A poche ore dalla fine di questa campagna elettorale invernale persino le parole sono avvilite, e svilite. Sono state via via svuotate e ferite, piegate agli interessi di parte e usate opportunisticamente, private cinicamente del loro significato. Si tratta di un fenomeno politico che va avanti da anni: come dimenticare, solo per fare un esempio, che abbiamo chiamato colpevolmente flessibilità la precarietà selvaggia e missione di pace le guerre e i bombardamenti. Eppure questa campagna elettorale ha chiarito definitivamente che la trasfigurazione del linguaggio è frutto di un processo sociale che certo riguarda la politica ma ha come protagonisti indispensabili i giornalisti e soprattutto la cosiddetta società civile.
LE PAROLE SVILITE – Così hanno perso di significato parole come “corruzione” (di cui parlano con la stessa disinvoltura Berlusconi che si vanta di essere il primo firmatario della legge, Monti che ha fatto la legge e oggi non firma gli appelli delle associazioni, Bersani che ha votato la legge e non la voleva, le persone che volevano una legge vera), “casta” (al centro di ogni programma elettorale: di chi ha rubato e di chi ha avuto atteggiamenti francescani, di chi è ossessionato e di chi lo considera un falso problema). Una segnalazione particolare merita la parola “riforme” (usata come mantra per ogni ragionamento, spesso di segno contrapposto) e soprattutto il termine “riformista” (l’appellativo fondato sul nulla e utilizzato a sproposito per legittimare alleanze elettorali). E ancora sono state offese parole come “democrazia” (adoperata per esempio per coprire il narcisismo dei giornalisti tv che vorrebbero ospitare il faccia a faccia tra i leader e non ci riescono), “partecipazione” (strappata da chi pensa che la soluzione a tutti i mali sia togliere il finanziamento alla politica, e quindi proprio alla partecipazione), “moderato” (di cui si appellano personaggi che seminano odio come Giovanardi), “nuovo” (con cui si presentano ai cittadini personaggi che sono classe dirigente da decenni), “equità” (di cui parlano politici e tecnici che hanno governato producendo diseguaglianze). Si potrebbe continuare all’infinito. Con parole forti e importanti come “cambiamento”, “rivoluzione”, “libertà”, “legalità”, “radicalità”, “futuro”, “civismo”, “garantismo”, “crescita”, “trasparenza”. Tutte storpiate, e ammutolite.
LA CAMPAGNA ELETTORALE – Un processo inesorabile e che s’è cristallizzato nelle regole della politica nell’era della comunicazione. Che tutto fagocita e distrugge. Come spiegarsi altrimenti la visibilità data alle giacche di Formigoni, al cv di Giannino e all’indignazione pelosa di Zingales, alle bizze di Loretta Napoleoni, alle parolacce di Berlusconi, ai cani di Monti o Ruotolo. Come giustificare viceversa l’inseguimento in tutta Italia a Grillo, le proteste contro Crozza. O la quasi ossessione per le battute di Bersani o gli affetti di Vendola. Come considerare persino la banalizzazione offensiva delle dimissioni del Papa.
LA POLITICA PENSA A SE’ – E’ vero che il sistema politico è al collasso e che tira l’aria di una nuova tangentopoli. Ma questo non può bastare per capire in che Paese viviamo. Demonizzare la politica è un esercizio facile e autoassolutorio. La realtà è ben diversa e ha a che fare con la vita delle persone, con disagi e problemi, ambizioni ed entusiasmi, frustrazioni e delusioni. Desideri. La politica non l’ha voluto capire e ha curato gli interessi (spesso illeciti) di se stessa. Anche l’informazione se n’è disinteressata, stretta tra la pigrizia, le ragioni dell’economia, l’egocentrismo e la voglia di potere. È per questo che i giornalisti fanno gli opinionisti, i moralizzatori o i teatranti e non sanno più fare le domande, per questo sono scambiate per buona informazione i microfoni sbattuti in faccia alla gente e per inchieste le informative dei carabinieri, per questo sui giornali o in tv si avverte un insopportabile stupore nello scoprire – da Grillo agli operai, dai ricercatori alle donne – che esiste un mondo al di fuori degli editoriali fintoprovocatori di Battista o polverosi di Scalfari.
LA SOCIETA’ CIVILE. COSIDDETTA – Non è colpa però solo della politica, solo dell’informazione. E’ colpa innanzitutto della società civile, la cosiddetta società civile espressione – anche questa – abusata, svilita, offesa. Si vivono come società civile Silvio Berlusconi (l’imprenditore che scende in campo), Mario Monti (il tecnico che sale in politica), Luca Cordero di Montezemolo (un “mille incarichi” che si mette a disposizione del Paese), Oscar Giannino (il giornalista costretto a liberarci dal declino), Beppe Grillo (il comico costretto a rivoltare l’Italia come un calzino), Antonio Ingroia (il magistrato che tornerà a fare il magistrato). E anche dentro il Pd e Sel sono in tanti a essere espressione dalla società civile. Mille espressioni della società civile, comprese le associazioni, i comitati, i movimenti, gli ordini professionali, le associazioni di categoria, le lobby (più o meno legali), animati da un logoro ceto politico (seppure declinato nei vari settori) e che pure si sente depositario unico e irripetibile del titolo di “civico” e della legittimazione a distribuire patenti per buoni e cattivi. Il risultato, di solito, è duplice: si inocula veleno nella politica, ma della politica si acquisiscono presto vizi e virtù. E così dire “società civile” non ha più nessun senso.
