistrot che tiene appesi in bella mostra decine di prosciutti. All’ora di pranzo c’è la fila dovunque, ma in realtà i locali sono pieni a tutte le ore: si mangia sempre, come se si smarrisse la dimensione del tempo, della fame.

E della fatica. Complici i saldi, infatti, frotte di persone pronte a tutto invadono i negozi a caccia di un buon affare. Anna – sulla quarantina, le mani piene di buste – racconta soddisfatta: “Siamo venuti da Tivoli, comprare qui conviene”. Insieme a lei il marito – sulla faccia una smorfia di noia – e due bambini che, felici, mangiano un gelato. Di fianco, una famiglia di tre persone: “Ne approfittiamo per comprare il cappotto alla bambina”. Non l’hanno ancora trovato e prendono fiato prima di rituffarsi nella mischia. Passa una coppia di trentenni che ha “svaligiato” un negozio di abbigliamento.

“Gli sconti sono solo sulle cose dell’anno scorso”, accusa un 50enne, forse per giustificare di essere lì senza acquistare. “Vengo spesso a fare due passi”, aggiunge. Non è l’unico: in migliaia passeggiano senza mai varcare la soglia di un negozio. “Fuori fa freddo”, dice un’energica signora uscendo da un bar. “Meglio qui che per strada”, le fa eco un distinto signore sulla sessantina, dando di gomito a un amico: sono due che ti aspetteresti di trovare fuori da un cantiere a curiosare sui lavori. Ci sono persone d’ogni tipo, di ogni età. Alcune comprano, altre no. Sono però tutte accomunate dalla voglia di starci e da un particolare: nessuno toglie il cappotto, nonostante il caldo. È la strana democrazia del centro commerciale.

Nella zona dellle poltrone iperlussuose c’è il pienone: un uomo in giacca e cravatta sfoglia un volantino, un giovane padre prepara la pappa per la sua bambina, due ragazzi – sembra incredibile – mangiano un panino portato da casa, una badante straniera – accompagna un’anziana in sedia a rotelle – prende fiato. C’è anche un gruppo di ragazzini della zona: “Stanno tutti qui, dove dovemo anna’?”. E poi “guarda quello che c’è?”, indicano – imbarazzati e compiaciuti – due belle coetanee che sfrecciano senza degnarli di uno sguardo.

C’è un fiume che scorre per ore lungo i corridoi. E c’è chi lo osserva e immagina storie. “Li conosco tutti, uno per uno”, sottolinea Angela, che lavora per un operatore telefonico. “Potrei raccontare le loro vite”, ride. Scherza, ma non troppo. D’altra parte è come in un paese: dopo un po’, riconosci le facce, impari le abitudini di ognuno.

Chi ha a che fare con i telefoni poi ha un osservatorio privilegiato: gli smartphone sono l’anima del nostro tempo. Da Mediaworld – pieno come un uovo – si vendono smartphone come caramelle. Le compagnie telefoniche sono dovunque – hanno sia i negozi sia i gazebo, ad ogni passo qualcuno ti offre una nuova promozione – e dovunque c’è ressa. In tutti i posti, tranne uno. Saltano agli occhi i due giovani promoter, seduti fianco a fianco: chiacchierano e, complici, non si preoccupano dei contratti. “Certo, abbiamo un fisso – rivelano – ma lo stipendio vero si fa a percentuale”. Non è menefreghismo, insomma. È che a volte i soldi non sono tutto.

“È il modo per non restare schiacciati da questo posto, farlo diventare un po’ tuo – riprende Marta – È la tua piazza: sai dove andare per il caffè, dove è più buona la pizza, dove c’è il barista simpatico, dove incontrare gli amici”. E utilizzi l’ufficio postale e, se ne hai bisogno, il centro medico della Croce rossa, la lavanderia. Non per tutti è così. Ci tiene a dirlo il commesso di un negozio di oggettistica: “Meno ci sto, meglio sto”. Gli danno man forte i colleghi. Ciascuno ha il suo modo di stare a Porta di Roma.

Fuori c’è ancora un filo di luce. I bambini pattinano sul ghiaccio sulla pista allestita per Natale. Di fronte, un centinaio di gradini conducono a una terrazza sterminata e grigia: dovevano nascere 4 campi da tennis e 2 da calcetto, la palestra e la piscina. C’è solo una sala slot. Nascosti tra i bocchettoni dell’aria condizionata e le canne fumarie, due adolescenti cercano un po’ di intimità. Nessuno si gode la vista: le montagne innevate in lontananza e le luci del call center Almaviva, che ha appena mandato a casa 1600 lavoratori, e il nuovo enorme tempio dei mormoni in costruzione. Tutto intorno è un paesaggio di palazzi e gru, segno che i lavori sono in corso. Ma nel quartiere sorto a cavallo di viale Carmelo Bene – per anni, un dormitorio – cominciano a prendere vita negozi, servizi, studi professionali. Non basta, secondo i cittadini. Che chiedono ai costruttori di “Porta di Roma” la valorizzazione del Parco delle Sabine (un ettaro e mezzo di verde), il parco archeologico, l’illuminazione e le infrastrutture di interconnessione con la città. Era nei patti, sostengono.

