Capitale in nero – Soldi, sangue e potere

Il quadro è unico. La droga e l’usura, gli omicidi e le gambizzazioni, il gioco d’azzardo e il riciclaggio del denaro sporco. I clan della ‘ndran- gheta e della camorra e le bande che seminano il panico nelle borgate, i professionisti che amano il denaro facile e i politici che di facile amano gli affari degli amici e i pacchetti di voti. Tutto si tiene, grazie a un filo rosso, rovente e pericoloso. Chi sbaglia a toccarlo muore, chi lo sa maneggiare diventa maledettamente ricco, e potente. In mezzo i romani. Che ancora non sanno (o vogliono) vedere, complice una politica tutta impegnata a difendere solo un malinteso senso del decoro di una Capitale in pericolo.

Un quadro unico

Il quadro è unico. Ed è complesso e mag- matico, pieno di insidie e sfumature. È particolarmente difficile allora collocare le mille tessere di un puzzle abitato da vecchi e nuovi poteri e personaggi. Ad offrire una chiave di interpretazione è il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Intervistato dal Tgr sull’emergen- za omicidi, risponde così: «È una cosa che può anche esserci». Colpisce però che orienti subito la sua riflessione in un’altra direzione: «Il problema di Roma invece è negli investimenti che le cosche criminali cercano di fare o nelle attività commerciali o imprenditoriali», grazie anche all’apporto «di commercialisti o professionisti». Bisogna seguire i soldi, allora. La stessa traccia su cui insiste anche il prefetto, Giuseppe Pecoraro, che intervistato dal Corriere della Sera, prima se la prende con i sociologi che «fanno allarmismo, danneggiano l’immagine della città e del Paese», ma poi riconosce che la malavita organizzata c’è «perché investe sul mercato, in attività commerciali e nel riciclaggio». Vale la pena, allora, partire dal vorticoso e gigantesco giro d’affari della Capitale: dalle grandi speculazioni finanziarie e immobiliari, dall’industria del turismo (hotel e ristoranti) che comincia a puzzare di ‘ndrangheta, dai centri commerciali delle periferie che invece sembrano finiti in mano alla camorra, dal gioco d’azzardo (legale e illegale). Dalla droga, innanzitutto: in città arrivano ogni giorno quantità inimmaginabili di stupefacenti. Passano attraverso quel «buco nero che è la dogana di Fiumicino» e dal porto di Civitavecchia. Un business miliardario in mano alla ‘ndrangheta, che gestisce rapporti privilegiati con i narcos sudamericani e messicani, e alla camorra. I clan operano quasi sempre senza pestarsi i piedi: si limitano a gestire gli affari più grossi e a fare da broker per le bande locali che con il piombo dei proiettili, per dirla con il capo della Direzione distrettuale antimafia, Giancarlo Capaldo, «si stanno contendendo il territorio».

Ma per capire cosa accade bisogna con- centrare l’attenzione anche su un altro affare tradizionale della mala romana: l’usura (vedi articolo a pag. 15). Que- stioni di sempre, come spiega nel 1991 la commissione parlamentare antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte: la malavita dispone di una «imponente liquidità» che consente «di penetrare nel mondo economico modificandone i vecchi assetti» con il «coinvolgimento» del mondo delle professioni. Non era Cassandra, la commissione antimafia. Osservava la realtà. Che è peggiorata, come dimostrano i numeri. Distaccati e allarmanti. Paese Sera ha calcolato che dal luglio 2010 al luglio 2011 il valore dei beni sequestrati ai clan tra Roma e provincia è pari a 122 milioni di euro, quello dei beni confiscati è invece di 212. A queste due cifre, già importanti, va aggiunta una quota significativa (ma non esattamente quantificabile) di beni sequestrati in blitz fatti tra il Sud e la Capitale, per l’iperbolica cifra di un miliardo di euro.

