Antimafia Capitale (L’Unità)

È la storia che si ripete, sempre uguale nei decenni. In Sicilia e in Calabria, a Milano e a Reggio Emilia, in ogni angolo d’Italia: parlare di mafia è un tabù. La conseguenza è un mix di silenzi e complicità inconfessabili che hanno permesso alle mafie di rompere gli argini e conquistare potere, denaro, consenso sociale.

Si sentiva diversa Roma, s’è scoperta anche lei vulnerabile e indifesa. Non ha visto i clan, e dai clan s’è vista sfilare importanti pezzi di sé.

Eppure la mafia sulle sponde del Tevere è questione antica. Boss e batterie hanno cominciato a conquistare strade e piazze almeno dagli Anni Sessanta. Un quadro criminale in evoluzione fatto di Banda della Magliana e Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta, il cosiddetto clan degli zingari e le mafie straniere a cui corrispondevano soltanto striminziti verbali di polizia, buone intuizioni di qualche investigatore e affascinanti storie raccontate nei bar di periferia dove chi sono i veri capi non sfugge a nessuno. Va avanti così fino al 1991, quando la commissione parlamentare antimafia di Gerardo Chiaromonte firma una relazione che mette nero su bianco quello che tutti sanno e nessuno vede: a Roma ci sono le mafie, lavorano con l’usura, le scommesse e la droga, fanno affari nel commercio e nel turismo. Nomi e luoghi – tanti ricorrono ancora oggi – che dovrebbero mettere politica e istituzioni di fronte alle proprie responsabilità. Non accade, complici anche Tangentopoli e le stragi. L’Italia del 1992 fa i conti con il crollo del sistema politico e la barbarie dei Corleonesi di Totò Riina. Non c’è spazio per nient’altro.

Dentro questa disattenzione ci sono l’impressionante crescita della ‘ndrangheta, il radicamento dei clan al nord, l’apertura delle cosche a nuovi e vantaggiosi mercati. Un’inerzia colpevole, che dura fino ai giorni nostri e ha anche un altro effetto: trasformare Roma in una Capitale delle mafie.

“Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Ma parlatene”, sosteneva Paolo Borsellino. Inascoltato, almeno a Roma. Dove dei clan e della loro aggressione all’economia, del controllo del territorio, delle tonnellate di droga spacciate per strada e dell’inferno terreno chiamato usura nessuno ragiona mai. La scelta trasversale, che ha il sapore della strategia, è sminuire, a volte persino negare la presenza delle mafie in nome di una maldestra difesa dell’immagine della città.

Neppure a giugno 2014 la prima condanna per 416 bis, il reato di associazione mafiosa, nel processo Nuova Alba cambia le cose: “A Ostia c’era la mafia”, è il massimo che si può concedere.

I fatti però sono ostinati e il 2 dicembre 2014 presentano il conto. La procura di Giuseppe Pignatone mette a segno il primo troncone dell’inchiesta Mondo di mezzo: a Roma ci sono molte mafie, una di queste, “originaria e originale”, è arrivata fin dentro il Campidoglio.

Lo shock provoca paura nella politica, silenzio imbarazzante di imprenditori e professionisti, la balbuzie di sindacati, associazioni e movimenti. Il quadro politico, economico e sociale che emerge è impressionante. È l’apparir del vero per i romani, la scoperta destabilizzante che i mafiosi non sono marziani. Entrano in crisi tutte le certezze sulla tenuta democratica della città.

Dentro questo clima, i cittadini smarriti e increduli rischiano la paralisi ma si fanno forza e tornano in campo con una nuova consapevolezza: la necessità di fare antimafia sociale. Non ci sono più soltanto i presìdi e le consolidate attività di Libera, i dossier, il lavoro territoriale e le campagne creative dell’Associazione daSud, le iniziative contro il gioco d’azzardo di Slot Mob: su questo nuovo terreno si mette in gioco la meglio gioventù capitolina, chi quotidianamente lavora con l’ambizione di rendere Roma una città migliore. C’è un mondo grande che pratica l’antimafia sociale forse senza saperlo, certamente senza dirlo, che con orgoglio nuovo e la passione di sempre riannoda i fili del suo impegno.

Sono tanti, tantissimi. Al centro e in periferia. Nella difficilissima Tor Bella Monaca, per esempio. Dove una rete di volontari fornisce servizi e assistenza a chi ne ha bisogno: la ludoteca animata dalle mamme e il centro antiviolenza, la biblioteca autogestita Cubo libro, il centro sociale, l’ambulatorio di Medicina solidale insieme provano a essere presenti laddove le istituzioni non ci sono quasi più. O a Corcolle, un quartiere senza servizi a decine di chilometri dal centro, diventato famoso per le aggressioni ai migranti, dove le associazioni hanno avviato un faticoso percorso per costruire una risposta culturale all’odio razziale dilagante. Due librerie, Yeti e Alegre, sono invece il centro propulsore delle battaglie che i cittadini hanno intrapreso contro lo spaccio sfacciato e incontrollato al Pigneto, uno dei quartieri del divertimento.

Innovazione sociale, cultura e volontariato sono le tre caratteristiche principali dei progetti a Torpignattara, nella periferia est della città. Il network culturale Torpignalab, le attività sociali e la scuola popolare promossa dal Comitato di quartiere, il lavoro con le donne migranti di Asinitas e l’esperienza della Piccola Orchestra di Tor Pignattara in cui suonano i figli dei cittadini migranti, il mercato contadino al parco Sangalli e il cinema itinerante di Karawan, la manifestazione Alice nel paese della Marranella in una delle vie più controverse del quartiere sono le realtà che hanno scommesso sul futuro del quartiere romano che ha il maggior numero di comunità straniere, seri problemi di integrazione e una forte presenza della criminalità organizzata.