Verso sera, la Galleria commerciale è ancora piena. Qualcuno si ferma per cena, gruppi di genitori siedono stremati sulle panchine mentre i bambini ancora saltellano. Tantissime persone con i carrelli della spesa scendono ai parcheggi. Dalle scale mobili spunta qualche ritardatario. È il momento del conto alla rovescia prima della chiusura: fa uno strano effetto. Così, dopo una giornata a resistere alla tentazione di acquistare, entri nel negozio ad angolo corteggiato per ore e compri un paio di scarpe. “Ci sono gli sconti”, ti giustifichi.

È tardi. I vigilanti fanno defluire gli ultimi clienti e le saracinesche sono ormai abbassate. Dietro un’immensa vetrata, i ragazzi della Apple lucidano gli schermi di telefoni e Ipad presi a ditate da nerd e curiosi. Scherzano e discutono: un ragazzo abbraccia una collega. Forse si sta scusando, lei si irrigidisce. C’è un silenzio. Era inimmaginabile appena un attimo prima. Continui a camminare, le prime voci le senti nei pressi del cinema. C’è il pienone: ultimo atto “aperto” al pubblico di un luogo che non dorme mai (c’è sempre qualcuno a lavoro, anche nel cuore della notte).

“Porta di Roma è una città che si autoalimenta, ha le sue leggi e le sue storie – dice ancora Marta – Qui nascono storie, amicizie e amori”. D’altra parte, “noi viviamo qui. Anche il 25 dicembre e il 1 gennaio ci siamo: facciamo il pranzo di Natale insieme. Tutti gli anni, il 26 dicembre organizziamo una tombolata”. Come nelle tradizioni familiari. “Certo, siamo diventati la nostra famiglia”.

“È come stare sul ponte di una nave sempre pronta a partire”, riflette fumando una sigaretta sul terrazzo, sullo sfondo il rumore dell’aria condizionata. Quando sei con gli altri, “non importa se sono realizzabili i sogni, ti sembra di incalzarli”. Marta s’è laureata e vuole fare la consulente del lavoro, “la mia amica desidera un attico a Manhattan. Chi ce la farà?”, ride. Poi però ti accorgi che tutta quella vita è un trucco e “la nave non parte mai”. Un sentimento che sta segnando nel profondo una generazione. Alla fine “ti guardi intorno, ti scambi un sorriso. E ti accontenti”. Già.

Passata la mezzanotte, al parcheggio sono rimaste poche auto. Tra queste, anche quella del signor E., un pensionato sulla settantina. “Durante il giorno gira nella Galleria, la sera viene al cinema”, un po’ per svago, un po’ per ripararsi dal freddo. Da quando ha divorziato vive in un angolo di Porta di Roma e dorme in macchina. Forse E. non si sente su una nave pronta a partire come i più giovani. Piuttosto s’immagine su un vascello appena rientrato da un lungo viaggio. Di sicuro, come Viktor Navorski, ha trovato il suo posto in un nonluogo. E, per il momento, chissà, gli va bene così.

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Da Tor Bella Monaca a Finocchio, la rabbia nelle borgate di Roma (Pagina99)

15“Sì, qualche volta sì”. Quando gli domandi se gli capita di pensare che s’è messo in un bel guaio, lui sospira, si lascia andare a una risata amara e ammette che sì, ci pensa. Altroché se ci pensa.

Roberto Romanella, vigile del fuoco di 52 anni, da quattro mesi è presidente del Sesto municipio di Roma, un territorio monstre, 113 km quadrati di periferia per 260mila abitanti. Come una media città italiana.

Il municipio più difficile e più povero (con un reddito medio di appena 17mila euro: gli altri superano i 20mila, con punte oltre i 40), il più disagiato (alcuni quartieri sono persino senza l’acqua corrente): quello di Tor Bella Monaca e della droga, dell’università di Tor Vergata e del (mancato) villaggio olimpico di Roma 2024, del film rivelazione “Lo chiamavano Jeeg Robot” e del campo rom (Salone) più grande d’Europa.

Il municipio dei topi che “giocano” al parco con i bambini. Le immagini hanno fatto il giro del mondo: i ragazzini ne hanno contati – e ripresi con il cellulare – 25 in cinque minuti.

Lo scandalo è planetario – in questi giorni a Tor Bella Monaca gira una tv giapponese – la sindaca Virginia Raggi si precipita sul posto e ordina le pulizie straordinarie. Tutto inutile, o quasi: la situazione torna presto a livelli di emergenza. Così i cittadini, ogni giorno e in tanti, bussano alla porta del presidente. Chiedono più servizi, ricevono come risposta la promessa di un impegno, quasi mai una soluzione.