Altri dati, molto interessanti, contri- buiscono a diradare la nebbia: il primo dice che sono 274 i procedimenti aperti dalla Dda nei primi sei mesi del 2011, il secondo che sono 293 i beni confiscati a Roma (dato dell’Agenzia nazionale al settembre 2011), il terzo riguarda le 211 nuove licenze attribuite a Roma nei primi 7 mesi dell’anno per i negozi di compro oro (il 20% in più dell’anno scorso), una cifra che gli investigatori considerano sospetta. Ma soprattutto un numero rivela l’enormità del capitale in nero: l’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia ha contato ben 2473 operazioni bancarie sospette a Roma (di gran lunga la prima città italiana) nei primi sei mesi del 2011. Una cifra che diventa ancora più preoccupante se si confronta con un altro numero: sono appena 84 le segnalazioni per questo tipo di attività a rischio arri- vate dal mondo delle professioni. Non a caso il direttore dell’Uif Gianni Castaldi, parlando all’Antimafia il 28 giugno, ha segnalato la presenza di «soggetti che, pur non essendo organici al crimine (…) ne sfruttano cinicamente i vantaggi, anteponendo alla legalità e alla giustizia meschini interessi personali».

Roma, per usare le parole del sostituto della Direzione nazionale antimafia Diana Di Martino, è lo «snodo essenziale per tutti gli affari leciti e illeciti», così le organizzazioni criminali «acquisiscono anche a prezzi fuori mercato, immobi- li, società e attività commerciali nelle quali impiegano i capitali illecitamente acquisiti». Un modo per acquistare «il controllo di rilevanti attività commer- ciali e imprenditoriali» e per dotarsi di «fonti di reddito importanti e lecite». Un processo inarrestabile e, tutto sommato, semplice. Per due ragioni: perché a Roma «c’è posto per tutti» (e quindi i clan non si fanno la guerra) e perché tutto avviene senza generare un significativo «allarme sociale», che poi significa anche che non c’è la giusta attenzione, non ci sono – forse – gli anticorpi necessari.

Le inchieste

Un quadro unico, e inquietante – quello che viene fuori dalle inchieste – nel quale, a cavallo tra legale e illegale, si muovono con ruoli diversi professionisti, imprenditori, faccendieri, funzionari di banca, politici, massoni e mafiosi. Come un grande monòpoli con in palio denaro a fiumi e il potere nella città di domani. Emblematico, in questo scenario, è il caso Pambianchi. Il presidente di Confcommercio (a processo il 15 novembre) e il suo socio, il commercialista Carlo Mazzieri, sono accusati dallo scorso marzo di eva- sione fiscale per 600 milioni di euro. La loro organizzazione (almeno 39 persone tra professionisti e prestanome), per la Polizia valutaria della Guardia di finanza, consentiva «mediante operazioni socie- tarie straordinarie di realizzare rilevanti operazioni immobiliari e societarie» e di ristrutturare «gruppi economici gravati da forte indebitamento con l’erario». Un meccanismo perfetto che utilizzava scissioni e fusioni ad hoc, cessioni di rami d’azienda e trasferimenti all’estero. Un affare per 703 società.

Altrettanto grave è il quadro che emerge anche dall’inchiesta su Gianfranco Lande, il promotore finanziario dei vip ai Parioli. Secondo le Fiamme gialle ha «raccolto abu- sivamente risparmio presso il pubblico dal 1994 al 2000»: un giro, su società inglesi e irlandesi, da 1500 clienti e 350 milioni di euro. Lande ha anche «trasferito oltre 700 posizioni abusive, per un totale di circa 235 milioni» a un’impresa francese apparentemente regolare. Tuttavia, allo scadere delle obbligazioni, i soldi invece che ai clienti sono finiti «su conti esteri nella disponibilità degli indagati». Fare la somma di vicende diverse e processi ancora da celebrare può essere arbitrario, ma impressionano, ancora una volta, i numeri: oltre 800 milioni di euro, tra presunte evasioni fiscali e risparmi finiti in un vortice d’illegalità. Dove può diventare difficile distinguere il confine tra vittime e carnefici, come ha sostenuto lo stesso Lande in un’intervista a Repubblica e come ha sottolineato il Giudice delle indagini preliminari dell’inchiesta, Simonetta D’Alessandro, nell’ordinanza di custodia cautelare per bancarotta fraudolenta emessa a settembre: alcuni clienti di Lande «hanno probabilmente capito la natura meramente apparente dell’impresa» e, “convinti” dai super interessi promessi, hanno comunque deciso di investire «sulla pelle» degli altri. Non è un caso, allora, se a fronte di 1678 vittime individuate, le querele sono appena 350. Altri aspetti tutti da approfondire riguardano il ruolo delle banche (tre i direttori di filiale indagati), della ‘ndrangheta (il clan Piromalli avrebbe minacciato Lande), dell’estrema destra (almeno una persona è appartenuta a Ordine nuovo). E c’è da valutare anche la posizione di un manager importante (ex di Finmeccanica) come Pierluigi Romagnoli (che ha curato l’affare degli aerei Eurofighter).