LA RINUNCIA ALLA COMPLESSITA’ – Così tutto si confonde in una corsa deteriore verso la semplificazione (altro che semplicità) di maniera e la rinuncia a comprendere la realtà, che costruisce mostri e cancella le differenze, appiattisce i percorsi invece che valorizzare le esperienze. Così se è vero che in questo Paese ci sono donne e uomini che si spaccano la schiena per lavorare e costruire, è anche vero – e sempre di più – che troppe cittadine e cittadini (i navigatori, gli utenti, il pubblico pagante o adorante, comitati, movimenti) si sentono portatori della verità, non hanno mai dubbi e macinano certezze. Sono massimalisti nell’atteggiamento e non radicali nelle scelte, autoritari nelle pratiche e non autorevoli nelle relazioni, praticano il giustizialismo e non si occupano della giustizia sociale.
LA SOCIETA’ CHE C’E’ – Hanno costruito – a vario titolo, con ruoli diversi – un modello sociale in cui si chiede la fine della casta senza immaginare una via d’uscita, in cui il comitatismo e la politica dal basso sono positivi di per sé, in cui va bene evadere le tasse o non rispettare gli impegni, in cui la corruzione e la mafia sono falsi problemi, in cui è naturale agire con l’indice puntato e animare tribunali da santa inquisizione, in cui si chiede vendetta e non giustizia, in cui si chiede giustamente il taglio degli stipendi ma si ammette il licenziamento di una donna perché incinta. O hanno costruito un’idea di Paese dove non conta il segno delle scelte economiche, dove non si devono mai spiegazioni e risposte, che ha come riferimenti culturali soltanto le banche europee, che considera il sindacato un problema, in cui ci si bea della purezza inconcludente delle bandiere, in cui anche l’amore può essere un problema e gli stranieri non hanno diritti di cittadinanza.
LA DISCUSSIONE VIZIATA – Politica, informazione e società civile – insieme – hanno perciò costruito una discussione pubblica viziata e falsata. Da luoghi comuni, banalizzazioni, share e assenza totale di curiosità. Il risultato è che mentre si impartiscono lezioni dall’alto della società civile può succedere (è accaduto) che sei un imprenditore e fai solo leggi ad personam, che sei un tecnico vai in Germania e torni dicendo bugie da quattordicenne sui tuoi colloqui di Stato, che sei una professoressa e sbagli i calcoli e lasci per strada decine di migliaia di esodati, che sei un comico che vuole cambiare l’Italia e non scrivi neppure la parola mafia nel tuo programma, che sei un magistrato e proponi di togliere le garanzie processuali o sei un magistrati e hai fatto tangentopoli e il tuo avvocato lo beccano con le mani nel sacco, che sei di un comitato a cinque stelle di brave e oneste persone e chiamano la polizia per sedare una rissa durante una riunione per decidere le candidature, che sei di uno storico centro sociale o un’associazione meritoria e la tua spinta l’hai esaurita cinque o 10 anni fa e non te ne riesci a rendere conto. Può succedere, è già successo. Per questo sono inammissibili, oltre che incomprensibili le rendite di posizione e le diversità etiche e politiche che si pretendono di avere.
L’ASSENZA DELLE IDEE – Attaccare a testa bassa la politica oltre a non essere particolarmente originale ed essere piuttosto redditizio in termini elettorali (Lega e Berlusconi insegnano) è banale, inutile, comodo. Persino colpevole. Certo, anche la denuncia merita attenzione e rigore, anche la protesta. Sono fenomeni reali e grandi. Ma le rivoluzioni e i grandi cambiamenti sono stati frutto di spinte sociali fortissime, di impeti popolari e anche di grandi idee. Senza le idee sono rivolte populistiche, non popolari. Riforme per le élite, non per il popolo. La soluzione allora è nella fatica della partecipazione senza pregiudizi, nel mettersi in discussione anche con asprezza, nella pratica concreta della trasformazione, nel ragionamento fondato sul coraggio e la passione, lo spirito critico e il rigore. Il semplice cambiamento non serve, serve un cambiamento con delle qualità. Che ciascuno può scegliere. Ma che può esistere davvero solo se si assume il metodo della complessità dall’analisi, la comprensione delle contraddizioni, l’obiettivo del miglioramento della vita delle persone. Perché non è un buon Paese quello che confonde il disagio con l’indolenza, la paura con la codardia, l’insicurezza con l’ incapacità, la fame con la delinquenza, il diritto con il favore, l’innocente con il colpevole. Solo allora le parole torneranno ad avere il loro significato. Allora politica, informazione e società civile avranno di nuovo senso e compiutezza. E il Paese sarà migliore. Buon voto a tutti.