“I problemi sono enormi, le risorse insufficienti, i tempi burocratici lunghi. E noi non abbiamo poteri”, afferma preoccupato Romanella. “Ci sto perdendo il sonno: ogni notte mi sveglio all’improvviso e penso alle cose da fare”, confessa. Inutile provare a spiegare che “spesso non dipende da noi”: i cittadini pretendono i fatti. D’altra parte la politica di oggi è così, anche per responsabilità di chi sull’antipolitica ha costruito il suo consenso.

Tanto consenso. E tante aspettative. Roberto Romanella è il più votato tra i 12 (su 14) presidenti di municipio eletti dal Movimento 5 Stelle alle amministrative: ha sfiorato il 73%, lasciato il Pd fuori dal ballottaggio e azzerato la sinistra, succedendo al potente Marco Scipioni (Pd), sfiorato dalle inchieste e sfiduciato dal suo partito.

“Qui s’è alzato un grido di dolore”, racconta. Così oggi il suo municipio è l’avanposto della rivoluzione (tutt’altro che iniziata) grillina nella Capitale. Romanella lo sa: “Sentiamo forte il carico, governare è difficile ma ci vogliamo provare”. E promette: “Un po’ alla volta, cambieremo le cose. Ai miei assessori dico sempre: niente parole, facciamo le cose con le mani”. Tra mille difficoltà, “in questi giorni sono partite le prime manutenzioni a strade, scuole e giardini”. La politica dei piccoli passi, favorita da un’opposizione silente e dalle polemiche che da mesi avvolgono il Campidoglio.

“Il M5S ha finalmente capito la differenza tra fare i comitati e governare – commenta Federica Graziani, direttrice del giornale del territorio “La Fiera dell’Est” – la giunta è evanescente, ci sono pochi consigli municipali, le commissioni non producono. Mancano progettualità, indirizzo politico e capacità di decidere: elementi essenziali in questo territorio così particolare”.

È un grande, irregolare e contraddittorio mosaico quello che emerge osservando dall’alto questo pezzo di Roma. Vale la pena attraversarlo, scoprirne alcune tessere. Seguendo il tracciato della Metro C, nuova e preziosa spina dorsale del municipio, un lungo serpente nato per unire l’estrema periferia est con il centro.

PANTANO. La prima tessera è al capolinea, alla stazione Pantano – wc e scale mobile fuori servizio – al km 20 di via Casilina. Lì intorno, due grandi parcheggi quasi pieni: segno che, dopo mesi di “diffidenza”, in tanti adesso usano la linea C. All’uscita, pochi negozi e un benzinaio, un panificio noto in tutta la zona, una vaga aria di tristezza e la tentazione di risalire sulla metro e tornare a casa. Finché, dietro l’angolo, s’intravede un pezzo dell’antico acquedotto romano, vero prodigio architettonico. Nessuno lo direbbe, ma siamo in una delle principali zone archeologiche della Capitale.

“Sogno – rivela il presidente del municipio – di valorizzare il sito dell’antica città di Gabii”. Un’area semisconosciuta che “potrebbe stare nei percorsi turistici di chi va a Tivoli o ai Castelli”. Proprio volgendo lo sguardo verso i Castelli, diventa precisa la percezione di stare in un posto pieno di risorse. “Scalando” la collina, Roma – il più grande comune agricolo d’Europa – si trasforma infatti in un enorme vigneto pregiato, quello del vino Frascati, che già qualche millennio fa piaceva a Catone il censore, che 50 anni fa ha conquistato la denominazione Doc e oggi sta su migliaia di tavole italiane.

FINOCCHIO. Alla fermata Finocchio lo scenario cambia. Qui, in via Rocca Cencia, importante strada commerciale, Roma si gioca una delle partite più importanti: quella sui rifiuti. Sembrano preannunciarlo gli enormi cumili di immondizia che invadono le strade. Come via Sant’Alessio, dove scarti alimentari e divani, materiali edili ed elettrodomestici accompagnano l’asfalto per chilometri. Come via Camigliatello Silano, dove i rifiuti bloccano la carreggiata e addirittura impediscono il transito. “Siamo fuori controllo”, scuote la testa il cliente di un bar pieno di affollate slot. Tutto a pochi metri dall’impianto di Ama, la municipalizzata dei rifiuti. “A breve ripartirà”, annuncia la sindaca. Ma la vera questione – economica oltre che ecologica – riguarda l’impianto di proprietà, manco a dirlo, di Manlio Cerroni, dominus della monnezza romana. Lo scontro sull’utilizzo del tritovagliatore, finito nel mirino dei magistrati, ha portato alle dimissioni dell’ex capo di Ama Daniele Fortini, in polemica con l’assessore all’Ambiente Paola Muraro. In una fase di grande instabilità politica, il futuro degli impianti di Rocca Cencia resta incerto. Di sicuro c’è invece un continuo viavai di camion e un cattivo odore sempre più intenso che esaspera i cittadini.

