Cacun, reportage per Terra

daSud con Rigas (la Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale) è a Cancun per il vertice Onu sui cambiamenti climatici (e i relativi controvertici). Ecco il mio reportage per Terra.
Sul sito reteambientalesociale.org gli aggiornamenti quotidiani e tutti gli articoli. La manifestazione del 7 dicembre è stata ripresa in tutto il mondo. Ecco la Bbc

rigas_resizeCANCUN – I giornali locali dicono che fa freddo. Alcuni lo strillano persino in prima pagina che quest’ondata durerà ancora per qualche giorno. A leggere i quotidiani di Cancun sembra di stare nel Nord Europa bloccato dalla neve. La realtà, naturalmente, è che le “rigide” settimane del vertice mondiale Cop 16 sul clima prevedono solo poche nubi e qualche raffica di vento. Sarà per questo presunto maltempo che i governi di tutto il mondo in arrivo in Messico non riescono a cogliere l’urgenza di trovare un accordo che arresti il riscaldamento globale?
Ironia a parte, è sufficiente che ministri e capi di governo alzino gli occhi al cielo o respirino un po’ più profondamente per cogliere il livello impressionante di smog nell’aria e capire che siamo ben oltre il livello di guardia.

Cancun è probabilmente la città più adatta dal punto di vista delle infrastrutturale a ospitare il Cop16 con centinaia di delegazioni provenienti da ogni parte del mondo, tuttavia è anche quella che – forse meglio di altre – esprime appieno le mille contraddizioni messicane e, in fondo, può essere portata a paradigma di un sistema economico e sociale da cambiare. A livello mondiale, e dalle fondamenta. Appena qualche decennio fa, infatti, Cancun, nello stato di Quintana Roo, era un tranquillissimo centro di pescatori che avevano trovato la loro dimensione in una zona quasi disabitata formata da una duna a forma di sette a due passi dai Caraibi. Un villaggio della penisola dello Yucatan, famosa in tutto il mondo per gli straordinari insediamenti Maya che (a Tulum o a Chiche-itza) resistono imponenti fino ai giorni nostri.
Poco più di trent’anni fa, la svolta repentina: il governo messicano per allentare la pressione su Acapulco decide di fare Cancun in una zona ad alta densità turistica. Bastano pochi anni e l’intera area con le paludi, le spiagge bianche e una vegetazione mozzafiato che si specchia sulla bellissima Isla Mujeres, diventa una città (con più di mezzo milione di abitanti) e si trasforma in una delle capitali mondiali del turismo, meta privilegiata di migliaia di ricconi soprattutto statunitensi e canadesi.

Lo capisci subito, appena scendi dall’aereo, dove ti trovi. Ad accogliere i turisti c’è un clima di festa che si materializza sotto forma di un gruppo di suonatori messicani con tanto di poncho, baffo e sombrero. Appena fuori dallo scalo, è un’invasione di taxi (migliaia girano tutta la città per pochi spicci) e pullman pronti a servire al meglio singoli o intere comitive. Percorrendo i pochi chilometri che separano l’aeroporto dalla città entri subito nel clima del vertice. La città è completamente militarizzata: ci sono decine di posti di blocco, controlli, rallentamenti. E la polizia federale si mostra fiera solcando le strade a bordo di suv Ford che sul retro trasportano cinque uomini in divisa blu armati di mitra rivolti in maniera inutilmente imprudente verso le auto o i pedoni. Quasi inutile precisare quanto sia presidiata la cosiddetta zona rossa, l’area del vertice ufficiale dei governi che – piccola curiosità – si scorge da lontano grazie a una pala eolica (la stessa del vertice di Copenaghen?) che gira a vuoto da giorni e vuole rappresentare il simbolo del cambiamento. Ci sono poi altre cinque zone – tutte lontane tra loro – che Cancun ha destinato al vertice. C’è Cancunmesse, l’area della fiera ufficiale, e Villa climatica, attrezzata dal governo per fare la faccia pulita e dimostrare al mondo il proprio impegno per l’ambiente (assolutamente deficitario per tutta la società civile messicana). Ci sono poi le aree riservate ai tre (!?) controvertici (una novità la divisione, dovuta alle scelte del movimento del Paese ospitante): il Klimaforum delle ong a Puerto Moleros, Dialogo climatico che ha allestito il villaggio a due passi dal palasport della scherma e via Campesina che sta al centro sportivo Canek. Spazi che non comunicano ma che potrebbero trovare nella manifestazione convocata per domani (7 dicembre) un punto di contatto. Per le strade, come sempre in questi giorni, anche Rigas, la Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale, tra i protagonisti del controvertice.