Business importanti. Ma forse non come quelli del gruppo di Gennaro Mokbel, l’imprenditore romano con rapporti con i terroristi neri Mambro e Fioravanti, con uomini della Banda della Magliana e il boss Carmine Fasciani. L’inchiesta Broker ha svelato una rete di aziende italiane ed estere capace di mettere in piedi un giro da due miliardi di euro grazie a gigantesche operazioni di riciclaggio nel settore della telefonia (fu coinvolta innanzitutto Fastweb). Un piano criminale con ambizioni politiche: Mokbel nel 2008 infatti riuscì a portare in Senato con il Pdl il suo amico Paolo Di Girolamo, finito nei guai (e arrestato) per i suoi rapporti con la cosca Arena di Isola Capo Rizzuto, capace di garantirgli l’elezione nella cir- coscrizione della Germania. È certamente più piccolo il giro d’affari svelato dal pm Stefano Pesci a fine settembre, ma il quadro emerso è paradigmatico di un sistema pieno di incrostazioni. Le Fiamme gialle hanno scoperto migliaia di polizze (almeno 2660) concesse abusivamente attraverso un consorzio di garanzia fidi, la Congafid, i cui fondi venivano destinati a società titolari di centri estetici. A finire ai domiciliari il dominus della Congafid Nicola Defina e la sua compagna Sandra Zoccali: è titolare dal 2009 dell’Adonis, la holding che detiene il controllo dei centri estetici e, soprattutto, del Caffè Chigi sequestrato a luglio perché con- siderato di proprietà della ‘ndrangheta (vedi articolo a pag. 16). Affari e relazioni pericolose. E storie che si ripetono. Con imprenditori, faccendieri, picchiatori, usurai e uomini legati alla Banda della Magliana, alle mafie. Chi non ricorda, in questo senso, il crack di Danilo Coppola, protagonista della stagione dei “furbetti del quartierino” e capace di entrare nel salotto buono della finanza italiana. È il marzo 2007 quando l’imprenditore originario di Borgata Finocchio finisce in cella per un crac da almeno 130 milioni. Nell’inchiesta finiscono le banche (che hanno finanziato l’ascesa di Coppola), personaggi come Umberto Morzilli (vedi box a pagina 11), considerato dagli inve- stigatori vicino ad ambienti della famosa Banda della Magliana. Un quadro torbido, ed esemplare.

La mala romana e le mafie

«Non siamo a Napoli o a Palermo», si affanna a dire il sindaco di Roma Gianni Alemanno, lanciando l’ennesimo patto per la sicurezza da discutere a ottobre in consiglio comunale. Ma, è evidente, non siamo neppure di fronte a una “ba- nale” (si fa per dire visti gli omicidi e i ferimenti che si ripetono) emergenza di bande giovanili, per le quali il prefetto Pecoraro, dopo gli ultimi fatti di sangue, ha proposto l’istituzione di una task force. Roma, e non da oggi, deve fare i conti con una presenza forte dei clan. Calabresi, campani, siciliani, stranieri. E anche romani. Suggerisce un magistrato rigoroso, che per anni ha seguito le vicende criminali della Capitale: «Bisogna immaginare un consorzio, una sorta di Ati per capire il rapporto tra la mala romana e le mafie». Nel corso del tempo, «s’è cristallizzato un modello orizzontale di controllo delle attività imprenditoriali». Niente a che vedere con il verticismo di siciliani e calabresi e nemmeno con «il modello della Banda della Magliana, che in un certo momento controllava tutto in maniera solida», né bisogna rifarsi oggi al mito letterario di Romanzo criminale. Esiste uno schema «libero e particolarmente insidioso, evoluto, dal carattere fortemente imprenditoriale, aterritoriale e legato al settore di affare, con una straordinaria capacità di relazione con le altre forme di malavita organizzata». È il paradigma di Roma città aperta alle mafie, condiviso da altri magistrati. Dalle loro riflessioni, anche se con il vincolo della riservatezza, emerge un sistema in cui chiunque voglia fare affari trova un’operatività che con- sente di sviluppare il business al meglio: «è come se ci fosse un’agenzia di servizi criminali super efficiente».