BOLOGNETTA. La terza tessera del mosaico, a 400 metri dalla stazione Bolognetta, viene da lontanto, dal 2001, quando un’area di 13mila metri quadri viene sequestrata al cassiere della Banda della Magliana, Enrico Nicoletti. Aveva costruito un palazzo di sei piani, voleva farci un albergo. Non c’è riuscito. Lì oggi c’è un parco pubblico, con piante, marmi pregiati e il primo murale antimafia di Roma. C’è la Collina della Pace, attraversata ogni giorno da centinaia di persone. Non era scontato. La battaglia – con infiniti stop&go – è stata dura. Il passo decisivo, lo scorso aprile con l’inaugurazione dei due casali. In uno hanno aperto una biblioteca (una delle 4 del territorio) con 30mila volumi, alcuni dei quali donati dall’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Nel più piccolo doveva nascere un centro culturale polivalente, c’è invece un centro anziani. L’Associazione Collina della Pace denuncia il tradimento del progetto che, spiega Andrea Colafranceschi, di Libera, “doveva stimolare creatività e partecipazione”. Non è andata così, non ancora.

GROTTE CELONI. La stazione di Grotte Celoni separa la gigantesca Tor Bella Monaca e il piccolo villaggio Breda. Tor Bella Monaca con i suoi 30mila abitanti, le torri a 15 piani e i palazzoni di edilizia popolare (nel municipio, soprattutto tra Tor Bella Monaca e Ponte di Nona, c’è il 60% dell’edilizia popolare romana) è la dimostrazione del fallimento delle politiche urbanistiche che hanno ridotto la borgata in luogo di disagio, povertà e criminalità.

Il centro del quartiere è viale dell’Archeologia dove c’è il più grande mercato della droga cittadino, che ricorda quello delle vele di Scampia. Qui lavorano molti gruppi criminali, anche le mafie tradizionali. Fanno affari milionari e assicurano un welfare parallelo alle famiglie: 500 euro al mese se custodisci la roba, “200 a sera” se la spacci, “da 50 a 80” per le vedette. “Alcuni prendono stipendi da mille euro”, rivela un operatore sociale. Per un omicidio ne porti a casa 10mila. Ma Tor Bella Monaca è anche la più grande stanza del buco a cielo aperto. Nella pineta ai piedi di via dell’Archeologia, presidia il territorio il camper della fondazione “Villa Maraini”, che si occupa di riduzione del danno. Racconta un operatore: “Ogni giorno distribuiamo 300 siringhe”. A giovanissimi e adulti, uomini e donne, ricchi e poveri. La metà consuma eroina, gli altri cocaina (che costa sempre meno). Alcuni si bucano in macchina, altri seduti sul prato, dove gli aghi ormai sono più dei fili d’erba. Uno strazio.

Al villaggio Breda è tutto diverso: nato al servizio di una vecchia fabbrica, oggi è un quartiere ordinato e pulito, con case basse e cortili curati, la farmacia e la chiesa, il bar e la piazza. La dimensione di un paesino accogliente, tanto che viene voglia di fermarsi per un caffè e due chiacchiere. A poche centinaia di metri, lo stacco visivo è ancora più importante. C’è il consorzio Torre Gaia, il gigantesco residence della borghesia con villette e giardini che non sfigurerebbe nella ricca Roma Nord.

A Torre Angela, tipica periferia italiana, con auto in coda e capannoni commerciali, sembra essersi nascosta via delle Amazzoni. Al numero 34, una scoperta straniante: la chiesa apostolica, un movimento di cristiani protestanti, che raccoglie ogni domenica centinaia di cittadini africani, soprattutto nigeriani. La chiesa è uno spoglio garage con teli colorati alle pareti. Anche l’enorme croce sull’altare è realizzata con raso giallo. All’interno una rock band suona le canzoni di preghiera a un volume insopportabile davanti a un centinaio di fedeli – uomini e donne stanno divisi – che indossano abiti tradizionali con colori sgarcianti. Si canta e balla con energia contagiosa, come in una scena di Sister act. I fedeli pregano e aspettano il pastore, un nigeriano sulla quarantina (da 20 anni in Italia). Si chiama Lucky O. Omoghan, prepara il sermone, chiuso nel minuscolo ufficio ricavato in un angolo del garage. “Più di 500 fratelli frequentano la nostra comunità”. Nessuno di loro è bianco, ma “contro di noi non c’è più razzismo, non viene più la polizia”, rivendica. Eppure fuori da qui è diverso. In questo municipio – che ospita numerose comunità straniere e 15 dei 39 centri di accoglienza romani – la tensione è sempre altra e gli episodi di intolleranza frequenti, spesso favoriti dal soffiare sul fuoco dei gruppi di estrema destra.