Ma se si dovesse indicare la zona di Cancun più interessata dal vertice, forse paradossalmente, si dovrebbe indicare la zona hotelera: una striscia di terra stretta e lunga una manciata di chilometri – che sta in mezzo al mare di Cancun e collegata alla terra ferma da due ponti – su cui sembrano poggiati come giganteschi mattoncini della Lego ben 93 (novantatre!) hotel di lusso alti anche venti piani, casinò (ce n’è anche uno immenso, inaugurato poche ore fa, con fuori in bella mostra il coniglietto di Playboy), discoteche e ristoranti. Costruzioni imponenti che hanno alle spalle l’acqua della laguna con gli approdi per i motoscafi e davanti l’oceano Atlantico. Un unicum impressionante che ha modificato l’ecosistema, l’orizzonte, la stessa identità della città. È qui che alloggia la gran parte delle delegazioni ufficiali del vertice (davanti a ogni porta d’albergo è presente una pattuglia della polizia) ed è qui che lavora una parte davvero consistente della popolazione di Cancun impegnata come cuochi, camerieri, personale di hall, addetti alle pulizie. A questo proposito, i giornali sottolineano che il vertice ha salvato una stagione invernale che rischiava di essere fallimentare dal punto di vista delle presenze (e quindi dell’economia locale). Per la gente comune, l’unica possibilità di respirare la stessa aria dei ricchi.
Mano a mano che dalla zona hotelera ci si sposta verso l’interno, questa città priva di un centro storico diventa la zona residenziale della classe media. Fuori dal centro due diverse realtà: andando verso sud, si trovano decine di resort d’elite, parchi dei divertimenti e campi da golf. Andando invece verso l’interno, verso le sterminate periferie, ci sono i quartieri della stragrande maggioranza della popolazione locale che vive in abitazioni che somigliano più a capanne che a case. È in questa dicotomia che si mostrano tutti i paradossi, la sproporzione tra ricchezza e povertà del sistema economico e sociale messicano (e, in fondo, anche mondiale). Secondo una ricerca pubblicata nel 2006, il Messico – un solo dato può essere significativo in questo senso – è la seconda nazione al mondo, dietro gli Usa, per numero di obesi (il 24% della popolazione). Un dato eloquente sulla situazione generale, che diventa ancora più eclatante se accompagnato da alcune considerazioni. La prima riguarda il sistema sociale: per le strade di Cancun – tra minuscoli carretti di venditori ambulanti di cibo, Coca cola e bevande Nestlé, curiosi infopoint e minimarket – si vede una moltitudine di giganteschi centri estetici, palestre, farmacie e parafarmacie. Solo contarli produce un certo effetto di straniamento. La seconda è esemplificativa di un sistema economico alla deriva: il Messico, per le conseguenze nefaste sull’economia del Nafta (l’accordo di libero scambio firmato nel ‘94 con Usa e Canada), è oggi primo produttore al mondo di mais e, pure, è costretto a importare il 33% del suo fabbisogno.
Su questa problematica situazione strutturale, a Cancun proprio in questi giorni è caduta la tegola dell’allarme rifiuti. E interi pezzi di città somigliano molto alla peggiore Napoli. Molte zone periferiche e persino alcune mete turistiche (il visitatissimo mercato 28) sono letteralmente invase dalla spazzatura e circondate da discariche a cielo aperto. Un colpo ben assestato all’immagine patinata costruita sul lusso degli hotel sottolineato anche da alcuni giornali locali che polemicamente invitano a fare un giro virtuale per Cancun godendosi i cumuli di rifiuti anche attraverso Google Earth. Per questo è alta la tensione contro la società – la Domos Tierra – che ha avuto in concessione (per 37 milioni di pesos messicani) la raccolta dei rifiuti e che mostra tutte le sue insufficienze. Ma è solo una delle tessere del puzzle della precarietà di Cancun, di Quintano Roo e dell’intero Messico. Basti prendere a prestito le parole di Mario Herrera Moro, presidente dell’ordine dei geologi del Messico. Intervenendo al forum Cento proposte concrete per il cambiamento climatico, Herrera ha sottolineato la fragilità del territorio dello Yucatan, denunciato la presenza di discariche abusive e parlato di un sistema fognario al collasso e di corsi d’acqua contaminati. Un quadro ambientale pericoloso che determina un altissimo rischio di esplosioni – superficiali o sotterrane – di gas metano (già avvenute in alcuni villaggi attorno a Cancun) e che mettono a rischio la salute di centinaia di migliaia di persone. Gli ha fatto eco Jose Luis Luege Tamargo, direttore generale della commissione nazionale dell’Acqua: nonostante lo Yucatan sia la regione mondiale con più abbondanza di acqua, ha spiegato, gli abitanti rischiano di non averne più a disposizione. Almeno di quella buona. I veleni delle fabbriche e dei rifiuti accatastati nelle discariche abusive stanno contaminando in maniera irreparabile le falde acquifere e i corsi d’acqua. Con le conseguenze immaginabili per chiunque. È questo il Messico che ospita il Cop 16. Di questo sistema che precipita – qui e altrove – dovrebbero occuparsi i governi del mondo. Per capirlo, è sufficiente guardarsi attorno. Anche nella luccicante Cancun.