L’idea della sostenibilità sta invece dietro il progetto di rigenerazione urbana e culturale della community di associazioni, esperti, istituzioni di ricerca che ha dato vita all’esperienza di Corviale domani, in uno dei quadranti socialmente e urbanisticamente più difficili della città. La collaborazione tra diversi è il tentativo messo in campo anche dalla rete delle associazioni di promozione sociale del Municipio 14 (a Roma Nord) che svolge un importante lavoro di informazione e autoformazione sulle mafie.

A Tor Sapienza sono gli orti lo strumento scelto per costruire socialità. A lavorarci l’associazione ambientalista Terra, che ha avviato un progetto di integrazione per bambini rom animato anche dall’associazione Popica. Dei diritti umani di rom e sinti si occupa invece in diversi posti della città l’Associazione 21 luglio, tra le più attive tra l’altro nel denunciare i fatti di Mafia Capitale.

Progetti che diventano veri e propri presìdi antimafia per bambini sono quelli del centro giovanile B-Side al Tuscolano, di Matemù che all’Esquilino lavora con gli adolescenti migranti di seconda generazione e di Scup, luogo occupato con diverse attività dedicate ai più piccoli. E luoghi culturali e di incontro fondamentali nella vita dei quartieri sono l’Officina Via Libera al Quadraro e l’ex Lavanderia a Monte Mario o la Collina della Pace che anima l’estrema periferia di contrada Finocchio restituendo vita a un bene confiscato a Enrico Nicoletti, il cassiere della banda della Magliana.

Un nuovo significato acquistano la battaglie per la trasparenza amministrativa di Carte in regola e il lavoro per le terre pubbliche ai giovani agricoltori della Cooperativa Coraggio. Anche le realtà universitarie colgono la sfida dell’antimafia: a Roma Tre c’è il laboratorio di formazione sui clan voluto da Ricomincio dagli studenti. Organizzano attività antimafia anche Link alla Sapienza, Altroateneo a Tor Vergata e l’associazione Freak alla Luiss. Si sono messi in gioco compagnie teatrali, registi, street artist e organizzazioni sportive, dalla Uisp al VII Biciclettari, dalle palestre popolari alla rete del calcio solidale.

Tanti protagonisti di un cambiamento possibile che sentono la necessità di organizzarsi per una presa di parola collettiva, di formalizzare in qualche modo la loro idea di antimafia sociale: nasce così il 6 e 7 marzo  “Spiazziamoli – 50 piazze per la democrazia e contro le mafie”, la più importante e partecipata risposta a Mafia capitale. Centoventi associazioni, migliaia di persone a lavoro in tutta Roma lanciano una grande discussione sui clan e il futuro della città. Sono solo un pezzo di un mondo straordinario che vive nella città “sommersa”. Nuovi stimoli in questi mesi arrivano da altre realtà impegnate nel sociale e nel volontariato, segnali straordinari arrivano anche dalla gara di solidarietà per i migranti che stanno da settimane a Tiburtina che sembra anche una risposta agli scandali dei mesi scorsi.

Nella Roma delle mafie e della corruzione, dei veleni e dei commissariamenti c’è insomma un tentativo – ancora incompiuto, ma non per questo meno importante – di aprire una nuova stagione antimafia. Non c’è da stupirsi se le reazioni non sempre sono forti e decise. È ancora la storia a insegnarcelo: ci sono voluti decenni di discussioni e battaglie, omicidi e stragi perché Calabria e Sicilia ammettessero la presenza delle mafie, perché crescesse un movimento antimafia popolare. Che non significa che quanto è già accaduto a Roma non sia sufficiente a creare una reazione. Vuol dire piuttosto che la percezione dei fatti è ancora lontana dalla realtà. Che l’incapacità di lettura del fenomeno mafioso, la difficoltà a riconoscerlo e la paura sono ancora  ostacoli significativi, che l’azione della magistratura, da sola, non è sufficiente a creare consapevolezza diffusa. Servono rotture culturali e sociali che Roma non ha ancora praticato.

Il cammino però è iniziato, la strada tracciata. A indicarla è anche Papa Francesco, durante una recente visita a Tor Bella Monaca: “Le persone di questa periferia sono messe a dura prova dalla disoccupazione e costrette a fare brutte cose. La mafia usa i poveri per fare il lavoro sporco”. Dove lo Stato arretra, avanzano i clan. Le inchieste confermano quanto sosteniamo da tempo: c’è un welfare parallelo a Roma, e lo pagano i clan. Che hanno un consenso sociale radicato, costruito con i soldi della droga, imponendo la propria presenza nei quartieri, facendo credito alle imprese, vuotando milioni nelle tasche dei professionisti, dando pane e lavoro a chi ne ha bisogno.

Su questo terreno, quello della costruzione del consenso, dei diritti, delle opportunità e del welfare si gioca la partita decisiva. Giuseppe Valarioti, politico, insegnante e intellettuale ucciso 35 anni fa dalla ‘ndrangheta a Rosarno, diceva: “Se non lo facciamo noi, chi deve farlo”. Parlava ai giovani calabresi, a quelli che che si sporcava le mani. A loro indicava una sfida urgente da lanciare a tutti i cittadini, all’intera classe dirigente. Le sue parole sembrano scritte per la Roma di oggi. Che impaurita aspetta il responso sullo scioglimento del consiglio comunale. Che non ha più tempo, che deve immergersi nella realtà. Per cambiarla, o la realtà tornerà presto a presentare il suo conto.

*Pubblicato su L’Unità

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