TORRE MAURA. La stazione di Torre Maura è la prima della metro C dentro il Gra. Qui, grazie a Save the children, è in corso una grande sperimentazione sociale. In via Walter Tobagi, a ridosso del Parco di Tor Tre Teste, è nato un Punto luce (un altro è a Ponte di Nona). Un luogo bello e colorato – due strutture di cemento e vetro, con arredi moderni, e un campo sportivo polifunzionale – aperto a bambini e ragazzi da 6 a 16 anni.

“C’è isolamento e un’importante carenza di servizi”, racconta Elio Lo Cascio, referente romano del programma di contrasto alla povertà educativa dell’associazione. I numeri sono eloquenti: il 35% della popolazione ha meno di 18 anni (è il territorio più “giovane” della città), c’è la più alta percentuale di dispersione scolastica (il 15%, contro la media cittadina del 9), ci sono soltanto il 25,7% di diplomati (la media è del 34%) e appena il 3% (contro il 14,9) di laureati. Ecco perché diventa strategico intervenire con l’accompagnamento allo studio e i laboratori di arti e sport. Ogni trimestre passano da lì 250 bambini, il tentativo è di intercettarne molti di più. Anche per questo, come sottolinea Elio Lo Cascio, “lavoriamo anche con le famiglie: forniamo assistenza legale e abbiamo aperto un servizio di sostegno alla genitorialità”. I risultati di questa sfida impossibile saranno misurabili tra qualche anno, ma mostrare ai più giovani le opportunità nascoste dietro il brutto è un buon inizio.

L’ULTIMO MIGLIO. Dalla fermata successiva, da Torre Spaccata, la Metro C lascia il Sesto municipio, entra nel Quinto e, veloce, corre verso il Primo. Senza arrivarci mai. Metafora della solitudine dei cittadini del Sesto municipio. “Nel cuore di Roma si sta costruendo la metropolitana più complessa e straordinaria del mondo”, c’è scritto sul sito di MetroSpa. Eppure, ad oggi, questo prodigio della tecnica s’interrompe alla fermata Lodi. Un passo prima di congiungersi – a Piazza San Giovanni – con le altre linee, molto prima di raggiungere davvero il centro storico. Un sogno interrotto, insomma. Il simbolo, forse il paradigma, di una città che corre, si sbraccia e suda. Ma non taglia mai al traguardo.

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Le Olimpiadi a Roma e le chiacchiere al bar

Non sono né favorevole né contrario – per partito preso – al fatto che Roma organizzi le Olimpiadi (manifestazione che peraltro amo e seguo con passione e attenzione). Sarò banale: mi piacerebbe che ci fossero ed eviterei di uccidere una città per andare all’Olimpico a vedere la finale dei cento metri con l’erede di Bolt. Sono perciò convinto (altra ovvietà) che la discussione sulle Olimpiadi debba essere seria: stiamo parlando di un evento che non riguarda il destino della Raggi, la superbia del M5S, l’arroganza del Pd e le – davvero piccole – beghe della sinistra, ma la vita economica e sociale del Paese e quella (anche concretissima, di tutti i giorni) di qualche milione di romani.

de-magistris-ed-emilianoRagionare dentro il bar sport in cui ci confinano i giornali o certi imprenditori, dibattere in termini di propaganda o di convenienza politica come ci suggeriscono alcuni personaggi è quindi assolutamente inaccettabile, oltre che irragionevole. Se una discussione deve esserci – e io penso che sia salutare e necessaria – si faccia a partire da qualche dato di realtà.

Le cifre, per esempio. E le opportunità di sviluppo e crescita. Indicare numeri a caso (esercizio molto semplice di propaganda politica usato su tutte le grandi opere) è segno di debolezza e di inadeguatezza: agitiamo pure i miliardi e i posti di lavoro, le opere nuove e le ristrutturazioni, ma partiamo anche dal fatto che tutte le ultime Olimpiadi, tutte quelle post 1984 (Los Angeles) hanno chiuso il loro bilancio in passivo (pesantemente in passivo) con costi economici e sociali piuttosto pesanti per gli Stati, le città, le popolazioni. E questo nonostante i soldi (peraltro del tutto insufficienti) che il Cio mette sul piatto (e che, è vero, senza Giochi non ci sarebbero). Londra, dice l’Università di Oxford, ha incassato 3 miliardi, ma ne ha spesi 10. E allora mentre a Roma si discute di dove realizzare il villaggio olimpico (ovviamente, visti gli interessi in gioco!), nel mondo si ragiona del fatto che è  il “Modello Olimpiadi” in sé a non funzionare – in nessun posto, non solo in Italia. Per questo molte città (Amburgo, Boston, Madrid, San Diego e Dubai, scrive Ettore Livini su Repubblica di qualche giorno fa) si tirano fuori dalla competizione. Non in tutti questi posti governa (?!) Virginia Raggi.