 

Cancun e il controvertice triplo

CANCUN – L’immagine più chiara la fornisce, forse involontariamente, Christina Figueres, la responsabile dell’Onu sui cambiamenti climatici. È il suo pianto a spiegare in maniera eloquente lo stato dell’arte al vertice Cop 16 di Cancun durante il quale i governi di 194 Paesi de mondo sono riuniti per affrontare la crisi ecologica e il riscaldamento del Pianeta. Figueres parla con i giovani che sono venuti al vertice messicano da tutto il mondo e a un certo punto scoppia in lacrime. Dice: «Non importa quale sarà l’accordo – commenta riferendosi all’intesa che potrà uscire dal vertice – perché è comunque pateticamente insufficiente». Introduce anche un elemento di umanità, raccontando di avere due figli di 21 e 22 anni, rivelando il suo sogno di farli vivere in un mondo migliore. Poi si asciuga gli occhi, spiega ai ragazzi che sarà la prossima settimana quella decisiva e chiarisce che non si dà per vinta, che si spenderà fino in fondo per cercare di convincere i governi della necessità di un impegno vincolante per il clima e a salvaguardia della Terra. Non ci crede Christina Figueres e in fondo non ci crede nessuno alla possibilità di un’intesa vera. Sono troppi i segnali negativi: dal fallimento della Cop 15 di Copenaghen alle deludenti attività preparatorie delle riunioni internazionali di Bonn (in Germania) e Tianjin (in Cina). Una situazione sempre più preoccupante, che riguarda tutti e che tutti pensano di risolvere semplicemente non affrontandola come se la crisi ecologica ed economica non fosse già realtà, non fosse già il frutto amaro di un sistema mondiale al collasso.
E stanno arrivando in migliaia a Cancun, da tutte le parti del mondo, a ricordare ai potenti del Pianeta che il sistema mondiale è ormai vicino al collasso, che è necessaria un’assunzione di responsabilità da parte di tutti. In queste ore sono già iniziate le prime proteste: un miniblitz di Greenpeace Messico ha sollevato il caso della zona di Quintana Roo, dell’aggressione delle attività petrolifere e turistiche, gli agricoltori hanno già lanciato l’allarme «ecocidio» a proposito del cementificio costruito nella zona dio Veracruz mentre alcuni movimenti di Cancun sono stati ieri mattina a protestare davanti al municipio. Sono solo le prime avvisaglie. Infatti il movimento ambientalista mondiale è arrivato in forze a Cancun e non mancherà di farsi sentire.