Tuttavia i fatti di sangue dicono che qualcosa sta cambiando (e qualcuno il parallelo con le origini della Magliana lo azzarda). Che cosa stia accadendo ancora non lo sa nessuno. L’associazione Libera rileva tuttavia che i grandi traffici e la gestione dei reati «necessitano per l’ot- timizzazione dei profitti la formazione di una regia di controllo».

In passato

È accaduto che la mala romana abbia avuto rapporti con Pippo Calò e Cosa nostra, ci sono tracce di vertici tra la banda della Magliana e il boss della ‘ndrangheta Gior- gio De Stefano negli anni 70, ci sono i rapporti della Magliana con la camorra per la droga. Uno schema mobile, trasversale, infinitamente replicabile. La straordinaria (a suo modo) storia di Enrico Nicoletti, considerato il cassiere della Magliana, ne è un esempio. In quarant’anni è stato accusato di usura ed estorsione, di abusivismo finanziario e ricettazione, riciclaggio e bancarotta. Dalle indagini emerge soprattutto la ca- pacità di gestire rapporti e relazioni con chiunque, anche contemporaneamente, come dimostrano i suoi rapporti con cosa nostra, la ‘ndrangheta e la camorra, con personaggi della destra come l’ex Nar Massimo Carminati, con la politica e la Dc di Andreotti, con i servizi segreti. Lo dimostra anche l’inchiesta Ibisco contro una cosca della ‘ndrangheta guidata da Candeloro Loruccio Parrello, boss di Palmi (nel reggino), con la residenza a Grottaferrata e gli affari nella Capitale. Secondo il Ros dei Carabinieri, Parrello curava un gigantesco traffico internazionale di hashish e cocaina: nel suo clan c’erano broker romani come il principe Massimo Avesani, camorristi, ex esponenti della Magliana, un ex poliziotto e sudamericani. Lo sbocco di tutto questo erano operazioni immobiliari e finanziarie nella Capitale e il lusso di auto, ville e yacht.

Non c’è solo la ‘ndrangheta nelle radici della grande criminalità romana. Nella Capitale ha avuto una forte influenza un personaggio come Michele Senese uomo della camorra a Napoli ma non a Roma, dove è stato processato e assolto per 416 bis. Secondo i carabinieri, Senese, o pazzo, è un uomo della Nuova Famiglia, arriva a Roma negli anni 80, diventa il riferimento dei campani per tutti gli affari capitolini, traffica droga e controlla Roma Sud, il banco dei pegni, il mercato delle auto, entra negli appalti pubblici. Anche lui lavora con la Magliana e all’occorrenza con i calabresi.

E nessuno che vede

Sangue e soldi. Con ‘ndrangheta e camorra che fanno i grandi affari, i vecchi della Magliana che continuano a esercitare il loro carisma, i gruppi locali che si con- tendono il territorio a colpi di pistola. E soprattutto il mondo dell’economia che gode dei benefici del denaro sporco, soprattutto in epoca di crisi. Nel silenzio generale. Eppure, come dice nel 2008 l’ex sostituto della Direzione nazionale anti- mafia, Luigi De Ficchy (oggi procuratore a Tivoli) a Roma si lavora sulla crimina- lità organizzata «da trent’anni». C’è un ritardo di consapevolezza che la città rischia di pagare a caro prezzo. Ci sono le complicità istituzionali, le collusioni bancarie, le convenienze delle professioni, le colpe della politica, c’è il concetto della sicurezza declinato soltanto sull’ordine pubblico e i piccoli reati. E ci sono le forze dell’ordine che lamentano tagli a uomini e mezzi, una procura che vive un momento difficile: spaccata al proprio interno, con il capo in scadenza e il capo della Dda sotto indagine disciplinare per il caso Milanese.