Partire da qui, consiglierebbe per esempio al comitato promotore Roma 2024 di non limitarsi a fare la pubblicità o a ricordarci che a Roma c’è il Colosseo. Potrebbero farci capire dove starebbe (e come si sostanzierebbe) la discontinuità rispetto ai modelli passati. Fin qui non s’è capito.

Partire da qui, imporrebbe una pulizia della discussione pubblica. Così come, sul piano politico, al di là delle interviste – alcune incommentabili – di queste ore di imprenditori, politici, sportivi, esponenti dell’associazionismo, fare chiarezza sulle posizioni in campo sarebbe piuttosto utile e sano. Quando nelle scorse settimane la propaganda pro Olimpiadi ha messo in campo (falsamente!) l’ipotesi Milano (per fare pressione su Roma) il sindaco – il più renziano degli eletti all’ultima tornata elettorale – Beppe Sala ha scritto così: “Sono sempre stato favorevole ai Grandi Eventi e sono convinto che possano essere una grande opportunità per la città che li organizza. In questo caso, però, si tratta di una situazione particolare. Secondo le regole del CIO non si può sostituire Milano a Roma nella candidatura alle Olimpiadi 2024. Bisognerebbe quindi pensare all’edizione del 2028 (nel caso l’edizione 2024 fosse assegnata a una città non europea) o addirittura del 2032.
Viste le urgenze di oggi, penso non sia questo il momento giusto per parlarne. Togliamo il tema dal tavolo e affrontiamo questioni più importanti per i milanesi e gli italiani”. Visto che non credo che il Cio abbia introdotto delle regole che riguardano soltanto Milano, mi chiedo come giudicare la sortita twitter del più antirenziano dei sindaci, il napoletano Luigi De Magistris, (subito seguito da Michele Emiliano) che offrono Napoli e il Sud (in un progetto peraltro affascinante sul piano evocativo) come sede per le Olimpiadi. Ecco, io credo che in una discussione seria si dovrebbe chiedere conto a Beppe Sala e a Luigi De Magistris delle proprie parole. Non so chi tra Sala e De Magistris abbia ragione, so che le due posizioni mi sembrano inconciliabili.

Senza liberare le nostre parole da queste scorie, ogni posizione sarà legittima, ma probabilmente strumentale (o strumentalizzata). A volte ridicola, sempre certamente viziata. Una discussione su queste basi ha tanto il sapore della lotta di potere, dell’interesse economico di pochi, della piccola battaglia di posizionamento. E non potrà quindi servire al bene delle romane e dei romani.

Ps.
Non incoraggia il sì alle Olimpiadi il fatto che le guiderebbero Montezemolo e Malagò.
Non ha senso decidere ragionando della presenza delle mafie o della corruzione del nostro Paese (ci troveremmo costretti a chiudere troppe cose del nostro Paese!).
Una classe dirigente che si candida a governare una città ha il diritto e il dovere di decidere, soprattutto se in campagna elettorale ha preso i voti su una posizione politica. Invocare il referendum – senza peraltro esplicitare il proprio punto di vista – somiglia tanto a una scorciatoia.

#perpietà

Antimafia Capitale (L’Unità)

È la storia che si ripete, sempre uguale nei decenni. In Sicilia e in Calabria, a Milano e a Reggio Emilia, in ogni angolo d’Italia: parlare di mafia è un tabù. La conseguenza è un mix di silenzi e complicità inconfessabili che hanno permesso alle mafie di rompere gli argini e conquistare potere, denaro, consenso sociale.

Si sentiva diversa Roma, s’è scoperta anche lei vulnerabile e indifesa. Non ha visto i clan, e dai clan s’è vista sfilare importanti pezzi di sé.

Eppure la mafia sulle sponde del Tevere è questione antica. Boss e batterie hanno cominciato a conquistare strade e piazze almeno dagli Anni Sessanta. Un quadro criminale in evoluzione fatto di Banda della Magliana e Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta, il cosiddetto clan degli zingari e le mafie straniere a cui corrispondevano soltanto striminziti verbali di polizia, buone intuizioni di qualche investigatore e affascinanti storie raccontate nei bar di periferia dove chi sono i veri capi non sfugge a nessuno. Va avanti così fino al 1991, quando la commissione parlamentare antimafia di Gerardo Chiaromonte firma una relazione che mette nero su bianco quello che tutti sanno e nessuno vede: a Roma ci sono le mafie, lavorano con l’usura, le scommesse e la droga, fanno affari nel commercio e nel turismo. Nomi e luoghi – tanti ricorrono ancora oggi – che dovrebbero mettere politica e istituzioni di fronte alle proprie responsabilità. Non accade, complici anche Tangentopoli e le stragi. L’Italia del 1992 fa i conti con il crollo del sistema politico e la barbarie dei Corleonesi di Totò Riina. Non c’è spazio per nient’altro.