È diviso in tre tronconi, però, il movimento. Per tre controvertici con tre programmi e tre diverse attività (che probabilmente potrebbero trovare qualche punto di contatto in occasione della manifestazione convocata per il 7 dicembre per le strade di Cancun). Il primo dei controvertici è quello dei movimenti dei contadini e delle vittime ambientali che fanno capo a Via Campesina. Nel villaggio allestito nello stadio della città sono arrivate tre carovane – organizzate da Via Campesina e dell’Assemblea nazionale delle vittime ambientali (un’organizzazione che raccoglie centinaia di vertente ambientali messicane) – partite il 27 novembre e che hanno attraversato i luoghi simbolo del Messico convogliando i movimenti studenteschi e dei lavoratori. La prima carovana è partita da San Luis Potosì per denunciare la presenza di una miniera a cielo aperto che dovrebbe fare la ricchezza del territorio e invece, naturalmente, è un concentrato di veleno per il terreno e le falde acquifere. La seconda carovana è quella di Salto, luogo altamente contaminato per la presenza di un gigantesco polo industriale e di una discarica di ben 71 ettari che non rispetta nessuna norma di sicurezza. Alle carovane di via Campesina ha partecipato anche una delegazione italiana di Rigas (Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale, che raccoglie oltre 60 organizzazioni da nord a sud). Via Campesina ha organizzato anche mobilitazioni dei movimenti di agricoltori in ogni parte del mondo «per creare migliaia di Cancun», mentre altre due carovane autonome sono partite in segno di solidarietà da Oaxaca e dal Chiapas. Il secondo troncone del movimento è quello di Dialogo climatico (che si riunisce in un villaggio allestito a due passi dal palasport della scherma), una realtà composta da centinaia di associazioni e comitati di base provenienti da ogni parte del mondo, che ha a cuore le sorti del Pianeta e che organizza un fitto programma di confronti e dibattiti sulla crisi ecologica mondiale provando anche a declinarla nelle realtà nazionali e locali. Il 5 dicembre uno dei panel principali – promosso da Rigas – è dedicato all’Italia e alla crisi (che naturalmente non è soltanto quella politico-parlamentare di questi giorni) del nostro Paese nell’era di Berlusconi. Significative rappresentanze italiane sono presenti anche nel terzo troncone del movimento ambientalista che dà vita al controvertice Klimaforum che ha trovato la sua sede nella zona di Puetro Morelos. Ci sono le delegazioni di numerose associazioni e ong tra cui Legambiente, Wwf e Greenpeace che s’è già fatta notare per la presenza della sua nave e perché il 29 novembre in apertura del forum ha lanciato un gigantesto pallone aerostatico nei cieli dell’antica città Maya Chichenitza con la scritta inequivocabile “Rescue the Climate”.
In questo clima si svolgono i lavori della Cop 16. Con il cuore e la mente che sta dentro i controvertici e l’economia che guida le scelte dei governi. Che sono a Cancun, ma che già puntano al Cop17 del prossimo anno a Johannesburg. A meno che le lacrime di Christina Figueres non facciano il miracolo.
4 dicembre 2010
Pubblicato sul quotidiano Terra

Winspeare: Siamo una bella nave allo sbando

Con il regista pugliese Edoardo Winspeare parte “Creatività meridiane”, un ciclo di incontri con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. È il tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.
Il ciclo di incontri “Creatività meridiane” è fatto per il quotidiano ecologista Terra.

Edoardo Winspeare è un regista meridionale e un personaggio anomalo per i canoni del Sud per molte ragioni. Innanzitutto, la più banale: il cognome che porta, segno di una storia del tutto particolare. Winspeare è nato in Austria, originario di una famiglia nobile e cattolica dello Yorkshire che si trasferisce nel regno di Napoli in seguito a una guerra di religione. Cresce nel Salento. Poi decide di studiare cinema e si trasferisce a Firenze, quindi a New York, poi ancora a Monaco di Baviera. Alla fine di un lunghissimo giro per il mondo decide di tornare in Salento e di vivere a Corsano, in provincia di Lecce.

Ci sono anche altre ragioni che fanno di  Edoardo Winspeare un artista sui generis. La prima riguarda i suoi film. Si tratta di opere – da “Pizzicata” a “Sangue vivo”, da “Il miracolo” a “I galantuomini” – che hanno girato con successo i festival di mezzo mondo, ma soprattutto hanno la capacità di raccontare, da dentro, l’anima più vera un pezzo prezioso del nostro Mezzogiorno, il tacco dello Stivale, il Salento. Poi perché a Winspeare girare film sembra non bastare. È un ottimo musicista e una decina d’anni fa ha fondato e animato la band Zoe e ha deciso di fare il produttore (è socio con Gustavo Caputo di Saietta Film) scegliendo di continuare a vivere in Puglia. Una scelta in parte antieconomica «visto che il cuore del cinema sta a Roma o al limite a Milano» e che gli costa il prezzo, confessa, «di  fare e produrre sicuramente meno film, di fare molta più fatica a trovare i soldi».
C’è poi la sua scelta – per nulla scontata – di mettersi in gioco. Come animatore culturale e come promotore di un percorso di rivendicazione di diritti che ha avuto il suo culmine cinque o sei anni fa, quando Edoardo Winspeare lancia la sua battaglia ambientalista per difendere il territorio dal cemento selvaggio. Lancia un’idea e un progetto apparentemente strampalato: comprare ecomostri, per abbatterli. La sua eresia, forse addirittura la sua pazzia, diventa l’associazione Coppula tisa, dal nome della lucertola salentina. Quella di Winspeare è una provocazione, concreta e intellettuale, che molto ha da dire sull’idea di Sud che dovremmo avere. Sono anni in cui vengono a galla centinaia di brutture illegali in ogni parte d’Italia e in cui la politica e le amministrazioni – come oggi, per la verità – sono sorde di fronte al richiamo, alla necessità, del bello. Il regista salentino chiama a raccolta la società civile, i cittadini, parte una colletta che corre come un treno e nel giro di pochi mesi un ecomostro di Tricase viene acquistato, abbattuto e il terreno viene restituito ai cittadini: «Oggi lì c’è il parco della cittadinanza attiva». Un piccolo grande risultato, senza neppure un euro degli enti pubblici, che serve da monito per la politica, che può rappresentare un modello per costruire un’altra identità nel territorio pugliese martoriato dall’abusivismo, come tutto quello meridionale («l’unica industria che funziona al sud è quella dell’edilizia», commenta amaro Winspeare).
Un regista e un intellettuale anomalo, fuori dagli schemi, molto meridionale e molto cittadino del mondo. Un buon punto di partenza per un viaggio – Creatività meridiane – che il domenicale di Terra vuole condurre in giro per il Sud alla scoperta di memorie, idee e pratiche per ragionare attorno a una nuova e originale identità meridionale. Winspeare è molto contento di partecipare a questo ragionamento. «Dobbiamo parlare di Sud? È l’unica cosa che so», esordisce divertito.