Serve un’assunzione di responsabilità di tutti e di ciascuno. Non basta il lavoro prezioso delle associazioni antimafia. Il rischio è che Roma si ritrovi a vivere una stagione come quella in Sicilia negli anni 50, in Calabria negli anni 70 e a Milano negli anni 90. Quando nessuno ha voluto vedere. Anche quando si conoscono i nomi e i cognomi di chi sta aggredendo il tessuto economico e sociale della città. Basta scorrere l’elenco dei proprietari effettivi dei beni sequestrati solo nell’ul- timo anno, dal centro alla periferia fino ai comuni dell’area metropolitana, alle organizzazioni mafiose: Alvaro, Mallardo, Fairè, Schiavone, Cava, Ciarelli, Tripodo, Diana, Chianese, Pesce, Belforte, Gallico, Molè. E seguire la traccia dei soldi.

(Paese Sera n. 5 – Capitale in nero – Ottobre 2011)

Di mafia si parla, ma sottovoce

Sostiene Ilda Boccassini, capo della Dda di Milano: «C’è un tessuto della nostra imprenditoria che ha interesse a fare affari con la criminalità organizzata. Quindi, non denuncia per convenienza». Afferma Diana De Martino, sostituto procuratore della Dda di Roma: «Si assiste a una infiltrazione della malavita organizzata nell’economia anche attraverso un modello criminale di derivazione economica, dove in alcuni casi gli imprenditori si mettono spontaneamente al servizio delle mafie oppure sono gli stessi mafiosi a operare come imprenditori». Parole “gemelle”, che raccontano del consenso di cui le mafie godono nelle nostre città. Parole pesanti, alle quali hanno risposto in molti in questi mesi. Spesso per sminuire, precisare, difendere un malinteso orgoglio cittadino. Sottolinea l’ex sindaco di Milano Letizia Moratti (a Giuliano Pisapia il compito di ribaltare l’impostazione): «Io parlerei più che di infiltrazioni mafiose di infiltrazioni della criminalità organizzata». Il primo cittadino di Roma Gianni Alemanno parla invece di «situazione sotto controllo» e timbra le parole della pm romana come «decisamente enfatizzate». Afferma il prefetto di Milano Gian Valerio Lombardi che «a Milano e in Lombardia la mafia non esiste. Sono presenti singole famiglie»; sentenzia il prefetto della Capitale Giuseppe Pecoraro che «le organizzazioni criminali non controllano il territorio della Capitale». Colpiscono queste dichiarazioni, quali che siano le ragioni che inducono a farle. E stupisce, soprattutto, che rappresentanti istituzionali abbiano posizioni così distanti (quando non antitetiche). Anche perché dovrà pur avere un peso il fatto che i tribunali di Milano – da “Infinito” a “Crimine” – siano affollati di processi ai clan o che la Dda romana da gennaio a oggi abbia aperto ben 274 procedimenti penali.

Rileva il procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone: «La scelta delle cosche calabresi di adottare una politica di basso profilo e la corrispondente scarsa attenzione dell’opi- nione pubblica hanno finora ostacolato la comprensione della sua reale natura di associazione mafiosa che, proprio perché tale, è capace di penetrare in strati sociali diversi, di acquisire alleanze e complicità, basate spesso sulla paura, ma a volte anche su calcoli di convenienza». Fingere che la ‘ndrangheta non sia esistita, l’ha resa la più potente delle mafie. A Reggio Calabria e a Milano. E a Roma? «C’è posto per tutti», avverte Diana De Martino. E parla di mafie, ovviamente. Speriamo che il protocollo appena firmato da Comune, Prefettura e Camera di commercio sia un primo passo vero per contrastarle.

(Mammasantissima, Paese Sera n. 2 luglio-agosto 2011)