Dentro questa disattenzione ci sono l’impressionante crescita della ‘ndrangheta, il radicamento dei clan al nord, l’apertura delle cosche a nuovi e vantaggiosi mercati. Un’inerzia colpevole, che dura fino ai giorni nostri e ha anche un altro effetto: trasformare Roma in una Capitale delle mafie.

“Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Ma parlatene”, sosteneva Paolo Borsellino. Inascoltato, almeno a Roma. Dove dei clan e della loro aggressione all’economia, del controllo del territorio, delle tonnellate di droga spacciate per strada e dell’inferno terreno chiamato usura nessuno ragiona mai. La scelta trasversale, che ha il sapore della strategia, è sminuire, a volte persino negare la presenza delle mafie in nome di una maldestra difesa dell’immagine della città.

Neppure a giugno 2014 la prima condanna per 416 bis, il reato di associazione mafiosa, nel processo Nuova Alba cambia le cose: “A Ostia c’era la mafia”, è il massimo che si può concedere.

I fatti però sono ostinati e il 2 dicembre 2014 presentano il conto. La procura di Giuseppe Pignatone mette a segno il primo troncone dell’inchiesta Mondo di mezzo: a Roma ci sono molte mafie, una di queste, “originaria e originale”, è arrivata fin dentro il Campidoglio.

Lo shock provoca paura nella politica, silenzio imbarazzante di imprenditori e professionisti, la balbuzie di sindacati, associazioni e movimenti. Il quadro politico, economico e sociale che emerge è impressionante. È l’apparir del vero per i romani, la scoperta destabilizzante che i mafiosi non sono marziani. Entrano in crisi tutte le certezze sulla tenuta democratica della città.

Dentro questo clima, i cittadini smarriti e increduli rischiano la paralisi ma si fanno forza e tornano in campo con una nuova consapevolezza: la necessità di fare antimafia sociale. Non ci sono più soltanto i presìdi e le consolidate attività di Libera, i dossier, il lavoro territoriale e le campagne creative dell’Associazione daSud, le iniziative contro il gioco d’azzardo di Slot Mob: su questo nuovo terreno si mette in gioco la meglio gioventù capitolina, chi quotidianamente lavora con l’ambizione di rendere Roma una città migliore. C’è un mondo grande che pratica l’antimafia sociale forse senza saperlo, certamente senza dirlo, che con orgoglio nuovo e la passione di sempre riannoda i fili del suo impegno.

Sono tanti, tantissimi. Al centro e in periferia. Nella difficilissima Tor Bella Monaca, per esempio. Dove una rete di volontari fornisce servizi e assistenza a chi ne ha bisogno: la ludoteca animata dalle mamme e il centro antiviolenza, la biblioteca autogestita Cubo libro, il centro sociale, l’ambulatorio di Medicina solidale insieme provano a essere presenti laddove le istituzioni non ci sono quasi più. O a Corcolle, un quartiere senza servizi a decine di chilometri dal centro, diventato famoso per le aggressioni ai migranti, dove le associazioni hanno avviato un faticoso percorso per costruire una risposta culturale all’odio razziale dilagante. Due librerie, Yeti e Alegre, sono invece il centro propulsore delle battaglie che i cittadini hanno intrapreso contro lo spaccio sfacciato e incontrollato al Pigneto, uno dei quartieri del divertimento.

Innovazione sociale, cultura e volontariato sono le tre caratteristiche principali dei progetti a Torpignattara, nella periferia est della città. Il network culturale Torpignalab, le attività sociali e la scuola popolare promossa dal Comitato di quartiere, il lavoro con le donne migranti di Asinitas e l’esperienza della Piccola Orchestra di Tor Pignattara in cui suonano i figli dei cittadini migranti, il mercato contadino al parco Sangalli e il cinema itinerante di Karawan, la manifestazione Alice nel paese della Marranella in una delle vie più controverse del quartiere sono le realtà che hanno scommesso sul futuro del quartiere romano che ha il maggior numero di comunità straniere, seri problemi di integrazione e una forte presenza della criminalità organizzata.

L’idea della sostenibilità sta invece dietro il progetto di rigenerazione urbana e culturale della community di associazioni, esperti, istituzioni di ricerca che ha dato vita all’esperienza di Corviale domani, in uno dei quadranti socialmente e urbanisticamente più difficili della città. La collaborazione tra diversi è il tentativo messo in campo anche dalla rete delle associazioni di promozione sociale del Municipio 14 (a Roma Nord) che svolge un importante lavoro di informazione e autoformazione sulle mafie.