Si può partire da una definizione allora: «Siamo una bellissima nave senza nocchiero, una nave alla deriva», sentenzia. Poi aggiunge subito: «Oggi complessivamente il sud è peggiorato, ma visto che siamo a livelli così bassi non si può fare altro che risorgere. E mi pare che ci sono buoni segnali».
Dice: «Il Sud deve emanciparsi. Prima doveva farlo dai francesi o dagli spagnoli, adesso da ‘ndrangheta, cosa nostra, camorra e sacra corona». L’osservazione immediatamente successiva è che «ci sono politici del tutto irresponsabili. Io al loro posto sarei preoccupatissimo – insiste – invece vedo che non c’è nessuna ansia di fare cose buone e direi che si cammina troppo a braccetto con il malaffare». Per emanciparsi il Mezzogiorno, secondo il regista salentino, deve «prendere coscienza di quello che può dare, della sua storia, delle sue capacità economiche», deve cioè considerare che «siamo al Sud dell’Europa, ma siamo anche al centro del Mediterraneo». E lancia subito il suo primo obiettivo: «Recuperare Napoli», perché «se si recupera una grande città come Napoli ci sarà un effetto trascinamento che servirà a tutti».
Winspeare spiega a chiare lettere che non si tratta solo di un problema delle regioni meridionali, ma è una questione centrale che riguarda il Paese intero. «Noi abbiamo perso il nostro Sud – rimarca – ma anche l’Italia l’ha perso» e invece avrebbe dovuto «approfittarne». Approfittare della posizione strategica che il Mezzogiorno ha, della funzione di ponte che può avere «con l’Africa, i Balcani», con Napoli che «deve essere la nostra Costantinopoli». Paradossalmente invece non solo il Sud non rappresenta questo punto di riferimento, ma si allontana dall’Italia, si allontana persino da se stesso: «Al Sud nessuno conosce nessuno – spiega Winspeare – Per arrivare da Lecce a Reggio Calabria devo prendere tre o quattro treni, impiego 12 ore. Per arrivare a Torino o a Milano prendo un aereo e ci arrivo in un paio d’ore». Insiste nel suo ragionamento chiarendo che tra le diverse realtà del Sud «non c’è scambio commerciale e culturale, ci sono pochi intellettuali e la maggior parte di loro non vede l’ora di andare via, non ci sono mostre, eventi, una vera casa editrice». Un ragionamento che Winspeare fa «da pugliese e, quindi, da chi in questo momento sta messo meglio degli altri».

Non è un pessimista Winspeare, non si capirebbe altrimenti perché ha deciso di restare. E allora prova a fare una scala di priorità che possano essere alla base di una «rivolta positiva del Sud». Bisogna perciò «partire dalla cultura, dall’ambiente e dai giovani». Serve una «rivoluzione ambientale» che significa «cura del nostro straordinario territorio, della nostra cultura, del lavoro dell’uomo», bisogna insomma «valorizzare la bellezza». Indica anche dei punti di riferimento, «dei maestri a seconda degli orientamenti politici: Salvemini per i socialisti, don Tonino Bello per i cattolici, Borsellino per i conservatori». E pone l’accento anche su due periodi storici, da riprendere in mano per provare a ripartire: «Il Seicento dei calabresi con i suoi santi eretici e visionari» e, più recentemente, «gli anni Cinquanta in cui operavano personaggi come Ferruccio Parri o De Gasperi che… si comportavano bene». E ce ne sono anche degli altri punti di riferimento: «Gli eroi quotidiani, cioè le persone che fanno ogni giorno bene il proprio lavoro, quelli che, per dirla con Borges, stanno salvando il mondo». Certo nessuno, nemmeno il regista pugliese, vuole raccontare un mondo che non c’è. Si tratta di intervenire in quello che non funziona: nei trasporti, nella politica, nelle buone pratiche. Si tratta di «lamentarsi di meno e darsi da fare», di «liberarsi dal pregiudizio che riguarda i meridionali – come avviene per le donne, che sono costretti a essere i più bravi, i più brillanti, i più trasparenti» per farsi strada, di superare la «pigrizia intellettuale» degli italiani e l’abitudine dei media di privilegiare «le idee semplici e preconcette per comunicare». Il Mezzogiorno d’Italia è «complesso, frutto di cinquemila anni di civiltà, con molte cose da scoprire». Un discorso che riguarda un intero territorio. «Per me il Sud sta tutto insieme e penso che per il Sud oggi valga davvero la pena di combattere – dice – e lo dico a costo di sembrare nostalgico». E questo perché «è vero che il Sud si sta prostituendo al consumo, ma ancora conserva un senso di comunità, un’anima che non dobbiamo perdere sull’altare dei neoricchi consumisti». Ci sono delle isole nel nostro Mezzogiorno che «dobbiamo difendere dal rischio che la piovra le inglobi perché dire che tutto è mafia significa dire che niente lo è: e poi si ha il gioco dei clan». In questo ragionamento Winspeare fa una precisazione: «È vero che noi abbiamo la mafia – sottolinea – ma è anche vero che nel Mediterraneo siamo gli unici a non avere problemi etnici o di fanatismi: siamo accoglienti, ci sono episodi nella nostra storia di tolleranza, amicizia», dice riferendosi anche a quelle straordinarie storie dei pugliesi cha accolgono gli albanesi e i calabresi che aprono le porta ai curdi o ai palestinesi. Tutto questo, secondo Winspeare, «può rendere molto più facile avviare un percorso di cambiamento delle cose». Ecco perché gli viene fuori dal flusso del ragionamento la suggestione di fare del Sud «l’Arca della pace», della cultura, della cura del territorio, del rispetto per l’uomo. Eccolo il Sud di Winspeare: «Un posto da cui partire, certo. Ma anche un posto in cui arrivare». Con Napoli a fare da capitale.

(Pubblicato sul quotidiano Terra il 28 novebre 2010)

Annunziata, uccisa per questione d’onore e dimenticata

di DANILO CHIRICO E ALESSIO MAGRO

Per molto tempo ha vissuto nascondendosi, forse vergognandosi. Poi l’hanno ammazzata, per una questione d’onore. E per trent’anni è svanita. Persino dal ricordo delle persone. Non ha avuto una storia, una faccia, semplicemente il proprio nome. Tutto è andato perso dentro la memoria corta e colpevole della Calabria. Oggi, da morta, le arriva un piccolo e certamente insufficiente risarcimento. Da morta, si riappropria di sé: si chiama Annunziata Pesce, è stata uccisa nel 1981. A “riportarla in vita” un’altra donna, un’altra Pesce. È Giuseppina, la pentita della cosca. La giovane donna che ha svelato le trame perverse che regolano la vita del clan, la vita dei rosarnesi. E che ha raccontato questa storia lontana, dimenticata. Un contributo prezioso – insieme a quello degli altri ‘ndranghetisti che hanno iniziato a collaborare in questi mesi – per il lavoro importantissimo che stanno conducendo i magistrati di Reggio Calabria che, non a caso, sono diventati spesso oggetto di minacce e intimidazioni.
Annunziata era colpevole di avere amato un carabiniere. Un’onta che una cosca come quella dei Pesce proprio non poteva accettare. E pazienza se per conservare l’onore è necessario uccidere il sangue del proprio sangue.

Nel libro “Dimenticati. Vittime della ‘ndrangheta”, pubblicato lo scorso ottobre, abbiamo raccontato la storia di oltre 250 morti ammazzati dalla ‘ndrangheta negli ultimi decenni. Minuziosamente abbiamo provato a recuperare piccole e grandi storie di donne e uomini uccisi e che lo Stato, la Calabria, il proprio piccolo paese, i vicini di casa hanno dimenticato. Un lavoro doloroso, che consideravamo e consideriamo necessario per provare a ricostruire – pezzo dopo pezzo – un’identità nuova per la Calabria che non può prescindere dalla memoria e dal senso di sé. Un intero, e lunghissimo capitolo, di questo libro è dedicato all’onore (e al disonore). Perché consideriamo necessario riscrivere il senso di questa parola che cambia colore e significato a seconda della persona che la pronuncia. L’onore è tutto per lo ‘ndranghetista, e il metro con cui si giudica un uomo d’onore poco ha a che fare con le regole civili. E troppo spesso onore fa rima con dominio sessuale. E se le donne hanno trovato, combattendo, la loro liberazione, il partito dell’onore è ancora vivo e vegeto, trasversale, potente, radicato al nord e al sud. In questo contesto si inserisce la ‘ndrangheta, custode arcaica e moderna di questo malinteso senso dell’onore.