A Tor Sapienza sono gli orti lo strumento scelto per costruire socialità. A lavorarci l’associazione ambientalista Terra, che ha avviato un progetto di integrazione per bambini rom animato anche dall’associazione Popica. Dei diritti umani di rom e sinti si occupa invece in diversi posti della città l’Associazione 21 luglio, tra le più attive tra l’altro nel denunciare i fatti di Mafia Capitale.

Progetti che diventano veri e propri presìdi antimafia per bambini sono quelli del centro giovanile B-Side al Tuscolano, di Matemù che all’Esquilino lavora con gli adolescenti migranti di seconda generazione e di Scup, luogo occupato con diverse attività dedicate ai più piccoli. E luoghi culturali e di incontro fondamentali nella vita dei quartieri sono l’Officina Via Libera al Quadraro e l’ex Lavanderia a Monte Mario o la Collina della Pace che anima l’estrema periferia di contrada Finocchio restituendo vita a un bene confiscato a Enrico Nicoletti, il cassiere della banda della Magliana.

Un nuovo significato acquistano la battaglie per la trasparenza amministrativa di Carte in regola e il lavoro per le terre pubbliche ai giovani agricoltori della Cooperativa Coraggio. Anche le realtà universitarie colgono la sfida dell’antimafia: a Roma Tre c’è il laboratorio di formazione sui clan voluto da Ricomincio dagli studenti. Organizzano attività antimafia anche Link alla Sapienza, Altroateneo a Tor Vergata e l’associazione Freak alla Luiss. Si sono messi in gioco compagnie teatrali, registi, street artist e organizzazioni sportive, dalla Uisp al VII Biciclettari, dalle palestre popolari alla rete del calcio solidale.

Tanti protagonisti di un cambiamento possibile che sentono la necessità di organizzarsi per una presa di parola collettiva, di formalizzare in qualche modo la loro idea di antimafia sociale: nasce così il 6 e 7 marzo  “Spiazziamoli – 50 piazze per la democrazia e contro le mafie”, la più importante e partecipata risposta a Mafia capitale. Centoventi associazioni, migliaia di persone a lavoro in tutta Roma lanciano una grande discussione sui clan e il futuro della città. Sono solo un pezzo di un mondo straordinario che vive nella città “sommersa”. Nuovi stimoli in questi mesi arrivano da altre realtà impegnate nel sociale e nel volontariato, segnali straordinari arrivano anche dalla gara di solidarietà per i migranti che stanno da settimane a Tiburtina che sembra anche una risposta agli scandali dei mesi scorsi.

Nella Roma delle mafie e della corruzione, dei veleni e dei commissariamenti c’è insomma un tentativo – ancora incompiuto, ma non per questo meno importante – di aprire una nuova stagione antimafia. Non c’è da stupirsi se le reazioni non sempre sono forti e decise. È ancora la storia a insegnarcelo: ci sono voluti decenni di discussioni e battaglie, omicidi e stragi perché Calabria e Sicilia ammettessero la presenza delle mafie, perché crescesse un movimento antimafia popolare. Che non significa che quanto è già accaduto a Roma non sia sufficiente a creare una reazione. Vuol dire piuttosto che la percezione dei fatti è ancora lontana dalla realtà. Che l’incapacità di lettura del fenomeno mafioso, la difficoltà a riconoscerlo e la paura sono ancora  ostacoli significativi, che l’azione della magistratura, da sola, non è sufficiente a creare consapevolezza diffusa. Servono rotture culturali e sociali che Roma non ha ancora praticato.

Il cammino però è iniziato, la strada tracciata. A indicarla è anche Papa Francesco, durante una recente visita a Tor Bella Monaca: “Le persone di questa periferia sono messe a dura prova dalla disoccupazione e costrette a fare brutte cose. La mafia usa i poveri per fare il lavoro sporco”. Dove lo Stato arretra, avanzano i clan. Le inchieste confermano quanto sosteniamo da tempo: c’è un welfare parallelo a Roma, e lo pagano i clan. Che hanno un consenso sociale radicato, costruito con i soldi della droga, imponendo la propria presenza nei quartieri, facendo credito alle imprese, vuotando milioni nelle tasche dei professionisti, dando pane e lavoro a chi ne ha bisogno.

Su questo terreno, quello della costruzione del consenso, dei diritti, delle opportunità e del welfare si gioca la partita decisiva. Giuseppe Valarioti, politico, insegnante e intellettuale ucciso 35 anni fa dalla ‘ndrangheta a Rosarno, diceva: “Se non lo facciamo noi, chi deve farlo”. Parlava ai giovani calabresi, a quelli che che si sporcava le mani. A loro indicava una sfida urgente da lanciare a tutti i cittadini, all’intera classe dirigente. Le sue parole sembrano scritte per la Roma di oggi. Che impaurita aspetta il responso sullo scioglimento del consiglio comunale. Che non ha più tempo, che deve immergersi nella realtà. Per cambiarla, o la realtà tornerà presto a presentare il suo conto.

*Pubblicato su L’Unità