Annunziata Pesce ha tradito l’onore due volte. Ha avuto una relazione extraconiugale. E, quel che è peggio, l’ha avuta – lei figlia di una famiglia di rispetto – con un carabiniere, uno sbirro. Nel libro “Dimenticati” c’è anche la storia di Annunziata, la più dimenticata tra i dimenticati. È quasi un fantasma nelle righe che le abbiamo dedicato, perché di un fantasma si tratta nel senso comune della Calabria e dell’anti-‘ndrangheta. Così abbiamo raccontato la sua storia senza sapere quale fosse il suo nome di battesimo. Ci abbiamo provato a scoprirlo, abbiamo chiesto e non abbiamo avuto risposte. Nessuno ne aveva memoria. Abbiamo deciso di scrivere lo stesso della sua storia, della sua decisione di violare l’educazione sentimentale della famiglia. Proprio mentre chiudevamo il libro, siamo riusciti a scovare le dichiarazioni dello storico e controverso pentito Pino Scriva, boss della Piana di Gioia Tauro. Ha raccontato che prima di farla fuori l’hanno seguita per avere la certezza del “tradimento”, scoprendo che incontrava l’amante in una pensione sulla costa tirrenica. Nelle sue dichiarazioni del 13 dicembre 1983 Scriva sostiene che la figlia di Salvatore Pesce, fratello del boss Peppe, e proprietario di una ruspa utilizzata per il movimento terra, è stata «sequestrata a Bagnara per motivi d’onore. La ragazza, sposata, aveva una relazione con un carabiniere di Rosarno e ciò per l’ambiente è fatto di particolare gravità». La ragazza «fu portata dai suoi fratelli latitanti e ivi uccisa e seppellita». Lo stesso Scriva ammette che i fatti gli sono stati raccontati, che la donna può anche essere stata mandata all’estero «evitando a Rosarno lo scandalo che si era creato». Una traccia. Adesso, in questa nuova e importante stagione di pentimenti, grazie alle dichiarazioni di Giuseppina Pesce e al lavoro della procura antimafia di Reggio, conosciamo un altro tassello di verità in questa storia agghiacciante.

La pentita ha raccontato di avere saputo, scrive Peppe Baldessarro su questo giornale di qualche giorno fa, «che “i sardignoli” (un braccio della famiglia) avevano una sorella sposata, Annunziata Pesce, la quale aveva avuto una relazione extraconiugale con un carabiniere». Di qui la decisione di ucciderla. Era l’aprile del 1981. A deciderlo sarebbe stato il vecchio boss Giuseppe Pesce, nonostante il tentativo dei “sardignoli” di risparmiarla. Secondo Giuseppina, «l’esecuzione della donna sarebbe stata eseguita da Antonino Pesce, 57 anni, e dallo stesso fratello della donna, Antonio Pesce di 47 anni». Perché per fare giustizia in questi casi è necessario che sia la stessa famiglia, che un familiare diretto sia presente.
È prezioso nel contrasto ai clan il contributo dei collaboratori di giustizia. Da questo punto di vista per Reggio s’è aperta una stagione che rischia di diventare storica dal punto di vista delle inchieste della magistratura e delle forze di polizia. Importantissime dimostrano di essere anche le dichiarazioni di Giuseppina Pesce che fanno chiarezza sulle cosche rosarnesi e riportano alla luce storie dimenticate. Che non sia l’occasione anche per avere nuovi e importanti elementi su un’altra storia dimenticata avvenuta a Rosarno qualche decennio fa: l’omicidio del segretario della sezione comunista del Pci Peppe Valarioti, ucciso a trent’anni l’11 giugno 1980.

(Pubblicato sul Quotidiano della Calabria il 28 novembre 2010)

L’altra Italia c’è già. E ha la camicia rossa

teano01TEANO (CE) – L’altra Italia c’è già. E oggi a Teano indossa la camicia rossa di Garibaldi. Soprattutto dimostra con grande semplicità e la giusta ambizione che vuole diventare l’Italia, per così dire, ufficiale. Perché già oggi opera concretamente sui territori, stravolge i dogmi della politica, concepisce l’amministrazione come strumento per valorizzare la vita delle persone, difendere il territorio, promuovere occasioni di lavoro buono.

«Stiamo assistendo a un piccolo miracolo», esulta Tonino Perna, il docente all’Università di Messina presidente del comitato promotore di un meeting che per quattro giorni mette a confronto amministratori, esponenti di associazioni e movimenti, intellettuali, cittadini. Per ricordare lo storico incontro tra Garibaldi e re Vittorio Emanuele II nel 150esimo anniversario e per provare a costruire una Italia unita su nuovi paradigmi politici ed economici, attorno a una nuova idea di democrazia.
Nuovi paradigmi contenuti in un decalogo che dice a chiare lettere che non è un reato accogliere i profughi e i migranti, che le energie rinnovabili sono una risorsa, che cultura, ambiente e territorio sono beni indisponibili, che le diversità locali sono il futuro del Paese, che le opere pubbliche non devono essere grandi ma semplicemente utili, che i pilastri su cui provare a costruire il Paese del ventunesimo secolo non possono che essere la solidarietà, la pace, la pari dignità tra uomo e donna, la scuola e la ricerca pubblica, la memoria delle migliori storie passate, l’antimafie. Belle parole e grandi ideali, certo. Ma la forza dell’appuntamento di Teano sta nella capacità di dimostrare che assieme allo studio, all’approfondimento, alle suggestioni intellettuali, ci sono – e funzionano – realtà che già applicano questi principi. Lo dimostra l’esperienza con i migranti dei comuni calabresi di Riace e Caulonia (con i sindaci Mimmo Lucano e Ilario Ammendolia), il racconto sull’acqua bene comune di Anna Maria Bigon che è a capo del comune di Povegliano Veronese, le testimonianze concrete dei sindaci Mario Cicero (Castelbuono, in Sicilia), Sabina Sergio Gori (Quarrata, in Toscana), Eugenio Melandri (Genzano, nel Lazio), Claudio Bertolat (Torre Pellice, in Piemonte), Luca Fioretti (Monsano), Rossella Blumetti (assessore del comune di Corsico, in Lombardia) che operano nel mondo dell’altra economia, dell’altro mercato, delle buone pratiche, della cooperazione decentrata. Lo dimostra la battaglia per “zero consumo del territorio” del primo cittadino di Lugagnano (in Lombardia) Domenico Finignana che ha elaborato un piano regolatore dove non c’è spazio per un solo metro quadro di nuovo cemento.
Certo, non è tutto oro quello che luccica. Basti pensare alla incredibile vicenda di Enzo Cenname primo cittadino di Camigliano, in provincia di Caserta, sollevato dall’incarico per “troppa” raccolta differenziata. Paradossale se si pensa che siamo a pochi chilometri da Terzigno. O basti pensare al racconto del sindaco di San Giorgio Morgeto (in provincia di Reggio Calabria) Nicola Gargano che, nella sua qualità di rappresentante dell’associazione degli enti locali contro le mafie Avviso pubblico chiede all’assemblea di Teano di assumere come primo punto del nuovo Patto per l’Italia la lotta alla criminalità organizzata. «Se non affrontiamo questo tema – tuona – raggiungere tutti gli altri risultati diventa impossibile». Inserire questa priorità nel decalogo «potrebbe somigliare a un’ammissione di una sconfitta, ma fare finta che il problema non esiste non aiuta a risolverlo. Anzi: ammettiamo la sconfitta e rimbocchiamoci le maniche. Combattiamo una battaglia per la giustizia e per non fare sparire i nostri piccoli comuni».
Tutto questo, molto altro, sta dentro il Patto (ancora al centro di un lavoro straordinario di discussione, limature, aggiunte, correzioni) che viene letto all’assemblea con il meridionale Mimmo Rizzuti, coordinatore della Sem (Sinistra euromediterranea) e la settentrionale Chiara Sasso, rappresentante della Recosol (Rete dei comuni solidali) a fare da cerimonieri davanti a un pubblico che si colora sempre di più di rosso: in tantissimi indossano la camicia garibaldina, quasi a voler rinnovare anche simbolicamente l’unità d’Italia di Teano. Un’unità che non sia più un’annessione del Sud al regno, ma un patto sincero e solidale tra pari che si contaminano e si mettono in discussione. Un percorso difficile. Ci prova, «seguendo il filo della mitezza», lo storico Paul Ginsborg a lavoro con altri studiosi lungo la strada che congiunge la “verità” storica come elemento necessario per conquistare la “riconciliazione”. Magari un punto di vista inglese può servire a rendere l’analisi può serena e quindi giusta. Unica avvertenza: mentre apre i lavori anche lui, divertito, indossa la camicia rossa. Accostata all’accento british fa un certo effetto.

Pubblicato su Il quotidiano della Calabria il 25 ottobre 2010